Il punto

Democrazia Futura. Proseguono le trattative ma anche le stragi senza sbocco

di Giampiero Gramaglia, giornalista, co-fondatore di Democrazia futura, già corrispondente a Washington e a Bruxelles |

Il punto delle trattative, l'analisi del contesto geopolitico delle due guerre in Medio Oriente e in Ucraina, gli sviluppo del conflitto nella Striscia di Gaza e nella Regione e da ultimo la situazione in Ucraina dopo lo sblocco degli aiuti da parte dell'Unione europea.

Giampiero Gramaglia

Diversi i temi affrontati da Giampiero Gramaglia nell’articolo “Proseguono in Medio Oriente le trattative ma anche le stragi senza sbocco[1]“. A proposito della missione di Blinken l’ex direttore dell’Ansa osserva come “A medio termine, la credibilità negoziale degli Stati Uniti è indebolita proprio dalla rigidità del premier israeliano Benjamin Netanyahu sulle soluzioni a medio e lungo termine. Invece, la proposta a breve, messa a punto da Stati Uniti, Egitto e Qatar, di un cessate-il-fuoco di alcune settimane in cambio di uno scambio ostaggi / prigionieri pare in stallo: Hamas dice che nessuno ostaggio sarà più rilasciato fino alla cessazione delle ostilità, che Israele non prevede; e Israele si irrigidisce sul rilascio dei prigionieri”.

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La guerra tra Israele e Hamas entra nel quinto mese, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia sta per compiere due anni. Né su un fronte né sull’altro, c’è un barlume di speranza di pace; anzi, in Medio Oriente il rischio di un allargamento del conflitto non è mai stato così’ elevato, anche se c’è fermento di negoziati per una tregua; il fronte ucraino è fermo e non c’è aria di trattative.

E una notizia tragica, ma non del tutto inattesa, offusca l’ennesima missione diplomatica intrapresa il 4 febbraio nella Regione dal segretario di Stato Antony Blinken: oltre un quinto dei più di 130 ostaggi che si pensava fossero ancora nelle mani di Hamas e di altre sigle terroristiche palestinesi sono morti, 32 su 136 secondo un rapporto dell’intelligence militare israeliana diffuso dal New York Times.

Il punto delle trattative

La rivelazione getta un’ombra sui negoziati in atto per il rilascio degli ostaggi in cambio – si fanno varie ipotesi – del ritiro degli israeliani dalla Striscia di Gaza o di una tregua più o meno prolungata e della liberazione di detenuti palestinesi dalle carceri israeliane. Manca il dettaglio delle circostanze delle morti, cioè se gli ostaggi siano stati vittime delle violenze dei carcerieri o dei combattimenti tra israeliani e palestinesi o dei bombardamenti.

Blinken cerca di condurre in porto la trattativa tra Israele e Hamas mediata, oltre che dagli Stati Uniti, da Qatar ed Egitto; ed anche – e forse soprattutto – a evitare un ampliamento della guerra, specie dopo la reazione americana agli attacchi letali contro truppe statunitensi di milizie appoggiate dall’Iran in Iraq e in Siria e le reiterate incursioni anglo-americane contro postazioni degli Huthi in Yemen da dove minacciano con droni navi commerciali in navigazione nel Mar Rosso.

Il 5 febbraio Blinken ha incontrato il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, l’uomo forte del regime di Riad, e ha discusso di un “coordinamento regionale” per porre termine al conflitto nella Striscia di Gaza: la fine delle ostilità lì spegnerebbe – o almeno smorzerebbe – in tutta l’area i focolai di tensione.

Martedì 6 febbraio era in Egitto, con un’agenda più concentrata su un’intesa tra Israele e Hamas, che, dalla fine di novembre, non si sono più accordati su una tregua e uno scambio ostaggi / prigionieri. E poi altre tappe, cruciali quelle in Israele e nei Territori.

Il segretario di Stato è anche latore di piani per l’assetto della Striscia dopo la guerra, con Israele che continua a bocciare le prospettive del doppio Stato e del ritiro dalla Striscia, restituendola, di fatto, ai palestinesi.

A medio termine, la credibilità negoziale degli Stati Uniti è indebolita proprio dalla rigidità del premier israeliano Benjamin Netanyahu sulle soluzioni a medio e lungo termine.

Invece, la proposta a breve, messa a punto da Stati Uniti, Egitto e Qatar, di un cessate-il-fuoco di alcune settimane in cambio di uno scambio ostaggi / prigionieri pare in stallo: Hamas dice che nessuno ostaggio sarà più rilasciato fino alla cessazione delle ostilità, che Israele non prevede; e Israele si irrigidisce sul rilascio dei prigionieri.

Segnali d’ottimismo sono venuti dal Qatar, ma i negoziati ci hanno ormai abituato all’alternanza di speranze e delusioni: Hamas avrebbe mostrato “un atteggiamento positivo”, ma continua a subordinare il rilascio degli ostaggi alla cessazione delle ostilità.

Anche la Gran Bretagna affianca gli Stati Uniti nella pressione, fin qui sterile, su Israele: all’Associated Press, il ministro degli Esteri David Cameron dice che Londra potrebbe riconoscere lo Stato palestinese dopo un cessate-il-fuoco a Gaza, senza attendere il consenso d’Israele.

Il contesto geo politico delle due guerre in Medio Oriente e Ucraina

Su Foreign Affairs, due specialisti di Medio Oriente, Dalia Dassa Kaye e Sanam Vakil, scrivono che

“aspettarsi che gli Usa possano davvero gestire la crisi di Gaza e confezionare una pace duratura e stabile nel Medio Oriente sarebbe come aspettare Godot”.

In un articolo intitolato “Solo il Medio Oriente può aggiustare il Medio Oriente”, i due analisti notano che

“le dinamiche attuali regionali e globali rendono impossibile per Washington giocare un ruolo dominante”.

Lato Ucraina, Nathalie Tocci, direttore dell’Istituto Affari Internazionali, scrive che

l’invasione dimostra che il Mondo attuale è, nello stesso tempo, bipolare, multipolare e ‘non polare’… C’è una forma di bipolarità crescente: si rafforzano le relazioni transatlantiche e la cooperazione nell’ambito del G7 ampliato, di fronte alla Russia ma anche a raggruppamenti non occidentali, come i Brics allargati, dove la Cina è la principale protagonista. Nello stesso tempo, ci sono tracce di multipolarità, con Paesi di medie dimensioni che rifiutano di allinearsi sia agli uni che agli altri e cercano di cogliere le opportunità loro offerte da entrambi gli schieramenti”.

“E, infine – conclude Tocci -, la ‘non polarità’ è rappresentata da quei Paesi che, astenendosi ad esempio dal condannare all’Onu la Russia, hanno essenzialmente testimoniato la volontà di tenersi fuori dal conflitto, essendo più preoccupati dalle potenziali conseguenze globali che dalle cause regionali”.

Su questa dinamiche geo-politiche, si innestano le dinamiche interne ai vari Paesi: quelle statunitensi hanno un peso speciale. Se in Russia il presidente Vladimir Putin si appresta ad affrontare, domenica 17 marzo, un test elettorale sulla carta senza suspense; e se invece in Israele il premier Netanyahu teme l’eventualità di un ritorno alle urne, che potrebbe essergli politicamente fatale; entrambi guardano alle presidenziali del 5 novembre negli Stati Uniti e scommettono sul ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump – oggi, un’eventualità possibile – […].

Gli sviluppi del conflitto nella Striscia e nella Regione

Il ministero della Difesa israeliano assicura che i capi di Hamas “sono in fuga”, ma un portavoce dell’organizzazione palestinese afferma che i suoi miliziani

 “sono ancora operativi in tutte le aree della Striscia di Gaza”.

In quattro mesi, la guerra, innescata dai raid terroristici in territorio israeliano del 7 ottobre – 1200 vittime e circa 250 ostaggi catturati – ha fatto circa 28 mila vittime palestinesi, senza contare i morti in CisGiordania e al confine tra Libano e Israele.

E la questione umanitaria, aggravata dal blocco dei finanziamenti all’Unrwa da parte di alcuni Paesi fra cui l’Italia, peggiora di giorno in giorno: l’Agenzia dell’Onu che si occupa dei palestinesi potrebbe dovere cessare l’attività il 20 febbraio. I finanziamenti sono stati sospesi dopo che Israele ha denunciato connivenze tra l’Unrwa e Hamas e ha accusato una dozzina di dipendenti dell’Agenzia di avere partecipato ai raid terroristici del 7 ottobre. Il lavoro e gli aiuti dell’Unrwa sono essenziali per la sopravvivenza di circa sei milioni di rifugiati, non solo a Gaza.

La virulenza dei coloni contro i palestinesi dei Territori – e pure i manifestanti pacifisti – ha indotto il presidente Biden a colpire con sanzioni amministrative e finanziarie alcuni coloni identificati come responsabili di violenze. Biden vuole così sottrarsi alle critiche crescenti per la sua posizione pro-israeliana a per l’inefficacia della sua azione di ‘moral suasion’ sul l Governo Netanyahu. Le misure, prese con un ordine esecutivo, cioè con un ‘motu proprio’ presidenziale, è stata annunciata – non a caso – mentre il presidente s’apprestava a visitare il Michigan, lo Stato dell’Unione con la più alta percentuale di musulmani.

La situazione in tutta l’area s’è ulteriormente infiammata dopo che la Casa Bianca, come aveva preannunciato, ha dato il via a raid sulle postazioni di gruppi filo iraniani in Iraq e Siria, in risposta agli attacchi subiti, uno dei quali – attribuito al gruppo Kataib Hezbollah della Resistenza islamica in Iraq – aveva provocato la morte in Giordania di tre militari statunitensi (due uomini e una donna). Le ritorsioni americane si sono cumulate alle azioni anglo-americane contro gli Huthi nello Yemen.

Il bilancio dei raid con aerei, droni e missili, cominciati nella notte tra venerdì 1 e sabato 2 febbraio, è complessivamente di decine di vittime, nonostante le milizie pro-iraniane abbiano avuto il tempo per cercare rifugi o per lasciare le loro postazioni. E ci sono pure stati contrattacchi: sei morti, tutti curdi, in una base che ospita militari americani in territorio siriano, attaccata con droni.

L’intelligence statunitense attribuisce l’azione contro le Forze democratiche siriane, guidate da curdi e appoggiate dagli Stati Uniti, “a mercenari appoggiati dal regine siriano”: teatro, la base d’addestramento di al-Omar, nella provincia siriana orientale di Deir el-Zour.

Le azioni stanno creando un effetto domino. L’Iran, che non è stato ancora preso di mira direttamente, protesta. Hamas condanna i raid che sono come versare “benzina sul fuoco” in tutta l’area. Ma i fondamentalisti islamici hanno anche conflitti interni; l’ala politica punta a un cessate-il-fuoco permanente, e invoca in cambio il ritiro totale dell’esercito israeliano; l’ala militare, invece, vorrebbe accettare anche pause dei combattimenti brevi.

La questione della tregua è delicata anche per Israele: i parenti degli ostaggi organizzano manifestazioni di protesta a raffica contro il premier Netanyahu e il suo governo.

Per garantire la libertà di navigazione nel Mar Rosso, l’Unione europea lancia la missione navale Aspides, operativa a partire dal 19 febbraio, posta sotto comando italiano: non tutti i Paesi dell’Unione europea vi partecipano, ma “nessuno vi si oppone”, spiega il capo della diplomazia europea Josep Borrell.

Aspides, le cui regole di ingaggio sono in via di definizione, ha un carattere essenzialmente difensivo e “non condurrà nessuna operazione via terra” in Yemen. Come sottolineato da Alessandro Marrone, responsabile del programma Difesa dell’Istituto Affari Internazionali (IAI)

“La missione navale Aspides è importante per l’Europa e per l’Italia. È una missione impegnativa, un passo in avanti per l’Europa della difesa”.

Il conflitto in Ucraina. L’unione europea sblocca gli aiuti, gli Stati Uniti no.  Mosca è sorniona, Kiev febbrile

Senza gli aiuti degli Stati Uniti, la capacità di resistenza dell’Ucraina è un’incognita, nonostante i leader dell’Unione europea sblocchino il 1° febbraio aiuti per 54 miliardi di euro in quattro anni, superando le riserve del premier ungherese Viktor Orban.

Mosca è sorniona; Kiev è febbrile di ansie e di tensioni, con le frizioni interne fra il presidente Volodymyr Zelen’skyj e i vertici militari, che chiedono di estendere il reclutamento, ammettendo d’avere subito gravi perdite: nel giorno in cui Borrell giunge in visita con il dono degli aiuti, Zelen’skyj chiede una proroga della legge marziale, segno che non si vede la fine della guerra e che ci sono fermenti nel Paese.

Le cronache registrano, ogni notte, bombardamenti incrociati con droni e missili, più intensi quelli russi, mirati sulle infrastrutture militari e industriali; più sporadici quelli ucraini, che però centrano una raffineria di San Pietroburgo.

L’attacco con più vittime civili è quello ucraino su una panetteria di Lisichansk nel Lugansk, provincia ucraina annessa alla Russia dopo l’invasione: decine i morti. Il Cremlino parla di “atto terroristico mostruoso”; Kiev replica di avere colpito un locale frequentato “da collaboratori del nemico”, fra cui il ministro dell’Emergenza Aleksey Poteshchenkoi che risulta fra le vittime.

In prima linea, o sul fronte diplomatico, non accade nulla di rilevante. Uno scambio di prigionieri, 195 per parte, avviene una settimana dopo l’abbattimento di un aereo russo che secondo Mosca portava militari ucraini ad essere scambiati e secondo Kiev trasportava rifornimenti di armi.

La Corte di Giustizia internazionale si riconosce competente a esaminare la richiesta ucraina d’accertare che non c’è stato genocidio, dal 2014 al 2022, nelle regioni russofone del Paese – Mosca giustifica l’invasione proprio con l’accusa di genocidio nel Lugansk e nel Donetsk -. E un’inchiesta del Washington Post accerta che molte componenti essenziali per l’industria militare russa arrivano da Taiwan, nonostante le sanzioni e la vicinanza di Taipei a Washington.


[1] Scritto il 7 febbraio 2024 per The Watcher Post. Cf https://www.giampierogramaglia.eu/2024/02/08/guerre-ucraina-israele-hamas-2/.

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