Letture

Democrazia Futura. Un cesto di cento ciliegie da consumare con voracità, dedizione, rimorso

di Venceslav Soroczynski, pseudonimo di uno scrittore e critico letterario e cinematografico |

A proposito di Centuria di Giorgio Manganelli (Milano, Rizzoli, 1979, 206 p.)

Per la rubrica Riletture Venceslav Soroczynski, pseudonimo di uno scrittore e critico letterario e cinematografico, ci pone “Un cesto di cento ciliegie da consumare con voracità, dedizione, rimorso”, ovvero la lettura di Centuria. Cento piccoli romanzi fiume di Giorgio Manganelli la cui prima uscita risale al 1979. “Ogni cosa sa di miracolo, in questi racconti, visto che Giorgio Manganelli è riuscito a immaginare cento situazioni surreali che sono sempre diverse, ma che paiono descrivere una sola indecifrabile, paradossale, incontinente vita, quella di una persona che riesce a vivere solo esperienze stranianti […].  Vi sembrerà – scrive lo scrittore nordestino – non di leggerli, questi racconti, ma che qualcuno ve li reciti, mentre una musica di bordone suona una sola, lunghissima, ovattata e misteriosa nota. Se fosse un alimento, Centuria sarebbe un cesto di cento ciliegie, che consumerete con voracità, dedizione, rimorso. E ciascuna di esse vi nutrirà con lo zucchero della letteratura, che qui è sempre raffinato, artificiale, lavoratissimo”.

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È grande la tenerezza che si prova nell’osservare la brevissima vita di questi cento personaggi. Uomini indifesi e donne sole, raccontati in modo asciutto, severo, impersonale, che hanno bisogno che le nostre mani li tengano stretti, perché le pagine di Centuria[1] emanano una grande freddezza, talvolta un invincibile sconforto e, raramente, un ruvido e oscuro senso del miracolo.

Giorgio Manganelli

Ogni cosa sa di miracolo, in questi racconti, visto che Giorgio Manganelli è riuscito a immaginare cento situazioni surreali che sono sempre diverse, ma che paiono descrivere una sola indecifrabile, paradossale, incontinente vita, quella di una persona che riesce a vivere solo esperienze stranianti.

L’autore sottotitola Cento piccoli romanzi fiume e, in una geniale quanto azzardata intuizione, scrive:

«Ho l’impressione che i raccontini di Centuria siano un po’ come romanzi cui sia stata tolta tutta l’aria. Vuole una mia definizione di romanzo? Quaranta righe più due metri cubi di aria. Io ho lasciato solo le quaranta righe: oltretutto occupano meno spazio, e lei sa bene che con i libri lo spazio è sempre un problema enorme».

Vi sembrerà non di leggerli, questi racconti, ma che qualcuno ve li reciti, mentre una musica di bordone suona una sola, lunghissima, ovattata e misteriosa nota. Se fosse un alimento, Centuria sarebbe un cesto di cento ciliegie, che consumerete con voracità, dedizione, rimorso. E ciascuna di esse vi nutrirà con lo zucchero della letteratura, che qui è sempre raffinato, artificiale, lavoratissimo. Quindi, i vegani del sentimento, i puristi delle relazioni, i cronisti delle tre dimensioni potranno astenersi, perché non è qui che troveranno la materia solida e sana che, incessantemente, ostinatamente, vanamente cercano. Qui, gli eventi sono assolutamente improbabili; i sentimenti, inutili; le sensazioni, austere; gli esiti, imprevisti, perché il finale è quasi sempre sospeso e in bilico fra l’ironia e la tragedia, la ricomposizione e la dissoluzione.

Veniamo agli aspetti pratici: l’uso ideale di Centuria è quello del libro tascabile, che si tiene in mano, o in borsa, per essere aperto nei primi cinque minuti liberi. Mentre siete in treno, o in autobus, o in coda, avrete il tempo di leggere la storia di quell’uomo che non riusciva a smettere di sognare e dei suoi vicini, ai quali, durante la notte, mancava il materiale per i sogni. Chi fra loro riusciva con gran fatica a sognare, poteva farlo solo in bianco e nero. Ne derivò una causa giudiziaria, che si chiuse con una condanna, ma non fu questa a risolvere la situazione. O quella dei due angeli che commissionarono ad un fabbro la costruzione della campana più grande mai realizzata, da farsi con una lega metallica ignota, che avrebbe dovuto produrre un suono assolutamente diverso da quello di qualsiasi altra campana e che doveva suonare nel giorno del Giudizio Universale. Quando però il lavoro fu ultimato, i due angeli tornarono dall’artigiano per dirgli che non ci sarebbe stato nessun Giudizio Universale. E il fabbro, che era un ateo convinto, fece qualcosa che sorprese l’intero universo.  Ma c’è anche la storia del cavaliere senza coscienza che incontra il drago che, in ragione di un indelebile destino, parte dall’inaccessibile regione in cui dimora per dirigersi

“verso le mura delle città, in cui tuttavia non penetra mai; non ha interesse per i villani, ma cerca cavalieri, giacché solo da uno di questi otterrà morte. Egli ha verosimilmente molte cose da dire, ma la lunga solitudine l’ha reso disavvezzo, e l’intima fatica esce in lingue di fiamma. Colpisce, in tutta la vicenda, l’assoluta inintelligenza del cavaliere dei confronti del drago. Non ne avverte le distanze, la solitudine, la grandezza immane e deforme. Ignora le fatiche che il drago ha voluto affrontare per giungere puntuale ad un terribile appuntamento. Il cavaliere ignora di essere egli stesso giunto ad un appuntamento. Se, fermo sul suo bel cavallo, poggiasse la lancia al suolo, reggendola pianamente, senza ira e paura, il drago, vedendo delusa la sua brama di morte, forse inizierebbe il colloquio.”

In questo, che è probabilmente uno dei racconti più belli che io abbia mai letto, c’è una saggezza e una morale leggiadra e potente, che nessuno, se ha gli occhi aperti, può ignorare.

Tutto un piccolo universo, troverete in Centuria. Una libreria umana, lo scheletro di un mondo, l’immaginario di un’intera specie, la nostra.


[1] Vedine l’edizione critica a cura di Paola Italia con un saggio di Italo Calvino: Giorgio Manganelli, Centuria. Cento piccoli romanzi fiume, Milano, Adelphi, 1995, 316 p.