Il libro

Democrazia Futura. Pace e guerra, i diritti umani

di Emma Fattorini, storica contemporanea, già Senatrice della Repubblica |

Estratto dal capitolo ottavo del saggio Achille Silvestrini, La diplomazia della speranza, di Emma Fattorini.

Emma Fattorini

Per gentile concessione della casa editrice Morcelliana Democrazia futura propone oggi un Estratto dal capitolo ottavo del saggio di Emma Fattorini, Storica contemporanea, già Senatrice della Repubblica, dedicato alla figura di: Achille Silvestrini, La diplomazia della speranza (2023), Nel paragrafo “Pace e guerra. I diritti umani”, la storica romagnola osserva come “La visione universalistica e globalista di Karol Wojtyła – ricordava sempre il cardinale Achille Silvestrini – piaceva ai comunisti italiani: un nuovo ordine mondiale, un sistema internazionale, in cui anche l’Unione Sovietica si sarebbe inserita, con le riforme della perestrojka, cambiando pelle. Andando addirittura oltre la stessa visione del Papa di uno spazio dall’Atlantico agli Urali, Michail Gorbačëv poneva al centro la costruzione di una casa comune europea -osserva Emma Fattorini aggiungendo – . E questo nel contesto dell’idea, assai profetica, di interdipendenza, cui s’accompagnò l’altro tema-chiave della contaminazione con culture nuove assumenti il linguaggio dei diritti umani. I diritti umani, the last utopia fornirono i nuovi linguaggi del confronto tra i due universalismi: quello avviato dalla Chiesa col cosiddetto effetto Helsinki e quello del gorbaciovismo dopo il crollo del comunismo”.

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Pubblichiamo con il consenso dell’autrice un estratto dal capitolo ottavo “Pace e guerra nel mondo post-comunista” della monografia dedicata al Cardinale Achille Silvestrini a cent’anni dalla sua nascita che raccoglie varie interviste postume e può essere considerata come scrive l’autrice ”al crocevia com’è di una ‘storia orale’, un esercizio di ‘memorialistica’, un sorta di autobiografia, redatta, potremmo dire, con il metodo ‘sostiene Pereira’” : Achille Silvestrini, La diplomazia della speranza, Brescia, Morcelliana, 2023, 237p.

Come l’autrice ricorda nell’introduzione a p. 8.

“Affiancando il suo artefice Agostino Casaroli, Silvestrini fu figura di primo piano della Ostpolitik vaticana e protagonista del suo esito più maturo: l’Atto finale del Trattato di Helsinki, firmato il 1 agosto 1975 e incentrato sul <rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”, quale <profonda base comune […] pur nelle diversità dei sistemi>  Allora i paesi dell’Est firmarono il documento nella convinzione che si trattasse di un contentino, non immaginando quanto invece il decalogo in esso contenuto avrebbe contribuito a erodere dall’interno i loro sistemi. Senza alcun intento demolitorio Helsinki, infatti, assecondò in modo carsico e sottile il progressivo e inarrestabile indebolimento del blocco sovietico, agendo su un processo di trasformazione a vantaggio di quelle nazioni”.

Il tradizionale concetto di guerra giusta suscitò negli anni Ottanta e Novanta un ampio dibattito trasversale a tutte le culture politiche. La Santa Sede ne precisò la legittimità nelle formulazioni contenute nel Catechismo della Chiesa cattolica (n. 2309) del 1992 e nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa (n. 500) del 2004. Del resto, come scritto da Andrea Riccardi,

«è uno degli aspetti in cui si conosce un maggiore sviluppo teologico e spirituale nel Novecento, quello della guerra, della violenza e della pace»[1].

La visione universalistica e globalista di Karol Wojtyła – ricordava sempre il cardinale Achille Silvestrini – piaceva ai comunisti italiani: un nuovo ordine mondiale, un sistema internazionale, in cui anche l’Unione Sovietica si sarebbe inserita, con le riforme della perestrojka, cambiando pelle. Andando addirittura oltre la stessa visione del Papa di uno spazio dall’Atlantico agli Urali, Michail Gorbačëv poneva al centro la costruzione di una casa comune europea. E questo nel contesto dell’idea, assai profetica, di interdipendenza, cui s’accompagnò l’altro tema-chiave della contaminazione con culture nuove assumenti il linguaggio dei diritti umani. I diritti umani, the last utopia[2], fornirono i nuovi linguaggi del confronto tra i due universalismi: quello avviato dalla Chiesa col cosiddetto effetto Helsinki e quello del gorbaciovismo dopo il crollo del comunismo.

Si è giustamente osservato che

«dovremmo considerare l’egemonia dei diritti umani come una conseguenza e non come una causa della congiuntura storica che vide la fine del comunismo in Europa e in Russia»[3]

E, in effetti, per il mondo post-sovietico il possibile comune terreno dei diritti umani apriva infinite problematiche e divisioni: rimozione e cancellazione del passato si alternavano a nostalgie conservatrici.

A rileggere oggi quel confronto, è disarmante la fatica nel trovare un filo comune sul piano dei diritti umani: emblematiche alcune affermazioni di Konstantin Michajlovič Charčev, presidente del Consiglio per gli Affari religiosi del Consiglio dei Ministri dell’URSS e figura chiave della politica religiosa di Gorbačëv. Charčev affermava ingenuamente di preferire «un credente sincero a un comunista senza scrupoli» e d’essere molto allarmato per l’appoggio del Vaticano all’Ucraina, richiamandosi all’ispirazione leninista circa il rapporto tra Stato e Chiesa[4]. Insomma, sprovvedutezza, confusione, Realpolitik d’antan, miste a un umanesimo scolastico.

Se per Gorbačëv non era affatto semplice sostituire quanto restava del pensiero marxista con quello dei diritti[5], anche per la Chiesa tale tema, sia pure senza simili voragini, si presentava ostico. Non tutti, infatti, ne condividevano la lettura data da Giovanni Paolo II, indisponibile a conciliare i diritti umani con le loro radici illuministiche[6]. Ma, come osservava Silvestrini, le difficoltà dei due mondi

«non erano certo comparabili. La libertà religiosa e di coscienza, madre di tutti i diritti, è infatti il principio cardine della dichiarazione conciliare Dignitatis humanae, che è alla base dell’Helsinki effect. La Chiesa aveva fatto nei secoli i conti con i concetti di libertà e di responsabilità».

In buona sostanza, dunque, la sfida morale e culturale di Gorbačëv, su cui l’attendeva anche Wojtyła, era sul piano dei diritti umani, terreno di confronto-scontro, che avrebbe sostituito quello delle ideologie novecentesche: un esito tardivo degli effetti dell’Ostpolitik vaticana sulle novità introdotte dal penultimo segretario del PCUS con l’assunzione della categoria dei diritti umani in chiave teologico-politica come ultima utopia[7].

Gli studi sull’Helsinki effect[8] mettono in luce l’importante ruolo svolto dalle comunità ecclesiali, prevalentemente protestanti, di sponda alle ONG e agli Stati Uniti, mentre nella Chiesa cattolica, come abbiamo detto, il tema dei diritti continuava a creare lacerazioni[9].

Intanto, nel dicembre del 1988, l’anno del trattato di Washington che pose fine allo scontro sugli euromissili, Gorbačëv annunciava il disarmo unilaterale e la campagna sui diritti umani per il Terzo mondo.

Quindi, nel febbraio del 1989, venne finalmente presentata la legge sulla libertà religiosa, secondo la quale ogni cittadino era libero di «determinare i propri rapporti con la religione» in Unione Sovietica.

Già nell’ottobre di quell’anno, quando si tenne il convegno su Il ruolo della civiltà nella costruzione di una casa comune europea, era evidente che il clima fosse cambiato e disteso: il linguaggio era più prossimo e gli scambi cordiali, mentre entrambe le parti parlavano di «deideologizzare le relazioni internazionali»[10]

Restava però, e resta, una domanda cruciale, e cioè quanto tutto ciò preludesse davvero a un’elaborazione e a un approfondimento da entrambe le parti circa le tappe necessarie, per rendere reali e duraturi gli effetti di una tale svolta epocale.

L’aggressione russa all’Ucraina. Una seconda Helsinki?

«Tra il febbraio del 2014 e quello del 2015, le notizie provenienti dall’Ucraina hanno risuscitato lo spettro del ritorno del paese alla condizione di “terra di sangue”, secolare campo di battaglia fra opposti imperi»

 così scriveva nel 2018 l’autorevole studioso di storia sovietica Fabio Bettanin, per poi aggiungere:

«Le controverse clausole degli accordi raggiunti non consentono di definire una road map per stabilire il futuro istituzionale dell’Ucraina. Di quando in quando l’intervento di un uomo politico o di un saggio accademico ricorda il pericolo che un conflitto ancora aperto si trasformi in una conflagrazione generale: l’Amministrazione statunitense continua ad inasprire le sanzioni contro la Russia, ma l’accettazione dell’opinione pubblica mondiale è focalizzata da tempo su altri problemi e la rimozione preoccupa perché, per vari motivi, la valenza di quanto accaduto non è confinabile a un conflitto locale in Crimea e nel Donbass. Il primo riguarda l’integrazione nel sistema internazionale formatosi in seguito al crollo dell’Unione Sovietica»[11].

Queste parole, nel solco di altre puntuali analisi di autorevoli studiosi, mostrano come i conflitti in Crimea e nel Donbass, già negli anni 2014-2015, non si limitassero a questioni locali, ma fossero spia dei limiti dell’integrazione nel sistema internazionale, formatisi in seguito al crollo dell’Unione Sovietica[12]. Ad eccezione degli Stati baltici, gli altri Paesi hanno dovuto impegnarsi non poco nel definire la propria identità per affrancarsi dalle diverse dipendenze dal centro sovietico. Per diverse ragioni, naturali e storiche, l’Ucraina sembrava il paese maggiormente chiamato a farlo[13].

Nei capitoli precedenti raccontavo[14] come durante il mio mandato parlamentare nella XVII legislatura, le delegazioni dell’OSCE discutessero sempre e solo delle pretese russe sull’Ucraina nel corso di ripetute visite a Mosca, Kiev e in tutte le Repubbliche ex sovietiche.

In quella specie di piccolo parlamentino mondiale, una sorta di ONU in sedicesima in cui era presente anche il delegato della Santa Sede, americani e russi s’accapigliavano fino alla rissa, mentre noi europei ci dividevamo rispettivamente, sia a destra e sia a sinistra, tra democratici e populisti. Don Achille Silvestrini, già anziano, ascoltava assorto i resoconti sull’OSCE, che gli facevo al ritorno da quei viaggi, alternando momenti di lucidità ad assenze e silenzi.

La delegazione italiana dei parlamentari era a Kiev, quando uccisero il nostro fotoreporter Andrea Rocchelli nel Donbass: il 24 maggio 2014 andammo ad accogliere la sua famiglia, dignitosamente affranta. Secondo la ricostruzione dei giudici italiani risultò poi che il giovane giornalista era stato ucciso da un colpo di mortaio sparato dall’esercito ucraino.

Quando nella primavera 2022 ho visto le foto strazianti delle donne ucraine, vittime della guerra appena iniziata, mi sono tornati alla memoria altri scatti fotografici, quelli fatti da Rocchelli durante la permanenza in Russia dal 2009 al 2011. Queste fotografie sono state raccolte nel piccolo volume Russian Interiors[15], la cui veste grafica ha un sapore volutamente kitsch con damaschi e sfondi dorati, come gli interni dei diversi ritratti delle donne russe: erano state loro a chiedere espressamente d’essere immortalate in pose femminili, in ambienti che avrebbero voluto apparissero lussuosi. Rocchelli ne colse questa sorta di grottesca voluttà: una crudezza emotiva ed estetica, che rivela una malcelata ingenuità e un’infinita, profonda malinconia; quell’insieme di forza e di fragilità delle donne russe e delle donne ucraine.

Era il 2014 e non capivamo quei Paesi: fummo più che miopi, inebriati dall’illusione che la democrazia fosse irreversibile, definitiva, espansiva. Forse non avevamo compreso la gravità dell’occupazione della Crimea, ancora animati dall’idea che, in fondo, quell’annessione fosse in qualche modo legittima e che si sarebbe pertanto arrestata.

Ripenso alle numerose volte in cui, durante quelle missioni OSCE, ci siamo chiesti perché non fossimo in grado di pensare a una nuova, seconda Helsinki. Quest’idea ha poi animato tante discussioni dopo il 2014. Ma è stata ben presente anche prima, quando i venti di guerra in Ucraina erano lontani e don Achille Silvestrini ancora vivo.

Lui aveva seguito da vicino, e in alcuni casi sul campo, altri conflitti, come quelli degli anni Novanta: le due guerre in Iraq e il crollo delle Torri Gemelle. L’11 settembre 2001 eravamo a casa sua, incerti sul da farsi, perché le prime, confuse voci parlavano addirittura di un secondo attacco proprio in Vaticano.

Il terrorismo endemico e l’instabilità medio orientale non facevano presagire alcun possibile avanzamento della pace: sia nel 2001, quando s’intraprese la missione in Afghanistan contro il fondamentalismo islamico, sia nel 2003, quando s’invase l’Iraq per “esportare la democrazia”, fino alle spinte verso il ricomporsi dei grandi imperi.

Quante volte abbiamo sentito invocare una seconda Helsinki durante la guerra seguita all’invasione dell’Ucraina?

Eppure, già prima dello scoppio del conflitto, appariva un’illusione incalzare la Russia non per allontanarla, ma per farne piuttosto il polmone orientale dell’Europa. Di fronte alla guerra iniziata il 24 febbraio 2022, si apriva una strada impervia per la diplomazia vaticana, chiamata a trovare nuovi spazi e alleanze, per approntare una rinnovata strategia all’altezza delle sfide, addirittura superiori a quelle affrontate con la gloriosa Ostpolitik.

Il conflitto bellico tra Russia e Ucraina si nutre anche di emozioni e nostalgie. Come la Prima guerra mondiale, anche questa riveste una funzione catartica e salvifica.

Riprova, invero, di come la fine delle grandi illusioni novecentesche non sia avvenuta attraverso una piena elaborazione, così che la disillusione a quelle succeduta, non avendo trovato un nuovo, diverso percorso, è diventata mera delusione. Che, come tale, ha prodotto e produce cinismo e violenza.


[1]Andrea Riccardi, La pace possibile. Il cristianesimo, la guerra e la violenza nel Novecento, in Camillo Brezzi, Carlo Felice Casula, Agostino Giovagnoli e Andrea Riccardi (a cura di), Democrazia e cultura religiosa. Studi in onore di Pietro Scoppola, Bologna, il Mulino, 2002, 554 p. [la citazione è a p.138].

[2] Samuel Moyn, The Last Utopia: Human Rights in History, Cambridge-London, Belknap Press of Harvard University Press, 2010, 337 p. Si veda anche Marcello Flores, Storia dei diritti umani, Bologna, il Mulino, 2012, 371 p.

[3] Silvio Pons, Adriano Roccucci, “Introduzione. La trasformazione delle culture politiche universaliste nel tardo XX secolo: comunismo riformatore, cristianesimo e diritti umani”, in I diritti umani e la trasformazione delle culture politiche e cristiane nel tardo Novecento, a cura di Silvio Pons e Adriano Roccucci, Roma Viella, 2021, 400 p. [la citazione è à p. 10].

[4] Cfr. Francesco Strazzari, “Fede e perestrojka”, Il Regno-Attualità, 591(1988), pp. 128-129; Alessandro Santagata, “Santa Sede, diritti umani e perestrojka nella pubblicistica cattolica europea (1985- 1989)”, Studi storici, LXI (3) luglio-settembre 2020, pp. 766-76.

[5] Cf. l’appello di Gorbačëv ai credenti per contribuire al cambiamento nel segno dei diritti umani: Antoine Wenger, “La perestroïka de Mikhail Gorbatchev et les croyants en Union Soviétique”, La Documentation catholique, LXXXV (1963), 1988, pp. 568-575.

[6] Cfr. Daniele Menozzi, Chiesa e diritti umani. Legge naturale e modernità politica dalla Rivolu zione francese ai nostri giorni, Bologna, il Mulino, 2012, 277 p.

[7] Ricca di spunti l’utile ricognizione al riguardo di Alessandro Santagata, “Santa Sede…”, loc cit.alla nota 4, pp. 741-775.

[8] Nel terzo volume della Cambridge History of the Cold War viene dato molto spazio a questa ricostruzione: Sarah B. Snyder, Human Rights Activism and the End of the Cold War. A Transnational History of the Helsinki Network, Cambridge, Cambridge University Press, 2011, 304 p.

[9] Cfr. Alessandro Santagata, “Santa Sede…”, loc. cit. alla nota 4, pp. 743-747.

[10] Al riguardo è da segnalare l’acuto intervento di Émile Poulat, che insisteva sulla priorità di rispondere concretamente alle nuove sfide, anziché incagliarsi sui principi astratti: Cfr. Alessandro Santagata, eodem loco, pp. 768-769.

[11] Fabio Bettanin, Putin e il mondo che verrà. Storia e politica della Russia nel nuovo contesto internazionale, Roma, Viella, 2018, 337 p. [si vedano le pp. 281-282. Sull’invasione russa dell’Ucraina come spartiacque tra due diverse fasi della storia europea cfr. Andrea Graziosi, L’Ucraina e Putin tra storia e ideologia, Bari-Roma, Laterza, 2022, 200 p..

[12] Tematiche affrontate dai più acuti studiosi di quel passaggio: Andrea Graziosi, L’URSS dal trionfo al degrado. Storia dell’Unione Sovietica. 1945-1991, Bologna, il Mulino, 2011, 755 p.; Silvio Pons, La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale 1917-1991, Torino, Einaudi, 2012, XXIII-424 p..

[13] Sulle radici storiche della visione russa, cfr. Adriano Roccucci, “La matrice sovietica dello Stato ucraino”, in L’Ucraina tra noi e Putin, numero monografico di Limes (4), aprile 2014, pp. 29-44.

[14] Si veda nella fattispecie il secondo paragrafo “L’Europa e l’effetto Helsinki” del capitolo sesto dedicato a “Il risultato dei Trattati di Helsinki”, in particolare alle pp. 128-132.

[15] Adriano Rocchelli, Russian Interiors, Pianello Val Tidone , Cesura Publish, 2014, 125 p..