Migrazioni

Democrazia Futura. Le nuove invasioni barbariche

di Giulio Ferlazzo Ciano, Dottore di ricerca in Storia contemporanea |

Riuscirà il nostro continente a sostenere sul lungo periodo la sempre più massiccia presenza di immigrati e loro discendenti, estranei per cultura ed etnia alle loro patrie adottive? La rivolta in Francia è un campanello d’allarme da non sottovalutare.

Giulio Ferlazzo Ciano

Secondo alcuni servirsi della storia per creare analogie sarebbe un’operazione rischiosa, se non anche pericolosa. Eppure ogni tanto si dovrebbe farlo, sia pure con estrema prudenza, al fine di creare maggiore consapevolezza, mettere in guardia l’opinione pubblica ed eventualmente evitare che i rischi e i pericoli evocati alla fine si avverino. D’altronde anche a questo serve la storia: ad analizzare il passato per meglio comprendere il presente, anche attraverso le analogie. Altrimenti rischia di essere un mero e sterile esercizio di rievocazione.

Un’analogia storica per giustificare la visione dell’immigrazione come un’opportunità

La vulgata comune, appoggiata da media, partiti politici progressisti o moderati, nonché da certi ambienti economici legati alla produzione industriale e alla finanza, sostiene che l’immigrazione rappresenti la salvezza dell’Europa. Se ben gestita, sia per quanto riguarda gli arrivi e la distribuzione dei migranti fra i vari Paesi del continente, sia per quanto riguarda la loro inclusione nel tessuto sociale ed economico di questi Paesi, potrebbe garantire una nuova vita al nostro continente, appesantito dall’invecchiamento della popolazione e dal sempre più preoccupante declino demografico. Chi potrebbe negarlo? Se il nostro mondo fosse un paradiso terrestre questa soluzione sarebbe senz’altro auspicabile. Sfortunatamente il nostro mondo è un luogo ben più pericoloso, dove dominano atavici istinti di sopraffazione, di difesa o di sopravvivenza, che generano diffidenza, paura, rigetto, infine odio, quindi caos e conflitto. Tale processo può mettersi in moto anche in Europa, come sempre è avvenuto nel mondo, in epoche diverse e a differenti latitudini. Disinnescare questa spirale è una sfida complessa, ma anche molto pericolosa. La posta in gioco è altissima: se si perdesse il continente stesso si perderebbe, sprofondando nel caos.

Noi europei siamo convinti ottimisticamente di riuscire a guidare con relativa facilità questo processo, riuscendo a integrare i nuovi arrivati e i loro discendenti grazie agli strumenti di inclusione e ai diritti che i nostri sistemi liberaldemocratici garantiscono a tutti coloro che per nascita, accidente o necessità decidono di vivere in Europa. Con qualche differenza (e diffidenza) da Paese a Paese, ma si può dire che l’ottimismo prevalga. Non si nega che le difficoltà esistano, ma esse sarebbero un effetto collaterale inevitabile e comunque, si dice, progressivamente il processo di inclusione prevarrebbe, così come è prevalso, ad esempio, nelle Americhe e in particolar modo negli Stati Uniti d’America, oppure in Australia o comunque in tutte quelle società aperte sempre più multietniche e multiculturali che ai nostri occhi sembrano rappresentare i modelli ideali verso cui tendere.

A noi italiani, soprattutto a chi fra di noi è più scettico, viene consigliato di ricordare il nostro passato di emigranti e il ruolo che abbiamo ricoperto in quei Paesi dove ci recammo per necessità o disperazione. Anche noi fummo visti inizialmente come un corpo estraneo, anche noi fummo bollati con epiteti dispregiativi o identificati in toto come pericolosi delinquenti. Poi, passata una prima fase di diffidenza e rigetto, prevalsero i virtuosi meccanismi dell’inclusione. Le seconde e poi le terze generazioni riscattarono l’immagine prodotta dai primi arrivati. Percorsi di studio e di lavoro resero gli italiani immigrati sempre più inseriti nella società, inizialmente tollerati, poi pienamente accettati e infine apprezzati, inclusi a pieno titolo nel tessuto sociale, culturale ed economico di quei Paesi, entrati a far parte della classe dirigente, politica ed economica. Quindi, si dice sempre, nulla impedisce che lo stesso possa avvenire da noi. Anzi, non potrebbe essere altrimenti. Anche questa, in fondo, è un’analogia storica, ma evidentemente non viene ritenuta tale. Anzi, la si contrabbanda come una previsione che si autoavvererà con ragionevole certezza, sulla base di studi e ricerche nell’ambito delle scienze sociali, mostrando gli esempi virtuosi che già esistono, le società multietniche e multiculturali in via di affermazione in diverse realtà europee, il livello di benessere economico di queste realtà, l’incremento di unioni e matrimoni misti, eccetera.

Smascheramento della falsa analogia storica

Noi ci auguriamo senz’altro che le più rosee previsioni si avverino. È bene però, per ritornare alle analogie, immaginarne un’altra che sia meno ottimistica. Così da scongiurare che ci si possa avviare incoscientemente e con dabbenaggine verso un incubo non previsto. Perché il problema di fondo dell’analogia ottimistica oggi in voga è il ritenere che l’Europa sia una realtà dove applicare le caratteristiche proprie del modello multietnico e multiculturale degli Stati Uniti d’America, del Brasile o dell’Australia. Peccato che ci siano differenze enormi tra le due realtà. Sostanzialmente per due ragioni:

• si dimentica spesso che il modello multietnico e multiculturale sviluppato in quei Paesi è il prodotto collaterale di una sistematica operazione di allontanamento e talvolta addirittura di annichilimento delle popolazioni native precedentemente stanziate in quelle regioni. Sappiamo che fine hanno fatto i nativi americani o gli aborigeni australiani. Quindi si può dire che quelle società si sono fatte belle, ai nostri occhi, a spese degli abitatori originari, di fatto cancellati dal paesaggio e privati della loro memoria storica, decimati e ridotti a vivere in riserve o in fitte foreste, molto spesso emarginati culturalmente ed economicamente (come negli USA o in Australia) o a rischio di subire ulteriori persecuzioni e soprusi (come in Brasile).

• Si dimentica inoltre che, dopo aver fatto di quelle realtà una vera e propria tabula rasa, è iniziato il processo di immissione di nuovi coloni (per scelta volontaria o per deportazione forzata, di natura schiavistica, religiosa o giudiziaria) che hanno avuto a disposizione immense distese scarsamente o nulla antropizzate, vere e proprie terre vergini da colonizzare, sfruttare, plasmare, ripopolare massicciamente, creandovi grandi aggregati urbani a immagine e somiglianza di quelli lasciati nel Vecchio Continente.

Verrebbe da commentare che così è facile, fin troppo facile. Se la terra non manca e quindi non mancano neppure possibilità di ulteriori espansioni demografiche e urbane, garantendo inoltre a tutti i nuovi abitanti l’autosufficienza alimentare ed energetica; se i legittimi proprietari di quelle terre vengono eliminati o marginalizzati; se non si deve quindi confrontarsi con preesistenti e marcate identità etnico-culturali, rafforzate da solide narrazioni storiche in grado di generare consapevolezza identitaria e tentativi di resistenza e opposizione violenta al nuovo corso; ebbene se tutti questi elementi si verificano, allora è relativamente facile costruire società aperte multietniche e multiculturali. Certo, ci sono sempre gruppi, di solito discendenti dei primi pionieri e coloni, che si arrogano una sorta di diritto a godere di superiorità morale, politica e materiale: gli anglosassoni in Australia e negli Stati Uniti d’America (in questo caso assieme a gruppi di protestanti tedeschi e olandesi), così come gli ispanici e i creoli nei Paesi latino-americani. Ma le resistenze di questi gruppi alla fine cedono di fronte all’incapacità di gestire da soli immensi territori, avendo al contempo necessità di immettere manodopera a basso costo per rendere produttive le terre vergini, per estrarne le risorse minerarie o per sviluppare manifatture e industrie.

E così, che si tratti di manodopera servile, deportata con la forza da altri continenti, o attirata con promesse di vita migliore, alla fine la società inizia a modificarsi, a farsi sempre più variegata dal punto di vista etnico e culturale. Il processo di inclusione è rafforzato anche da un duplice aspetto. Da una parte i nuovi arrivati giunti attraverso deportazioni forzate sono costretti, con le buone o con le cattive, ad accettare il fatto compiuto e a vivere all’interno di comunità rette da gruppi etnico-culturali dominanti, almeno finché non inizia per questa manodopera servile un processo di emancipazione, che spinge comunque ad imitare la cultura dominante o a lasciarsene assimilare. Dall’altra, chi giunge con la speranza di una vita migliore accetta di lasciarsi alle spalle la vita precedente, ben sapendo però che ciò che li aspetta è una realtà da loro plasmabile, non ancora incisa indelebilmente da percorsi storici e culturali plurisecolari o plurimillenari. Una realtà dove il confronto con etnie, culture e stili di vita diversi rappresenta la normalità. E a sua volta una realtà dove tali etnie, culture e stili di vita diversi concorrono a forgiare una nuova identità nazionale in divenire.

Relativa omogeneità etnica europea e proposta di un’analogia storica alternativa

In Europa è però totalmente diverso. Innanzi tutto il continente non è, demograficamente parlando, una tabula rasa. I nativi europei non sono stati costretti a vivere in riserve o a nascondersi come animali nelle foreste. I nativi europei sono ancora oggi, sebbene invecchiati e con scarsa propensione a riprodursi, diverse centinaia di milioni di persone, eredi di percorsi storici e culturali plurimillenari o plurisecolari che hanno prodotto civiltà estremamente raffinate, straordinarie ricchezze capitalistico-finanziarie e complesse realtà statuali. Gli europei, sebbene in declino per ragioni geopolitiche, sono ancora oggi un insieme di popoli dotati di identità nazionali ben radicate nel passato e con una matrice etnica abbastanza omogenea, al netto della presenza di minoranze diasporiche, a loro volta stanziate da secoli o millenni e di fatto quasi o del tutto assimilate. Tale omogeneità etnica si è consolidata in seguito alle ultime grandi migrazioni e invasioni avvenute tra i secoli IV e XI che hanno contribuito a rimescolare tra loro le grandi famiglie indoeuropee (con la scomparsa dei celti e di altre popolazioni balcanico-danubiane, il ridimensionamento dei latini e dei popoli latinizzati e la massiccia redistribuzione di germani e slavi), con immissioni di elementi semitici (soprattutto arabi, nella sola penisola Iberica e in Sicilia) e uralo-altaici (ugro-finnici e turchi).

Tale scenario, realizzatosi al prezzo di innumerevoli sofferenze (migrazioni e invasioni portavano con sé quasi sempre un corollario di sopraffazione, violenze e razzie) per un periodo durato secoli, si è di fatto cristallizzato dall’XI secolo fino ad oggi, con poche nuove immissioni (modesti stanziamenti di turchi in area balcanica, a partire dai secoli XV-XVI) e alcuni ulteriori rimescolamenti prodotti soprattutto da fenomeni migratori interni allo stesso continente europeo, soprattutto con l’avvento della rivoluzione industriale, che accentuò gli spostamenti da un Paese all’altro. Gli italiani, ad esempio, fin dall’Ottocento iniziarono a spostarsi sempre in maggior numero in Francia, poi dal Novecento anche in Belgio, in Svizzera, in Germania, nel Regno Unito. Ma si è trattato, giustappunto, di assestamenti interni, generalmente scarsamente incisivi sul tessuto etnico-culturale degli Stati nazionali europei dove questi avvenivano. Assestamenti interni anch’essi inizialmente contrastati, ma alla fine abbastanza facilmente assorbiti. Li facilitavano: usi e costumi diversi, ma non poi così tanto; lingue diverse, ma talvolta della stessa famiglia; confessioni religiose uguali o affini; non da ultimo una simile pigmentazione della pelle e più o meno simili caratteristiche fisiche. A queste condizioni l’inclusione e poi il progressivo assorbimento dei nuovi arrivati era pertanto relativamente facile. Poteva aiutare inoltre (cosa che spesso avvenne, almeno fino all’Ottocento) la pratica dell’assimilazione onomastica. Ovvero la modifica, la traduzione o l’adeguamento fonetico dei nomi propri o dei cognomi, rendendoli più simili o orecchiabili alle popolazioni native ospitanti.

I fenomeni migratori che interessano più massicciamente l’Europa da diversi decenni a questa parte non sono tuttavia assestamenti interni, ma vere e proprie immissioni, già di per sé abbastanza significative e in costante aumento, di popoli extraeuropei. Questo dovrebbe farci riflettere, costringendoci a rispecchiare il processo migratorio attualmente in atto nel Vecchio Continente non tanto con quanto avvenuto e ancora oggi in atto nelle Americhe o in Australia, ma con quanto avvenuto nei secoli delle cosiddette invasioni barbariche, che prima investirono e poi travolsero l’Impero Romano, decretando infine il tracollo politico-militare della sua parte occidentale. Fenomeno senz’altro diverso da quello attuale, ma con alcune analogie.

Per esempio il fatto che, così come per i fenomeni migratori di oggi, si trattava di popoli che inizialmente premevano alle frontiere senza alcun intento di soggiogare lo Stato romano, spinti magari dal miraggio della ricchezza e della civiltà che si dispiegava sulle sponde opposte del Reno e del Danubio, talvolta a loro volta in fuga da invasioni di altri popoli bellicosi e per questo in cerca di protezione in territorio romano. Così come oggi, si trattava di popoli in gran parte estranei al tessuto etnico e culturale delle varie province dell’Impero. Così come oggi, non riuscendo a far fronte a sempre più costanti immissioni di questi popoli all’interno del limes, le classi dirigenti romane decisero di servirsi di queste genti, romanizzandole solo superficialmente, per affidare loro alcune terre da colonizzare e coltivare, rafforzando inoltre il dispositivo militare preposto alla difesa dei confini (anche oggi, con un leggero scarto di finalità, parliamo dei migranti come forza lavoro aggiuntiva o sostitutiva), contribuendo però a lungo andare a indebolire la coesione dell’esercito, favorendo infine l’ascesa di generali più interessati a costituire un loro potere personale che a difendere lo Stato romano da altre e ben più massicce invasioni.

Sappiamo bene come andò a finire. Con l’unica differenza che a quel tempo si tentò di arginare le invasioni, riscuotendo – almeno inizialmente – anche diversi notevoli successi che ritardarono il tracollo della civiltà romana di qualche secolo. Oggi invece, nell’Europa di inizio XXI secolo (ma lo stesso si può dire per l’Europa della fine del XX secolo) sono più i poteri e contropoteri che invitano ad una politica di porte aperte, di coloro che invece si battono per una riduzione o azzeramento dei flussi. Diciamo pure che oggi come oggi all’imperatore Marco Aurelio non sarebbe stato permesso di sconfiggere in campagne militari le tribù germaniche dei quadi e dei marcomanni, ma gli sarebbe stato imposto per motivi umanitari di andare loro incontro ad accoglierli, lasciandoli entrare liberamente. A tali condizioni Roma non sarebbe durata più di un secolo. Siamo sicuri che non faremo la fine di Roma, magari con un processo accelerato?

Le rivolte in Francia sono solo un assaggio di ciò che ci attende?

Torniamo al presente ed osserviamo quel che è avvenuto in Francia. Gli ottimisti derubricheranno le rivolte iniziate il 27 giugno 2023, in seguito all’uccisione di Nahel Merzouk, giovane diciassettenne francese ma di origine magrebina, come un semplice incidente di percorso. Magari interpretandole anche come l’occasione per una seria autocritica sull’operato delle forze di polizia, pregiudizialmente ostili agli immigrati e ai loro discendenti, e come uno sprone a ridurre le distanze economiche e sociali tra le periferie degradate nelle banlieue e i quartieri residenziali delle classi medie, di composizione etnica prevalentemente europea. Alcuni di questi obiettivi potrebbero essere senz’altro condivisibili, ma alla base di questo ragionamento c’è l’idea, altrettanto preconcetta, che sia possibile andare avanti così, che si possa sempre accogliere indiscriminatamente, che si debba favorire l’arrivo di sempre nuovi immigrati per incrementare le nascite e rendere più sostenibili i sistemi previdenziali, grazie all’immissione di giovane forza lavoro nel sistema. Ma a che prezzo? Siamo sicuri che per risolvere un problema non se ne stia creando un altro ben più grande e potenzialmente insostenibile?

Simili rivolte su larga scala, con annessi vandalismi e saccheggi, sono già avvenute in Francia e hanno tutte avuto origine da uccisioni, incidenti mortali o abusi avvenuti per responsabilità delle forze dell’ordine. La prima volta fu nell’ottobre-novembre 2005, poi nel luglio del 2009, quindi nel febbraio e marzo 2017 e infine adesso, tra giugno e luglio 2023. Ci sono senz’altro delle buone ragioni per protestare, ma si può anche credere che simili proteste, portate avanti con tali modalità, non siano volte a ottenere le scuse delle autorità (le quali peraltro si sono dimostrate in questa e altre occasioni rapide a riconoscere gli errori e a promettere giustizia), ma servano invece alle seconde o terze generazioni di immigrati a rovesciare una rabbia irrazionale contro il Paese in cui si sono trovati a vivere, aspirando a incutere timore e insicurezza alle autorità politiche e alla maggioranza privilegiata della popolazione, accusate globalmente di non comprendere il loro disagio. La questione è sottile. Se si trattasse soltanto di disagio socio-economico avverrebbero queste rivolte? Dove non ci sono immigrati in effetti queste non avvengono o quanto meno non con questa intensità e con questa durata. Rivolte che non sono peraltro una prerogativa della Francia: sono avvenute negli ultimi decenni anche in Gran Bretagna (impressionanti quelle del 6-11 agosto 2011 a Londra e in alcune città delle Midlands), in Belgio (nel 2006) e in Svezia (nel 2010, 2013 e 2016). Peraltro episodi collaterali delle ultime rivolte si sono avuti giustappunto proprio in Belgio e persino in Svizzera.

Potremo decidere di conviverci con questi e altri simili scoppi d’ira, ma dovremmo immaginare che sarebbero sempre più diffusi, a intervalli temporali tra l’uno e l’altro sempre più ristretti e in sempre più numerosi Paesi, in considerazione dell’aumento della popolazione straniera di origine non europea in tutti gli Stati del continente. Gli ottimisti potrebbero essere ragionevolmente certi che si possa invertire la tendenza con migliori politiche inclusive e di assistenza sociale, oltre che con un’opera di moralizzazione delle forze di polizia. Tuttavia rimane il dubbio: le rivolte sono espressione di un disagio socio-economico o sono un pretesto? I pessimisti potrebbero considerare che percentuali non indifferenti di immigrati di seconda o terza generazione, apparentemente integrati e detentori della cittadinanza del Paese europeo ospitante, si sentano ancora dei corpi estranei, percependo nei loro confronti (a torto o a ragione) diffidenza e ostilità, disattenzione per i loro bisogni, disinteresse per la loro cultura, timore per il loro credo religioso. Una solida formazione culturale e un lavoro di responsabilità aiutano costoro ad integrarsi pienamente nel tessuto sociale del Paese ospitante, ma tali opportunità come sappiamo non sono per tutti. Anche perché tali opportunità non sono nemmeno per tutti gli europei nativi.

Il realista dovrebbe pertanto interrogarsi se questi eventi, uniti ad altri esempi di evidente ostilità contro il Paese ospitante (dalla più semplice e apparentemente innocua lamentela circa lo sfruttamento passato e presente degli europei ai danni dell’Africa, del Medio Oriente e di tutti i Paesi ex coloniali, fino all’adesione a movimenti estremisti o terroristici, come nel caso dei cosiddetti foreign fighters inquadrati nell’ISIS-Daesh) non siano dei segnali di uno scollamento profondo e difficilmente ricomponibile tra le seconde e terze generazioni di immigrati e la maggioranza nativa europea in lento ma costante declino demografico (e che tale è percepita dalle seconde e terze generazioni che vedono molto a lungo termine la possibilità di un rovesciamento degli equilibri etnici), oltre che spaesata a livello identitario. Lo spaesamento identitario è la condizione di quegli europei, prevalentemente fra le generazioni più giovani, che provano vergogna per il passato dell’Europa e dell’Occidente, mirando con costanti e spesso persino ingenerose autocritiche a ottenere l’approvazione e la simpatia della popolazione immigrata o dei loro discendenti. In ogni caso la debolezza demografica e morale degli europei è senz’altro percepita e la rivolta è un mezzo che contribuisce a rafforzare la coesione delle masse immigrate, anche se di origini etniche diverse. Come ulteriore effetto collaterale ha persino la capacità di spaccare l’opinione pubblica europea, tra i fautori di una linea dura e i sostenitori del dialogo.

Importa poco che la paura di nuove rivolte avvantaggi le destre sovraniste e demagogiche perché la demografia è comunque dalla parte della popolazione di origine immigrata. I flussi migratori, infatti, non sono apparentemente arginabili, le unioni miste aumentano, la disaffezione nei confronti della storia e dell’identità europee avanza (prova ne è lo sbarco trionfale della cancel culture anche nel Vecchio Continente) e, comunque vada, l’altra metà dello schieramento politico è solidamente schierata a sostegno dell’immigrazione. Dunque è solo questione di tempo. Come la rana che si adatta, in una pentola colma d’acqua e posta sul fuoco, all’aumento costante della temperatura fino a che non si ritrova bollita, così gli europei si adatteranno a questa nuova condizione. Litigheranno tra loro, si divideranno, ma nel complesso, salvo brevi ed episodici momenti di ritorno ad un’inefficace linea di severità, non faranno nulla, consapevoli che per porre un argine al declino demografico del continente, alla mancanza di forza lavoro, al sostentamento dei sistemi previdenziali e al richiamo di investimenti dall’estero sarà necessario far entrare in massa popolazione immigrata da qualunque parte del mondo.

La situazione italiana e i primi preoccupanti segnali

Nel nostro piccolo in Italia i cittadini stranieri non comunitari residenti sul territorio nazionale sarebbero circa 3 milioni e 561 mila[1] (pari al 6,05 percento della popolazione complessiva italiana nel 2022), ma se si considerano i cittadini stranieri che hanno acquisito la cittadinanza negli ultimi anni (tanto per avere un’idea: fino al 2004 avvenivano meno di 13 mila naturalizzazioni all’anno, mentre dal 2013 hanno superato quota 100 mila, toccando quota 201 mila nel 2016, assestandosi poi tra le 132 mila nel 2020, 121 mila nel 2021, 133 mila nel 2022[2]) si può credere, facendo i conti e sottraendo dal computo le naturalizzazioni a vantaggio di cittadini di origine comunitaria, che la popolazione straniera non europea residente in Italia (con o senza cittadinanza e al netto dei non registrati) si aggiri attorno a 4 milioni e 400 mila unità (all’incirca il 7,5 percento della popolazione complessiva residente in Italia), in costante e inesorabile aumento. Sono percentuali ancora relativamente modeste, ma si deve considerare la distribuzione che varia da regione a regione (in Lombardia, ad esempio, i cittadini stranieri residenti nella regione erano già il 12 percento della popolazione regionale al 31 dicembre 2021), l’incremento che tra alti e bassi è costante da poco più di un decennio e le previsioni di future crescenti pressioni demografiche, prevalentemente dal continente africano, che produrranno nuove massicce immissioni nei decenni a venire.

Con questo ritmo nel 2050 la popolazione italiana di origine non europea, con o senza cittadinanza, potrebbe avvicinarsi a un quarto del totale. Per gli scontri interetnici (i Balcani insegnano) ne basta molto meno. Tra i cittadini stranieri non comunitari residenti in Italia e i neocittadini italiani di origine extraeuropea vi erano anche le due migliaia (almeno) di giovani e adolescenti immigrati di prima e seconda generazione che si diedero appuntamento sui social network a Peschiera del Garda, il 2 giugno 2022, mettendo in scena risse, furti e vandalismi vari, sequestrando di fatto l’intero piccolo centro urbano e costringendo la questura di Verona a inviare rinforzi, tra polizia e carabinieri. Non fu una rivolta in senso stretto e neppure un tumulto generato da violenze da parte delle forze dell’ordine ai danni di immigrati, così come in Francia. Piuttosto una sorta di festa sfrenata, infiltrata da baby gang e con l’invito esplicito alla disobbedienza: sui social giravano immagini del raduno con sovrimpresse scritte come «Peschiera il 2 con i bro, il 4 ancora di più e più casssino spacchiamo tutto», accompagnate dalle bandiere di Marocco, Somalia, Ghana, Brasile e Senegal. La giornata si chiuse con l’assalto ai treni per il rientro e con tentate violenze sessuali ai danni di sei ragazze tra i 16 e 17 anni che rientravano dopo una giornata passata in un vicino noto parco di divertimenti. Le ragazze riferirono che i giovani, prevalentemente nordafricani della loro età o poco più grandi, ridevano, sputavano e urlavano «le ragazze bianche qui non salgono»[3].

Gli ottimisti sosterranno che è stato un altro incidente di percorso e che la maggior parte dei giovani immigrati, di prima e seconda generazione, sono persone serie, rispettose, studenti diligenti o lavoratori volenterosi. E questo è senz’altro vero e proprio per questo immaginiamo che saranno stati i primi a provare vergogna (peraltro ingiustamente, non essendo in alcun modo responsabili) per quei loro connazionali usciti di senno. Tuttavia sono segnali del clima che sta cambiando, di equilibri che si stanno spostando, di tendenze future che potrebbero accentuarsi. Aspettando che anche da noi, prima o poi, esploda la rabbia come in Francia. A quel punto si dirà che si è trattato di un incidente di percorso, tanto più che altrove i rapporti tra immigrati di prima, seconda o terza generazione e gli europei nativi potrebbero essere nel frattempo persino peggiorati e quindi qualcuno potrebbe persino avere l’ardire di sostenere l’esistenza di un “modello italiano” di inclusione più virtuoso, come peraltro è già capitato di leggere in questo e in altri frangenti. Dovremmo tuttavia interrogarci se l’Europa di metà XXI secolo potrebbe pericolosamente assomigliare all’Europa romana del III, IV o V secolo. Se così fosse non avremmo molto tempo a disposizione per invertire la rotta.


[1] https://noi-italia.istat.it/pagina.php?L=0&categoria=4&dove=ITALIA

[2] https://web.archive.org/web/20180621115850/http://www.ismu.org/wp-content/uploads/2016/06/Cittadinanza_Min-INTERNO_1999-2014-3.xls ; http://dati.istat.it/Index.aspx?DataSetCode=DCIS_ACQCITIZ#

[3] https://www.ilgazzettino.it/nordest/verona/peschiera_del_garda_rissa_cosa_e_successo_veramente-6732405.html?refresh_ce