Conflitti

Democrazia Futura. Kosovo: l’Ucraina dei Serbi?

di Giulio Ferlazzo Ciano, Dottore di ricerca in Storia contemporanea |

Traslazione dello Stato, ripopolamenti, identitarismi etnici e odi atavici, fanno del Kosovo una Ucraina in miniatura nel cuore dei Balcani e potenzialmente altrettanto esplosiva.

Giulio Ferlazzo Ciano

Giulio Ferlazzo Ciano ricostruisce la storia del Kosovo evidenziando – come recita l’occhiello – alcune “Similitudini con l’Ucraina e rischi connessi nella situazione attuale” in un corposo saggio scritto per Democrazia futura in cui si chiede: “Kosovo: l’Ucraina dei Serbi?” Partendo da “La Dardania e i proto-albanesi” in età classica, ne ripercorre le vicende dall’arrivo dei serbi che ne fanno la culla della propria nazione nel tredicesimo secolo alla “grande trasformazione” seguita al dominio serbo con il suo ingresso a metà del quindicesimo secolo nell’impero ottomano e dal successivo ampliamento a partire dal sedicesimo secolo del “solco fra le due comunità etnico-religiose” ovvero quella albanese e quella serba. Nell’Ottocento il Cossovo diventa una sorta di “terra promessa per albanesi e serbi”. Le due guerre balcaniche alla vigilia della prima guerra mondiale inaugurano infine – secondo Ferlazzo Ciano – una nuova stagione “tra ambizioni di rivincita e vendette incrociate”. Alla fine della seconda guerra mondiale si porrà “il dilemma cossovaro: secessione a favore dell’Albania o ricongiunzione alla Jugoslavia?”. Malgrado la pax titina rimarranno a lungo quelle che l’autore definisce “le tensioni che covano sotto la brace”. Dopo la morte di Tito nel 1980 “L’equilibrio torna a franare” creando le premesse del conflitto che incendia la regione nel 1998-1999. Ferlazzo lo descrive come la “Cronaca di una guerra annunciata”. “Dal 1999 inizierà il processo di democratizzazione delle strutture di governo della Kosova che ha portato – ricorda ancora Ferlazzo Ciano – a coronare il sogno di autodeterminazione della popolazione albanese della regione, raggiunto con la proclamazione unilaterale di indipendenza dalla Serbia il 17 febbraio 2008” ponendo al Cossovo indipendente nuove “sfide e problemi, a cominciare dal mancato riconoscimento dell’indipendenza a tutt’oggi da parte di Cina Russia India e quelle che l’autore definisce “molte altre potenze regionali di una certa rilevanza come l’Indonesia, l’Iran, l’Algeria, il Sudafrica, il Brasile, l’Argentina, il Messico”. Il saggio si conclude con alcune importanti considerazioni su “Il Cossovo oggi: similitudini e differenze con l’Ucraina e rischi connessi”.

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Bordeggiando l’Adriatico a nord di Durazzo, si risalgono i placidi meandri della Bojana (lumi i Bunës), storica via d’acqua tra il mare e il lago di Scùtari e proprio a Scùtari, ai piedi dello sperone roccioso sul quale si staglia l’antica fortezza costruita dagli illiri e rifatta da bizantini, veneziani e turchi ottomani, si immette il Drin (lumi i Drinit), principale fiume albanese. Risalendolo dapprima in pianura, il fiume si inoltra poi tra montagne calcaree sempre più incombenti, fino a percorrere per decine di chilometri le spettacolari gole che separano le Alpi Albanesi dall’altopiano mirdita, sbarrate da tre centrali idroelettriche che hanno formato altrettanti laghi artificiali, di forma molto allungata e frastagliata, percorsi quotidianamente da chiatte a motore che assicurano il collegamento con le valli popolate dai “malissori”, la fiera gente di montagna albanese. L’ultimo lago si biforca in due bacini, alimentati a loro volta da due rami del Drin, l’uno detto Bianco (Drini i Bardhë), l’altro Nero (Drini i Zi). Il ramo di sinistra (Drin Bianco), superata l’ultima strozzatura, una vallata abbastanza ampia, lunga una decina di chilometri e chiusa tra due montagne di circa 2000 metri, si apre infine in un vasto altopiano leggermente ondulato, fitto di centri abitati e coltivazioni, posto tra i 400 e i 500 metri d’altezza, che rappresenta il bacino superiore del Drin Bianco e che una bassa giogaia coperta di boschi, alta poco più di 1000 metri, separa da un’ampia plaga pianeggiante e densamente abitata percorsa dalla Sitnica, un fiume affluente dell’Ibar, tributario del Danubio. Questa regione di altipiani e basse montagne, suddivisa fra due bacini fluviali ed estesa su appena 10.900 chilometri quadrati (l’equivalente degli Abruzzi) è chiamata Kosovo dai serbi e Kosovë dagli albanesi[1]. E qui cominciano i guai.

La Dardania dei proto-albanesi

Le radici del dissidio fra le due popolazioni che vivono in quest’area vanno in profondità, come quasi tutto nel Vecchio Continente e nel bacino del Mediterraneo. Perché in questa vicenda, dove si intrecciano rivendicazioni storiche a sostegno del diritto inalienabile degli uni o degli altri a popolare e dominare politicamente l’intera regione, è difficile comprendere chi abbia torto o ragione. Albanesi e serbi ne sono i protagonisti. La storia mostra gli uni come discendenti dei primi abitatori autoctoni, gli altri come genti arrivate in un secondo tempo. I primi avrebbero abitato il Cossovo già nell’antichità, ma i secondi l’avrebbero valorizzato nel medioevo, facendone la culla della loro nazione. Come se ciò non bastasse, la lunga dominazione ottomana sulla penisola Balcanica ha provveduto a inserire elementi di complicazione del quadro, quali, ad esempio, la diffusione dell’islam e, in epoche relativamente più recenti, l’introduzione di artificiali suddivisioni amministrative che, ancora oggi, giustificherebbero le rivendicazioni degli uni contro gli asseriti diritti storici degli altri. Dunque uno gnommero in piena regola, per usare il linguaggio gaddiano. E sfortunatamente il garbuglio particolarmente aggrovigliato non può essere tagliato con la spada, alla maniera alessandrina. Urge dipanarlo lentamente.

Partendo quindi dalle origini, inizialmente furono i Dardani a popolare la regione posta tra i corsi superiori del Vardar, del Drin e della Morava. Dardani che erano, a loro volta, una delle tante tribù che costituivano il popolo illirico, ritenuti pertanto barbari dai Greci, e che già nel III secolo a.C. si sarebbero dati un unico sovrano, diventando una minaccia per la Macedonia, ma senza rappresentare un ostacolo alla progressiva conquista romana dei Balcani, tanto che nell’85 a.C. sarebbero stati sconfitti da Lucio Cornelio Silla e assoggettati definitivamente tra il 76 e il 74 a.C. Sembra che i Dardani si romanizzassero abbastanza rapidamente così che «soldati dardani si trovavano di frequente in [vari] corpi: in legioni, coorti ausiliarie, fra gli equites singulares, e i pretoriani»[2]. Durante l’impero vi furono costruite strade, valorizzando così le miniere, e vi affluirono coloni che fondarono anche alcuni centri urbani, come Ulpiana, l’attuale Lipjan (Lipljan)[3], ad appena 15 chilometri da Prishtina (Priština), già capoluogo del Kosovo serbo-iugoslavo e oggi capitale dello Stato. Sotto Diocleziano, fautore di una riorganizzazione territoriale dell’Impero, la Dardania fu promossa a provincia.

Non è inutile ricordare questi passaggi, perché è in questo stesso periodo che si può rintracciare la nascita di un collante culturale che, seppur attraverso non poche mutazioni, è giunto fino ad oggi a rappresentare il patrimonio storico e identitario degli albanesi che popolano il Cossovo. Ed è proprio sull’identità linguistica albanese che si appunta l’attenzione per un dettaglio di non secondaria importanza. L’origine della lingua albanese sembra essere infatti di difficile rintracciabilità. Indoeuropea senz’altro, autoctona nel senso di precedere le grandi migrazioni slave del VI e VII secolo, ma non univocamente definibile come l’evoluzione moderna dell’antico illirico.

Francisco Villar, studioso di linguistica indoeuropea dell’università di Salamanca, sostiene che «ciò che sappiamo della lingua degli illiri è troppo poco per servire da base a una comparazione con l’albanese del XV e dei secoli successivi», aggiungendo inoltre che:

«Da un lato ci sono quelli che, per motivi più storici e di buon senso che propriamente linguistici, vogliono vedere l’albanese come l’attuale erede dell’illirico. A favore di questa tesi c’è il fatto che effettivamente gli albanesi si trovano nel territorio dell’Illyricum propriamente detto. Oltre tutto, le fonti storiche non parlano mai di un’immigrazione albanese [da altre regioni]. Contro il carattere illirico dell’albanese si adducono argomenti di natura linguistica, fonetica, lessicale e toponimica e, come alternativa, se ne propone l’ascrizione al gruppo tracio o al gruppo dacomisio»[4].

Al di là di un’ipotesi di gruppo linguistico a sé stante, l’ascrizione dell’albanese al gruppo tracio o dacomisio, ovvero di regioni storiche direttamente confinanti con la Dardania, ha fatto postulare dal francese Bernard Sergent, ricercatore presso il CNRS, e a diversi altri specialisti di lingue indoeuropee la tesi secondo cui

«il popolo albanese dell’antichità non abitasse la regione costiera dell’Adriatico. Il luogo in cui la lingua si formò sembra stare più nell’interno, nella zona montuosa tra la Dardania (l’attuale Kosovo) e la Macedonia, dove vivevano popolazioni che usavano un dialetto daco-trace. L’albanese sarebbe quindi una lingua di questo gruppo parlata da tribù dardaniche»[5].

E quindi, se si accettano queste tesi, sarebbe il Cossovo, sotto un certo punto di vista, la vera culla del popolo albanese.

Arrivano i serbi

Ma la storia complica tutto. Nemmeno vent’anni dopo la morte di Giustiniano, imperatore romano d’Oriente, la situazione dei Balcani, rimasta per secoli statica e nell’equilibrio sopra descritto, mutò improvvisamente. Dopo essere partiti dall’Europa centro-orientale intorno al I secolo dell’era corrente, gruppi numerosi di Slavi migrarono a sud della catena dei Carpazi, stabilendosi nelle pianure lungo il medio corso del Danubio e premendo col passare del tempo sulla frontiera bizantina. Infine, nel 582, apparvero gli Àvari, che fecero da apripista alla grande invasione slava dei Balcani. Entrati al seguito degli Àvari nei territori dell’Impero bizantino, sfruttando saccheggi e depredazioni attuati da questo popolo della steppa, gli Slavi si riversarono come un’onda su tutta la penisola, giungendo fino all’Egeo e all’Adriatico, scompaginando le strutture militari e amministrative bizantine. Dagli anni Ottanta del VI secolo gli Slavi lasciarono che i bizantini si mettessero all’inseguimento degli Àvari e iniziarono a stanziarsi stabilmente in tutta l’area balcanica. Masse sempre più numerose accorrevano nella penisola e riducevano i nativi ad asserragliarsi nelle città, molte delle quali non riuscivano a reggere l’urto con la marea slava e si arrendevano, come Singidunum (Belgrado), Naissus (Niš), Serdica (Sofia) e numerose altre[6].

Se le scorrerie degli Slavi giunsero fino al Peloponneso si può ben immaginare cosa accadde alla Dardania. La regione fu travolta e, come altre aree balcaniche, strutturata in sclavinie, sorta di territori autonomi a maggioranza slava che ebbero verso Bisanzio rapporti altalenanti, accettando la sovranità imperiale in cambio del permesso di colonizzare quelle regioni, talvolta invece sfidando apertamente l’autorità imperiale, stringendo nella loro morsa città e centri abitati di cultura greca e latina, questi ultimi lungo la costa dalmata. Solo tra il 783 e l’805 i bizantini riuscirono a portare a termine (e non senza fatica) il processo di «rigrecizzazione» della Grecia meridionale[7], ma nel resto della penisola la marea slava era ormai insediata e le sclavinie delle origini si andavano consolidando e unendo tra loro a formare Stati su base etnico-tribale. Tra l’VIII e il IX secolo il gruppo slavo dei Serbi era ormai solidamente stanziato in una regione montagnosa compresa tra i corsi fluviali della Narenta (Neretva), del Drin e dell’Ibar, dunque molto a ridosso del Cossovo, formando una tela di principati: Raška (Rascia), Zahumlje, Travunija e Duklja.

La situazione si evolse in senso favorevole ai serbi, che nel XII secolo poterono riunirsi in un’unica compagine statuale partendo dal principato della Rascia. Gli imperatori bizantini fino ad allora riuscirono quanto meno a garantirsi una certa fedeltà dei grandi župan (signori) della Rascia, ma con l’ascesa a gran župan di Stefano Nemanja (1169-1196) il vincolo con Bisanzio si fece più labile e, sfruttando l’alleanza con l’Ungheria, Nemanja fu in grado nel 1180 di spezzare «l’ultimo filo che ancora legava la Serbia a Costantinopoli»[8]. Ma la questione forse più importante riguardava l’estensione del dominio serbo nelle aree adiacenti alla Rascia. Ras, nei pressi dell’attuale Novi Pazar, era sede vescovile dal IX secolo e col tempo aveva esteso la sua giurisdizione ecclesiastica sui vescovadi ortodossi posti nelle nuove regioni di popolamento serbo, tra cui Prizren, nel Cossovo.

Progressivamente l’elemento più evidente di “serbizzazione” della regione cossovara fu proprio l’estensione in quell’area dell’influenza della chiesa serbo-ortodossa, unita all’importanza dei giacimenti minerari che attiravano le mire dei grandi župan Nemanjići. E così il baricentro della Serbia iniziò a spostarsi dalle montagne della Rascia ai fertili altipiani del Cossovo. Nella città cossovara di Peć (Peja, in albanese) si installò dopo il 1219 il metropolita autocefalo della Chiesa serba, riconosciuta indipendente dal patriarca di Costantinopoli. Il nome stesso della regione assunse in questi secoli la denominazione attuale, laddove l’antica Dardania lasciò progressivamente il posto a due toponimi differenti: Kosovo, originato dal vocabolo serbo kos (merlo), e per estensione Kosovo Polje, letteralmente “Piana” o “Campo dei Merli”, relativamente all’altopiano formato dal corso della Sitnica (dove oggi è Prishtina), e Metohija, mutuato dal greco bizantino, per la regione rappresentata dall’altopiano percorso dal Drin Bianco, ove è anche la città di Prizren, una delle residenze preferite dei futuri sovrani Nemanjići.

A nord del Kosovo Polje propriamente detto, attorno al massiccio montuoso del Kopaonik e ai suoi contrafforti si sviluppò la regione mineraria più importante della Serbia, riconosciuta frattanto nel 1217 come un regno indipendente da papa Onorio III.

«Il metallo più importante estratto dai giacimenti serbi [del Kosovo] era l’argento – particolarmente prezioso quello di Novo Brdo, “glama”, che conteneva una certa percentuale di oro – , ma la maggioranza delle miniere davano grandi quantità di piombo, rame e ferro»[9].

Oltre a Novo Brdo spiccava anche la miniera di Trepča, il cui nome sarà da tenere bene a mente.

La culla della nazione serba

Morto nel 1228 il primo sovrano riconosciuto della Serbia, tramandato alla storia con il nome di Stefano “Primo Coronato” (Prvovenčani), seguirono

«decenni di rapido sviluppo culturale, caratterizzato dalla costruzione di numerose chiese e monasteri ad opera dei sovrani e delle loro mogli, quale segno tangibile della loro ricchezza e della loro fede. Abbelliti da maestosi cicli di affreschi, felice intreccio di influenze bizantine e occidentali, molti di essi ancora testimoniano di una civiltà raffinata e guerriera, orgogliosamente consapevole della propria capacità creativa»[10].

Con la conquista, da parte del re Stefano Uroš II Milutin (1282-1321), dell’intera Macedonia settentrionale, con le città di Scupi (Skopje), Tetovo, Dibra e Veles, fu chiaro che i Nemanjići puntavano verso sud e così il Cossovo, nell’ottica dell’espansione a mezzogiorno, diventava di fatto il baricentro della Serbia, punto di arrivo delle rotte commerciali dirette verso i porti dell’Adriatico e principalmente quello di Ragusa (Dubrovnik). Al fine di comprendere l’importanza della regione nell’immaginario storico serbo, si consideri che il successore di Uroš II Milutin, Stefano Uroš III (1321-1331), ebbe l’attributo onorifico di “Dečanski”, dal nome del monastero cossovaro di Dečani di cui fu il fondatore[11]. Il monastero di Dečani, nella parte del Cossovo più correttamente denominata Metohija e non distante da Peć (Peja, in albanese), nel 2004 dichiarato dall’UNESCO Patrimonio dell’Umanità, è una delle più felici realizzazioni dell’architettura romanica monastica serba nella regione, non esente da influenze italiane, dato che l’autore, un frate francescano noto con il nome di Vito di Càttaro (Kotor, in Montenegro), vi introdusse stilemi riconducibili al romanico pugliese[12].

Il successore di Dečanski fu il più grande dei Nemanjići: Stefano Uroš IV Dušan. Questi salì al trono nel 1331 e con lui

«l’ascesa della Serbia, praticamente ininterrotta sin dall’epoca di Nemanja, raggiunse il suo punto culminante, trovando naturale espressione nel tentativo – fondato sul precedente esempio della Bulgaria – di succedere all’impero di Bisanzio. L’influenza bizantina aveva fatto grandi progressi nel paese sin dagli inizi del XIV secolo: ora si tradusse nel sistematico tentativo di far propria l’intera eredità dell’impero d’Oriente»[13].

Uroš IV (il cui attributo onorifico “Dušan” è ancora oggi diffuso come nome proprio in Serbia), che teneva la sua corte periodicamente a Prizren, si lanciò pertanto alla conquista di quanto rimaneva della Macedonia bizantina, occupando dapprima Ochrida e scendendo a sud fino a lambire Tessalonica (1334), per poi conquistare città e territori dell’odierna Albania e da lì passare nella Macedonia sud-occidentale e nella Tessaglia, fino alle coste dell’Egeo, prendendo il monte Athos e spingendosi fino ai confini della Tracia.

A Skopje, infine, il giorno di Pasqua del 1346, Dušan ricevette la corona imperiale dalle mani dell’arcivescovo di Serbia, elevato al rango di patriarca dei Serbi e dei Greci, del patriarca bulgaro, dell’arcivescovo di Ochrida e dei rappresentanti dei monasteri del monte Athos. Il titolo altisonante che si fece attribuire fu di Bασιλεὺς καὶ αὐτoκράτωρ Σερβίας καὶ Pωμανίας, ovvero imperatore e autocrate della Serbia e della Romania (per Romania si intendeva allora l’Impero Romano d’Oriente o quel che ne rimaneva a metà del XIV secolo). Era il coronamento di un sogno: la Serbia e il suo re-imperatore controllavano ora la costa balcanica fin quasi da Ragusa (Dubrovnik) al golfo di Corinto, compresa la porzione nordoccidentale dell’Egeo, con l’eccezione di Tessalonica, che ancora resisteva isolata in mano bizantina. E a bussare alla corte di Dušan si presentava addirittura Venezia, desiderosa di collaborare con la Serbia, sebbene in chiave antiungherese e non antibizantina[14].

In tutta questa vicenda per il Cossovo, assurto assieme alla Rascia a culla della nazione serba, si assicurava un ulteriore periodo di prosperità. E nella prosperità i dissidi tra etnie non trovano alimento. E così in effetti, senza particolari motivi di attrito, doveva essere la convivenza tra i serbi, in presenza crescente dal XII secolo ed eredi di quelle sclavinie già insediatesi nei secoli VII e VIII, e i più numerosi discendenti dei Dardani, sempre più identificati come “albanoi”, “arbani” o “albanesi” a partire dal XII secolo, sia da fonti bizantine che da quelle occidentali. Al 1272 risale, ad esempio, il primo Regnum Albaniae, nato sotto la protezione di Carlo I d’Angiò, re di Napoli, che per qualche tempo si estese fino alla valle del Drin, ma che poi ricadde sotto il controllo (effimero) bizantino e in seguito ancora di Dušan[15]. A Prizren, in quella che all’epoca era la principale città del Cossovo, popolata da serbi e albanesi, erano ospitate piccole comunità di mercanti ragusei e di minatori sassoni (sasi) e non doveva essere raro che le due principali comunità etnico-linguistiche interagissero tra loro potendo usare indifferentemente l’una o l’altra lingua, non essendo peraltro escluso qualche processo di albanizzazione, soprattutto nelle aree rurali. Un indizio di sincretismo culturale può offrirlo, sebbene a qualche secolo dalle vicende narrate, l’opera letteraria di Pjetër Bogdani, nativo di un villaggio non distante da Prizren (1625-1689), di fede cattolica, ritenuto il più notevole scrittore albanese del XVII secolo e che pur era discendente (come si evince chiaramente dal cognome) da un illustre famiglia di origine serba[16].

La fine di un’epoca

Ma come tutti i sogni, anche quello di Dušan era destinato a infrangersi. Se non fossero bastati il fragile e sfuggente controllo sui nuovi territori conquistati, la debolezza del figlio e successore Stefano Uroš V, cui fece da corollario la frantumazione del Regno in una serie di principati semindipendenti, a tutto questo si aggiunse anche ciò che si potrebbe definire l’imprevedibile genio guastatore della storia. Una popolazione di origine centro asiatica, i Turchi, islamizzata e giunta prepotentemente in Anatolia con la forza delle armi fin dal 1071, aveva costituito una serie di sultanati indipendenti in quelle che erano state le province sud-orientali dell’Impero bizantino. Il principale di questi sultanati, che fu poi detto Osmanlı (Ottomano), si spinse a conquistare le due sponde del mar di Marmara, gettando una testa di ponte sul suolo europeo fin dal 1352. Tre anni dopo si spense il re-imperatore serbo Dušan, mentre al contempo i turchi ottomani, dalla penisola di Gallipoli, iniziarono le loro scorrerie balcaniche. Nel 1371 i serbi scoprirono la potenza ottomana scontrandosi con i turchi lungo le rive del fiume Marizza (Evros): finirono uccisi in battaglia due principi-despoti che aspiravano alla successione. Lontano dal campo di battaglia morì anche Uroš V, fortunatamente per lui senza essere testimone del crollo definitivo della dinastia e con essa della patria intera.

A quel punto il tragico appuntamento con la storia era solo questione di tempo. E la sorte volle che la battaglia decisiva per la sopravvivenza dello Stato serbo si svolgesse giustappunto nella Piana dei Merli, quel Kosovo Polje assurto da allora al rango di alfa e omega dell’identità serba. Era il giorno di san Vito (Vidovdan), 28 giugno del 1389. Lo stesso identico giorno, 525 anni dopo, a Sarajevo sarebbe accaduto qualcosa di altrettanto importante, in quest’ultimo caso non solo per la Serbia ma per l’Europa intera. Quel giorno nel Kosovo Polje, invece, si sa come andò: l’eroico principe Lazar, alleato con i Bosniaci, fu sconfitto dall’armata ottomana del sultano Murad. Insieme a Lazar, catturato e decapitato, perirono al suo fianco schiere di combattenti valacchi, croati, bulgari e anche albanesi. La tragica disfatta di Kosovo Polje ha lasciato una

«indelebile traccia nella memoria collettiva del popolo serbo: “Quello che per i nostri storici è la nascita di Gesù Cristo”, afferma Ami Boué nella sua fondamentale La Turquie d’Europe, “la battaglia del Kosovo è più o meno per i serbi”»[17].

A cui si potrebbe aggiungere l’affermazione del critico letterario Jovan Skerlić:

«Come l’incendio di Troia illumina tutta l’antichità greca, così la disfatta del Kosovo illumina i canti popolari serbi e la poesia nazionale»[18].

Innumerevoli pagine sono state scritte su questo episodio cruciale della storia serba e sarebbe impossibile riassumerle. Giova semmai sottolineare, per quello che interessa la regione al centro della nostra attenzione, come questo singolare caso di una disfatta militare divenuta pietra angolare dell’identità di un popolo, sia indissolubilmente legato alla regione del Cossovo, ad un tempo culla e tomba della nazione serba.

Da quel momento in poi gli equilibri etnici nel Cossovo cambiarono per sempre e non in senso positivo. Tuttavia il cambiamento fu lento e, come dimostra forse anche la vicenda del sincretismo albanese-serbo rappresentato dal Bogdani, per qualche tempo si mantennero abbastanza inalterati i rapporti fra le due etnie. Sfortunatamente, anche in questo caso, sarebbe stata solo una questione di tempo. Tempo che, a volte, è tutt’altro che galantuomo.

La grande trasformazione

Per qualche anno sembrò che il dominio serbo nel Cossovo non dovesse finire, considerando che gli Ottomani si limitarono ad estendere la loro autorità non oltre Skopje (Üsküb per i turchi) e per un certo tempo, dopo il 1402, in seguito alla sconfitta subita in Anatolia per mano delle orde mongole di Tamerlano, terminarono anche gli assalti agli Stati cristiani nei Balcani. Ma fu solo una pausa. Il despota serbo Stefan Lazarević, che ancora dominava su ciò che rimaneva della Serbia e sul Cossovo e che aveva dovuto barcamenarsi tra ungheresi, veneziani e ottomani, alleandosi con questi ultimi in funzione anti-veneziana in Albania, nel 1423 cambiò campo e stipulò un’alleanza con la Serenissima. A quel punto il sultano Murad II inviò le armate ad invadere e devastare la Serbia e nel 1426 il despota Stefan fu costretto a chiedere la pace e ad abbandonare il sud-est del Paese all’Impero ottomano, accettando di pagare il tributo[19]. Murad II invase la Serbia una seconda volta nel 1439, pur lasciando al despotato la regione mineraria di Novo Brdo. Ciò che rimaneva del despotato di Serbia fu infine liquidato nel 1459, diventando un semplice sangiaccato (sancak)[20].

Negli anni Cinquanta del XV secolo il Cossovo era ormai entrato a far parte stabilmente dell’Impero ottomano. Gli albanesi non se la passavano meglio e, malgrado il tentativo eroico e pluridecennale di Giorgio Castriota Scanderbeg (Gjergj Kastrioti Skënderbeu) di preservare l’indipendenza dell’Albania, ciononostante la marea ottomana finì per travolgere anche i resistenti del Paese delle aquile e nel 1468 la fortezza di Croja (Kruja), ultimo bastione della resistenza albanese, si arrese ai turchi[21]. Fu allora, nel Cossovo spartito fra sangiaccati ottomani (uno di essi aveva sede a Prizren), che lentamente si ribaltarono i rapporti di forza fra le etnie.

Quel che accadde nei secoli successivi fu di fatto un massiccio processo di adesione delle popolazioni albanofone del Cossovo alla religione islamica. In questo senso è significativo che ancora oggi, a dispetto delle solide minoranze cristiane (ortodosse e cattoliche) nella Repubblica d’Albania (storicamente all’incirca 20 per cento di ortodossi e 10 per cento di cattolici)[22], nel Cossovo invece i dati del censimento del 2011 (boicottati dai serbo-cossovari) mostrano come i cristiani siano soltanto poco meno del 4 per cento della popolazione, di cui 1,5 per cento ortodossi (tutti serbi, pertanto sottostimati) e 2,2 per cento cattolici (tutti albanesi, dunque correttamente censiti)[23]. Sostenere che gli albanesi del Cossovo siano pressoché tutti musulmani non sarebbe quindi lontano dalla realtà. Le ragioni che portarono alla conversione di massa degli albanesi del Cossovo all’islam sono molte e non sempre spiegabili. Di certo c’è che la conversione all’islam era conveniente, sebbene da parte delle autorità ottomane non fossero mai state esercitate pressioni per convertire la popolazione cristiana e le discriminazioni nei confronti della popolazione non islamica fossero nel complesso tollerabili. Il sistema dei millet (comunità etniche ma più spesso confessionali), infatti, permetteva a ogni suddito dell’Impero di essere rappresentato presso la corte sultanale dai vertici religiosi delle singole nazioni-confessioni, garantendo per l’epoca una sufficiente inclusione.

Per il resto la convenienza alla conversione stava soprattutto nell’esenzione dalle imposte annuali, come la tassa di 25 aspri (equivalente a due monete d’oro da 7,14 grammi) dovuta da ogni coltivatore cristiano (ispence), a cui si aggiungeva il testatico (cizya), equivalente a 3,57 grammi di oro, contenuti in poco più di una moneta aurea[24]. Inizialmente versata dai dhimmi (non musulmani) per garantirsi la protezione delle leggi dell’Impero attraverso il riscatto della propria vita, la cizya assunse ben presto la connotazione di una «compensazione al servizio delle armi proibito ai non musulmani»[25]. Se c’era un aspetto che caratterizzava la società albanese era proprio il fatto di essere tradizionalmente adusa al possesso delle armi.

Ragioni diverse da quelle degli albanesi avevano indotto anche buona parte della popolazione della Bosnia alla conversione all’islam, ma nel caso del Cossovo mancava uno dei due fattori decisivi a questo passo, ovvero la diffusione della setta catara dei bogomili. Le precedenti discriminazioni e persecuzioni attuate nei loro confronti ne avevano favorito la conversione in massa. L’altro fattore, comune in questo caso con il Cossovo, era invece rappresentato dai vantaggi per gli ex signori feudali, la cui conversione permetteva loro di conservare i privilegi di rango, garantendo il passaggio alla nuova fede anche per i contadini alle loro dipendenze[26]. Sarebbero stati in seguito proprio gli albanesi a svolgere sovente il ruolo di “bravi” al servizio di questi proprietari terrieri, turchi o convertiti, accentuando per questo l’avversione nei loro confronti da parte delle masse contadine serbe, greche e slavo-macedoni, rimaste legate alla fede tradizionale[27].

Si amplia il solco fra le due comunità etnico-religiose

Ne consegue che, per le ragioni citate in precedenza, a cui se ne aggiungevano varie altre per i più disparati motivi personali, fossero gli albanesi del Cossovo a preferire la conversione rispetto ai serbi. A differenza dei loro connazionali che vivevano nei villaggi ai piedi delle Alpi Albanesi (i già citati “malissori”) o nel cuore delle aree montagnose più impervie, aree che sfuggivano al controllo effettivo ottomano e che pertanto, garantendo la conservazione di una sorta di status quo ante, permettevano di mantenere intatta la fede al credo cristiano, per gli albanesi che abitavano le pianure e le città di una regione ben connessa alla rete stradale, invece, era più facile convertirsi che tentare di nascondersi alle autorità, tanto più che la conversione si rivelava a conti fatti anche economicamente conveniente.

Si può credere che col tempo le due comunità iniziassero ad osservarsi con occhi diversi. L’una, quella albanese, finiva per assomigliare sempre più alla società dei nuovi dominatori, l’altra, quella serba, tentava di conservare il legame con la storia e l’identità passata, preservando innanzi tutto la fede nella Chiesa ortodossa serba, il cui patriarcato fu ad un certo punto soppresso, ma poi restaurato nel 1557 e nella stessa storica sede di Peć, in Cossovo, riconnettendosi così simbolicamente con le vicende dei Nemanjići e con l’epica ascesa del primo Regno serbo. La Chiesa serbo-ortodossa assumeva così il ruolo di custode di memorie storiche e identitarie ed «ebbe un’importanza enorme per il mantenimento di una coscienza culturale e nazionale unitaria»[28]. A differenza dei serbi gli albanesi non avevano una chiesa nazionale: al nord i cristiani erano prevalentemente cattolici, mentre al sud erano ortodossi, ma dipendenti dal patriarcato di Costantinopoli. La mancanza per gli albanesi del Cossovo del legame storico-identitario con una Chiesa nazionale era un ulteriore elemento che favoriva la loro conversione.

Sarebbe inutile ripercorrere nel dettaglio gli avvenimenti più importanti dei secoli di dominazione ottomana, ma sarà senz’altro utile ricordare almeno un fatto di una certa rilevanza, quello che determinò la traslazione dello Stato serbo a circa trecento chilometri di distanza dal suo storico baricentro geografico (Rascia e Cossovo). In seguito al secondo grande assedio di Vienna (1683), conclusosi con il ritiro delle armate ottomane, l’Austria asburgica mosse guerra al sultano assieme ad altri Stati riuniti in una «Lega Santa», da cui derivò la denominazione del conflitto, tramandato nella sola Venezia, anch’essa alleata all’Austria, come sesta guerra turco-veneziana. Nel 1688 gli austriaci entrarono a Belgrado, strategicamente importante per la possente fortezza (Kalemegdan) costruita alla confluenza della Sava nel Danubio e presidiata dagli ottomani. Sfortunatamente un’epidemia di colera che colpì le armate della «Lega Santa» favorì la controffensiva ottomana che costrinse infine le truppe asburgiche a ritirarsi. Al dramma (solo provvisorio per gli eserciti alleati della «Lega Santa») se ne aggiunse un altro, destinato questo invece a durare, per la popolazione serba, il cui rappresentante legale, il patriarca ortodosso di Peć, aveva preso posizione per gli Asburgo. E fu così che il patriarca Arsenije III Crnojević

«prese una decisione gravida di conseguenze: nel tentativo di salvare se stesso e quanti si erano compromessi nella lotta contro il turco, si mise in marcia [dal Cossovo] verso Belgrado, passando il Danubio, nel giugno 1690, alla testa di 70-80.000 persone, e insediandosi nell’Ungheria meridionale sotto la sovranità di Leopoldo I d’Austria»[29].

La decisione impattò primariamente sul Cossovo e in misura secondaria anche sul definitivo spostamento o traslazione del baricentro della Serbia verso nord, sulle rive del Danubio. Secondo altre fonti, furono addirittura 200.000 i serbi a emigrare oltre il Danubio (si può credere che al nucleo iniziale di serbi-cossovari si unissero altri gruppi di connazionali lungo il percorso), seguiti nel 1694 da un’ondata minore. L’autorità del patriarcato di Peć ne uscì enormemente indebolita e lo stesso patriarcato fu infine abolito con un firman del sultano nel 1767[30].

«Approfittando del vuoto lasciato dalla partenza dei serbi, elementi albanesi si stanziarono allora (o tornarono, secondo la storiografia albanese) nella zona dell’attuale territorio di Kosovo-Metohija, in Iugoslavia. Essi sono all’origine della trasformazione etnica di questa regione che comprende oggi in maggioranza albanesi»[31].

Lo storico francese Gilles Veinstein, specialista di storia turca e ottomana, ha inoltre scritto che:

«Venendo a sommarsi agli effetti delle fasi anteriori alla conquista ottomana, le guerre dei secoli XVII e XVIII contribuirono quindi a modificare sensibilmente e a complicare la ripartizione etnica nei Balcani, non senza portare i germi delle difficoltà politiche future, che ancora oggi non sono risolte»[32].

La frase citata è stata scritta nel 1989 e da allora le “difficoltà politiche” non sono effettivamente ancora cessate. La situazione che venne a crearsi nel Cossovo dei secoli XVIII e XIX è stata riassunta anche in questa forma:

«Il Kosovo, già centro religioso e culturale del popolo serbo, era comunque ormai quasi spopolato; ne approfittarono gli albanesi che, relegati nelle circostanti zone montuose, cominciarono a insediarvisi in schiere sempre più fitte. Di fede cristiana, più tardi essi passarono in maggioranza all’islam, attirandosi in tal modo l’ostilità dei pochi serbi rimasti, che li vedevano come un corpo estraneo, associandoli al turco, il nemico di sempre»[33].

Considerazione senz’altro vera, ma probabilmente il ripopolamento degli albanesi fu meno incisivo di quanto stimato dagli storici di cultura slavo-meridionale. Era infatti già da qualche secolo che gli albanesi avevano scelto di convertirsi all’islam e il loro sempre più massiccio passaggio alla fede musulmana e alle usanze della popolazione turca non era pertanto una novità. Lo testimonierebbero tra l’altro, almeno per quanto riguarda le realtà urbane (a Prizren, Prishtina, Peja), i numerosi edifici religiosi e civili ad uso esclusivo della comunità musulmana, come moschee, tekke, madrase e hammam, eretti fin dal XVI secolo.

Nella sola città di Prizren, che rimase a lungo il centro più importante della regione, si conservano tutt’oggi all’incirca una decina di moschee costruite nei secoli dal XVI al XVII, oltre a un grande hammam eretto nel 1573-74. Segno evidente che, almeno nei centri urbani, il processo di islamizzazione era ben più precoce di quello che si sviluppò dopo il 1690 in conseguenza della grande fuga verso nord dei serbo-cossovari, non bastando di certo le numericamente modeste comunità di turchi stabilitisi nella regione a spiegare una tale massiccia presenza di testimonianze anteriori al XVIII secolo della diffusione del culto islamico in Cossovo. Gli albanesi non potevano che essere già in Cossovo, tanto più che, a rigor di logica, ne erano anche gli abitatori originari. È probabile semmai che, nei tre secoli in cui in Cossovo fiorì la civiltà serba, gli albanesi si fossero in una certa misura “serbizzati” o avessero comunque accettato di buon grado di vivere come sudditi fedeli di un re cristiano che garantiva prestigio e una certa ricchezza ai territori da esso governati, senza fare particolari distinzioni tra le etnie.

Sia come sia, è indubbio comunque che dopo il 1690 si produsse un vuoto che fu senz’altro colmato da ulteriori immissioni di genti albanesi. A partire dall’Ottocento, inoltre, le riforme istituzionali introdotte gradualmente nell’Impero ottomano beneficiarono in una certa misura le comunità di arnavut, ovvero glialbanesi, visti da Istanbul come sudditi ottomani tendenzialmente più fedeli di altri gruppi nazionali, tanto più che molti di essi erano musulmani, molti si erano stabiliti in altre regioni dell’Impero e persino nella stessa capitale, e non erano inoltre pochi coloro che, nel corso dei secoli, si erano distinti nel governo dello Stato, assumendo incarichi prestigiosi in ambito militare e civile (una famiglia albanese, i Köprülü, resse ininterrottamente il visirato negli anni 1656-1683[34]). Nel 1831 avvenne così che la vasta regione di popolamento albanese venisse suddivisa in quattro governatorati (vilayet), di Scutari, Monastir, Giannina e Kosovo (con capoluogo a Prizren). Il territorio dei quattro vilayet è lo stesso rivendicato ancora oggi dai nazionalisti albanesi (inclusi gli albanesi-cossovari) per la creazione di una futura Grande Albania (Shqipëria e Madhe) e come tale spesso è comparso, sotto forma di sagoma, sulle bandiere e negli striscioni che hanno accompagnato le manifestazioni contro la minoranza serbo-cossovara, anche durante quelle dello scorso maggio 2023.

Cossovo, terra promessa per albanesi e serbi

Frattanto nella Serbia danubiana maturavano i tempi per una restaurazione dell’indipendenza nazionale. Le tappe principali furono due insurrezioni, nel 1804 e nel 1815, entrambe portatrici di modeste autonomie interne, l’ultima della quali condusse infine al riconoscimento, garantito da Francia, Regno Unito e Russia, della piena autonomia della Serbia nella veste di Stato vassallo dell’Impero ottomano (conferenza di Londra, febbraio 1830)[35]. Nel 1842 la famiglia dei principi-vassali Obrenović fu sostituita dai Karadjordjević, discendenti del protagonista (Karadjordje, ovvero «Giorgio il Nero») della prima insurrezione anti-ottomana. Fu in questo periodo che, in seno al governo del principato autonomo, emerse la figura di Ilija Garašanin come esponente di spicco di una corrente di politici legalisti e riformisti (Ustavobranitelji, letteralmente «difensori della costituzione») che si appoggiavano alla Francia e al Regno Unito, guardando con interesse al modello costituzionale francese. Garašanin è inoltre il padre di un documento ancora oggi molto noto da tutti i serbi nazionalisti, noto come Načertanije («Bozza»), elaborato nel 1844.

Si trattava di un programma a lungo termine volto a rendere la Serbia pienamente indipendente e, soprattutto, inteso ad estenderne i confini fino ad includervi tutte le comunità storiche di serbi che abitavano nei Balcani. Lungi dall’essere solo un programma politico, dunque, il Načertanije

«fu la prima espressione organica delle idee grandi-serbe [e] rimase, fino al 1918, un punto di riferimento per gli uomini al potere a Belgrado, ispirando, con la sua visione di un risorgimento dell’”impero di Dušan”, generazioni e generazioni di patrioti»[36].

L’impero di Dušan. Così il passato tornava a bussare alla porta del Cossovo, perché era proprio il Cossovo, non ancora incluso nel principato autonomo di Serbia, a dover essere la prima e simbolicamente irrinunciabile conquista territoriale della futura nazione serba. Culla del più grande impero serbo della storia, ma, agli occhi dei serbi, usurpata da genti turchizzate che l’avevano espropriata ai loro legittimi proprietari.

Nei decenni successivi il sogno di Garašanin sembrò realizzarsi. Nel luglio 1878 il congresso di Berlino, convocato in seguito alla guerra russo-ottomana che aveva visto le armate zariste giungere a pochi chilometri da Istanbul, riconobbe e costrinse a sua volta il sultano a riconoscere la piena indipendenza alla Serbia. Questa dal 1882 divenne un Regno retto dalla dinastia degli Obrenović[37]. Raggiunto così il primo obiettivo del Načertanije, rimaneva da riportare in vita l’impero di Dušan. Frattanto, tre giorni prima che si riunisse il congresso a Berlino, a Prizren si erano riuniti in assemblea 80 delegati, provenienti dai summenzionati quattro vilayet ottomani e convocati da Abdyl Frashëri, un deputato albanese del governatorato di Giannina presso l’Assemblea parlamentare di Istanbul, istituita due anni prima su iniziativa del sultano. Frashëri aveva già organizzato nella capitale ottomana un “Comitato per la difesa della nazionalità albanese”, da lui stesso presieduto, che riuniva anche gli esponenti dei tre culti più diffusi nel Paese[38].

Frashëri e i delegati convenuti a Prizren temevano che il territorio balcanico rimasto all’Impero ottomano, ormai per metà occupato da regioni popolate in buona parte da albanesi, fosse ulteriormente spartito tra gli Stati confinanti, ovvero la Grecia, il Montenegro e soprattutto la Serbia. Pertanto i delegati albanesi, memori del precedente della Lega costituita da Scanderbeg nel 1444 per respingere i conquistatori turchi, decisero così di costituire una seconda Lega che fu detta «di Prizren». La Lega di Prizren invero assunse un atteggiamento ambiguo, sia nei confronti dell’Impero ottomano, sia nei confronti delle potenze convenute a Berlino, frutto del compromesso fra due visioni del problema albanese emerse tra i delegati, una metà fedeli al sultano e intesi a promuovere l’unione di tutti i sudditi musulmani dei Balcani, l’altra metà, ispirati da Frashëri, volti invece a richiedere l’autonomia per la sola Albania nella cornice dell’Impero, indipendentemente dalla religione professata dagli abitanti della regione. Iniziò da questo momento una tensione tra la Lega e il governo sultanale che comportò, in un clima di crescente violenza, la rottura delle relazioni tra il sultano e la Lega di Prizren (peraltro totalmente ignorata a Berlino) e infine, dopo lo scoppio di una rivolta, l’invio di un distaccamento armato ottomano in Cossovo, che sciolse la Lega (aprile 1881), fece arrestare Abdyl Frashëri e i capi del movimento autonomista[39].

Il Cossovo vide ancora emergere un nuovo tentativo autonomista, un’altra Lega che fu detta «di Peja» (Peć) e che ebbe anch’essa vita breve (1897-1900). Con il nuovo secolo il clima di tensione interetnica crebbe in tutti i Balcani e gli albanesi si resero protagonisti di moti insurrezionali, dal nord al sud della loro patria non ancora costituita in Stato indipendente, ma ben individuata sulla carta dai quei patrioti che avevano imparato la lezione di Abdyl Frashëri[40]. D’altra parte a Belgrado altrettanti patrioti avevano ben imparato la lezione di Ilija Garašanin e le due lezioni sfortunatamente non erano compatibili, l’una definendo gli albanesi mere comparse in un grande Stato serbo, l’altra definendo i serbi potenziali invasori da cacciare una volta per tutte dalle terre albanesi. Va inoltre considerato come per il Cossovo in questi opposti programmi non potesse esserci alcun compromesso: per gli uni si trattava di una regione consacrata eternamente alla Serbia dalle gesta di Dušan e dal sangue versato a Kosovo Polje; per gli altri era parte inalienabile della patria ancestrale di un popolo che vi aveva sempre abitato, ben prima dell’arrivo dei serbi.

Vincitori e vinti tra ambizioni di rivincita e vendette incrociate

Le guerre balcaniche fecero il resto e produssero quel mosaico a incastro di confini che, con qualche modifica non particolarmente incisiva, sono sopravvissuti fino ai giorni nostri. Le due guerra balcaniche, nel complesso di breve durata (ottobre 1912-maggio 1913; giugno-agosto 1913), si conclusero con il trattato di pace di Bucarest (10 agosto 1913) in forza del quale la Serbia, dopo averle occupate, annesse la Macedonia centrale, con Skopje e la media e alta valle del Vardar (l’attuale Repubblica della Macedonia del Nord, ex FYROM), e il Cossovo (Kosovo e Metohija), ridenominando queste due regioni rispettivamente Serbia Meridionale (Južna Srbija) e Vecchia Serbia (Stara Srbija),

«a sottolineare la loro intima affinità con il regno in cui entravano a far parte: la classe dirigente serba considerò il fatto che esse fossero abitate in maggioranza da macedoni e da albanesi come un accidente di secondaria importanza, cui ovviare con un’adeguata politica di dominio e di assimilazione»[41].

A quel tempo gli “accidenti di secondaria importanza” che vivevano nel Cossovo non erano stati ancora censiti con modalità chiare e inequivocabili, tuttavia una stima fornita nel 1903 dal consolato austro-ungarico di Prizren riteneva esservi 230 mila albanesi a fronte di circa 187 mila serbi. Questa cifra, che pur nella sua approssimazione dimostrava che la fuga dei serbi dopo il 1690 e nel corso del XVIII secolo non aveva privato la regione della presenza slava, dovette probabilmente aumentare ulteriormente negli anni del primo conflitto mondiale, segnato da ulteriori partenze di serbi e da un naturale incremento demografico degli albanesi[42]. Incremento demografico che è proseguito ininterrottamente fino alle soglie del XXI secolo e che le autorità serbe e poi iugoslave tentarono in tutti i modi di arginare, promuovendo almeno per tutti gli anni Venti e Trenta del Novecento l’afflusso di coloni serbi (ex combattenti e contadini senza terra) nelle fertili pianure del Kosovo e della Metohija e di emigranti montenegrini, anch’essi spinti dal bisogno di terra a scendere dalle montagne verso le pianure cossovare[43].

Montenegrini peraltro che, anch’essi etnicamente e linguisticamente serbi, rivendicavano e rivendicano tutt’oggi con orgoglio la paternità di un’opera letteraria composta nel 1845 dal vladika (principe-vescovo) Petar II Petrović Njegoš: il poema dal titolo Il serto della montagna[44]. La composizione, tra le altre cose, enfatizzava in versi lo sterminio compiuto a più riprese, nei primi anni del XVIII secoli, ai danni dei “turchi” che si erano stabiliti nelle terre montenegrine, in un florilegio di mitici riferimenti all’epopea degli Uroš e al vile tradimento di Kosovo Polje, onta da lavare nel sangue con l’acciaio delle spade. Caposaldo della moderna letteratura serba, si può ben immaginare con quali conseguenze sull’immaginario collettivo di un popolo che, almeno nel Cossovo, non sapeva distinguere un turco da un albanese, vedendo in entrambi quegli stessi odiati musulmani, sterminati dall’avo del vladika, alleati tra loro per assicurarsi la secolare schiavitù del popolo serbo su quella terra che (onta suprema!) gli apparteneva invece di diritto. Non ne poteva venire nulla di buono, se non un’istigazione alla vendetta che avrebbe generato faide interetniche interminabili. Bisognava solo stabilire chi avrebbe iniziato a dare fuoco alle polveri.

In un clima di generale repressione dell’identità albanese nel Cossovo, l’opportunità di una rivincita si presentò durante la seconda guerra mondiale. Frattanto una patria albanese indipendente era nata sulla scorta delle decisioni assunte nel luglio 1913 da una Conferenza degli ambasciatori riunita a Londra[45]. Inizialmente solo sulla carta, dopo la prima guerra mondiale (novembre 1921) l’Albania ebbe la sua definitiva configurazione istituzionale e territoriale, rimanendo indipendente fino al 7 aprile 1939, quando le truppe italiane effetturono l’invasione del Paese. Subito dopo fu istituita una peculiare forma di controllo attraverso l’unione delle corone d’Italia e d’Albania, quest’ultima attribuita a Vittorio Emanuele III di Savoia (al tempo re d’Italia e imperatore d’Etiopia), e l’istituzione di un governo albanese autonomo retto da un Primo Ministro nominato tra le file del Partito Fascista Albanese[46].

Con l’invasione italo-tedesca della Jugoslavia (6-17 aprile 1941) si realizzò la possibilità di riunire le terre etnicamente albanesi dei Balcani in una Grande Albania (Shqipëria e Madhe), che ebbe effettivamente luce, in seguito al compromesso raggiunto tra i ministri degli esteri italiano e tedesco, Galeazzo Ciano e Joachim von Ribbentrop (24 aprile). Compromesso che tuttavia, pur assicurando alla Grande Albania fascista il possesso del Cossovo, lasciava sotto controllo militare germanico  il distretto di Mitrovica, nel nord della regione (rimasto formalmente territorio occupato della Serbia), in ragione della volontà tedesca di servirsi direttamente delle miniere di Trepča, ai piedi del Kopaonik, che fornivano ferro e piombo per lo sforzo bellico[47]. Le annessioni, anche se di molto inferiori alla superficie dei quattro vilayet, ebbero comunque il vantaggio di guadagnare all’Italia le simpatie dei patrioti albanesi del Cossovo e della Macedonia e di tutti quei nazionalisti albanesi nella cosiddetta “Vecchia Albania” (lo Stato albanese nei confini del 1921) che potevano ora vedere coronati dal successo i loro sogni irredentistici.

Ma le vendette erano pronte a prendere il sopravvento: in breve tempo sembra che tra i 70.000 e i 100.000 serbi fossero costretti ad abbandorare la regione, finendo molto spesso nei campi di reclusione di Prishtina e di Mitrovica, quest’ultimo – come si è detto – in territorio occupato dai tedeschi, dove venivano poi avviati al lavoro coatto nelle miniere di Trepča[48].

D’altra parte fin dal 1921 il trattamento riservato dai serbi agli albanesi, come si intuisce, non era stato dei migliori. Uno degli effetti positivi per gli albanesi cossovari fu, ad esempio, l’opportunità di poter intraprendere un regolare ciclo di studi in lingua albanese, fin dalle scuole elementari e medie (ne furono aperte per l’occasione 173), cosa di per sé impensabile nel Regno serbo-jugoslavo. Tuttavia il trattamento riservato ai serbi, costretti ora loro stessi a nascondersi alla vista degli albanesi, a lasciare la regione, abbandonandovi case e terreni (sebbene talvolta si trattasse di proprietà ottenute dopo il 1913), talvolta spediti al lavoro coatto, subì un deciso peggioramento dopo la notizia dell’armistizio tra l’Italia e gli alleati, l’8 settembre 1943, quando la Grande Albania sotto controllo italiano, e con essa l’intero Cossovo, fu occupata in pochi giorni dalle truppe tedesche[49].

Anche i tedeschi si servirono del nazionalismo albanese per garantirsi un certo appoggio dalla popolazione e dalle autorità locali. Tuttavia ciò a cui puntavano in realtà erano le risorse minerarie (soprattutto cromo, oltre a ferro e piombo) e le più modeste ma non meno preziose risorse petrolifere, già sfruttate dagli italiani, e la possibilità di approvvigionare l’esercito con i raccolti dei fertili altipiani del Kosovo e della Metohija.

Questa vera e propria politica di saccheggio delle risorse locali comportò anche un’impennata inflazionistica per l’improvvisa penuria di derrate alimentari sui mercati locali[50]. Per controbilanciare il più duro regime di occupazione, oltre ad avere arruolato nel governo fantoccio di Tirana un buon numero di personalità cossovare, furono istituite anche delle forze militari albanesi sotto supervisione tedesca.

Queste formazioni offrivano agli albanesi che vi si arruolavano l’illusione di poter difendere, come da propaganda tedesca, il carattere etnico della Grande Albania e di assicurarsi delle provvigioni “extra” con attività di saccheggio.

Fu così che nel febbraio 1944 venne creata la divisione SS “Skanderbeg” sotto diretto controllo tedesco, che reclutò all’incirca seimila volontari. Eppure, malgrado l’addestramento e la missione di combattere le forze partigiane, stando anche alle relazioni dell’inviato del ministero degli esteri tedesco nei Balcani, Hermann Neubacher

«Le unità della divisione avevano una reputazione poco invidiabile, poiché apparentemente preferivano violentare, saccheggiare e uccidere a sangue freddo piuttosto che combattere, in particolar modo nelle regioni serbe»[51].

Ad aggravare le sofferenze per i serbi rimasti in Cossovo si aggiungeva l’attività di un’organizzazione paramilitare nazionalista nota come “Seconda Lega di Prizren”, guidata dall’albanese-cossovaro Bedri Pejani e protagonista, come la divisione “Skanderbeg”, di inusitate violenze e saccheggi ai danni dei serbi, spingendo lo stesso Neubacher a definire Pejani un pazzo, responsabile di eccessi insopportabili persino per i tedeschi, tanto da arrivare a negargli la fornitura dei 150 mila fucili che gli erano stati richiesti, temendo che con quelle armi si compisse lo sterminio dei rimanenti serbi e montenegrini rimasti intrappolati nella regione[52].

Il dilemma cossovaro: secessione a favore dell’Albania o ricongiunzione alla Jugoslavia?

Ecco dunque cosa stavo accadendo nel Cossovo sotto controllo tedesco: le stesse dinamiche ravvisabili in Bosnia, dove, con il benestare degli ustascia croati, formazioni di SS bosniaco-musulmane operavano sotto supervisione tedesca brutalizzando la popolazione serba, incendiando villaggi, seminando il terrore con razzie, fucilazioni di massa, violenze generalizzate e deportazioni. Ingredienti perfetti, anche nel Cossovo, per seminare ulteriore desiderio di vendetta interetnica. In queste condizioni anche la stessa organizzazione della lotta partigiana risultava compromessa e, in effetti, nei primi mesi dell’occupazione tedesca le forze partigiane cossovare, inquadrate tra le forze comuniste jugoslave guidate da Josip Broz detto “Tito”, e che avrebbero dovuto riunire insieme albanesi e serbi, erano esigue e non avevano nemmeno potuto inviare alcun comunista cossovaro alla Conferenza di Jaice nel novembre 1943[53].

C’era tuttavia un ostacolo alla collaborazione tra comunisti cossovari di entrambe le etnie: il destino del Cossovo alla fine del conflitto. Sarebbe dovuto restare all’Albania o tornare alla Jugoslavia, pur nel sistema di autonomie teorizzato da Tito? Delegati albanesi e serbi della regione si riunirono pertanto a Bujan, un piccolo villaggio nelle Alpi Albanesi, tra il 31 dicembre 1943 e il 2 gennaio 1944, stabilendo di collaborare alla liberazione della regione dalle forze naziste e collaborazioniste, rinviando la decisione sull’appartenenza del Cossovo alla fine del conflitto e ipotizzando persino la possibilità per gli albanesi di esercitare il diritto all’autodeterminazione e alla secessione dalla Jugoslavia. La risoluzione adottata a Bujan fu immediatamente denunciata da Tito come «atto anti-jugoslavo» e rigettata dall’ufficio politico del Partito Comunista Jugoslavo[54].

Frattanto avveniva il crollo del dispositivo militare tedesco nei Balcani e l’evacuazione tedesca dell’Albania (ottobre-novembre 1944), con le forze partigiane albanesi inquadrate nel Movimento di Liberazione Nazionale (LNÇ, secondo l’acronimo albanese), guidato dal capo comunista Enver Hoxha, che ingaggiavano le ultime battaglie e prendevano possesso dei centri abitati. Prizren fu liberata il 4 ottobre 1944, mentre a Tirana le truppe dell’LNÇ entrarono dopo accaniti combattimenti il 28 novembre. In effetti fin dal settembre del 1944 (secondo alcune fonti già da prima) alcune brigate dell’LNÇ avevano iniziato ad operare in Cossovo, con il permesso di Tito, arruolando gli albanesi cossovari tra le forze partigiane, indispensabili per disarmare le bande armate collaborazioniste e spingere i tedeschi ad abbandonare la regione[55].

A liberazione avvenuta rimasero ad operare nella regione le milizie nazionaliste albanesi del Balli Kombëtar (Fronte Nazionale) che, in odio ai comunisti albanesi, combattevano da tempo a fianco dei tedeschi, anch’esse note per le violenze ai danni dei serbi e che, nella particolare situazione del Cossovo liberato dai tedeschi, si erano unite alla rivolta popolare scoppiata dopo l’arrivo delle forze partigiane titine, che iniziarono a trattare gli albanesi con la durezza che si doveva a un popolo di collaborazionisti. Sarebbe stato addirittura Tito stesso a richiedere l’aiuto delle forze partigiane albanesi per stroncare la rivolta, cosa che avvenne tra il febbraio e il luglio 1945[56]. Alla fine i partigiani jugoslavi subentrarono agli albanesi, reintegrando amministrativamente la regione nella nuova Jugoslavia federale comunista. Da allora il Cossovo (Kosovo, secondo la denominazione serbo-croata) rimase alla Jugoslavia fino alla sua dissoluzione.

La pax titina e le tensioni che covano sotto le braci

Le vicende del secondo conflitto mondiale sono state narrate con maggiore attenzione ai dettagli per mostrare come negli anni tra il 1941 e il 1945 si siano raggiunti gli apici della violenza tra le due comunità, destinati a lasciare velenosi strascichi nei decenni successivi. Le angherie subite dai serbi da parte degli albanesi non sarebbero state dimenticate e, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, ricominciò la giostra del revanscismo, a cui si aggiungevano vecchi conti in sospeso da regolare, in un crescendo di tensioni e violenza fino al conflitto deflagrato nel 1998-1999.

Tornando alle vicende successive alla seconda guerra mondiale, nel Cossovo si stabilì una sorta di pax titina sulla base di una formula che avrebbe retto fino alla morte del maresciallo Tito, un misto di moderata autonomia, jugoslavismo e, all’occorrenza, pugno di ferro. Malgrado Tito fosse croato, le strutture di sostegno al regime, dall’esercito alla polizia segreta (UDBA) fino alle attività di propaganda politico-ideologica, erano ancora in mano prevalentemente a serbi e montenegrini. La federazione sarebbe stata ancora per lungo tempo più un artificio retorico che una realtà effettiva. D’altra parte il «compagno Marko», nome di battaglia del serbo Aleksandar Ranković, potente ministro dell’interno a capo dell’UDBA, per anni fu una sorta di capo pretoriano di Tito, fedelissimo esecutore delle sue direttive e, allo stesso tempo, tenace sostenitore dell’organizzazione verticistica dello Stato (attraverso il partito) e, conseguentemente, di strutture amministrative che avrebbero dovuto essere nulla di più che cinghie di trasmissione con il potere centrale. Il potere esercitato da Ranković all’interno della federazione offriva al croato maresciallo Tito l’opportunità di predicare l’esistenza di un rinnovato equilibrio tra tutte le etnie che componevano la Jugoslavia, mentre al contempo i serbi continuavano di fatto a dominare[57]. In Serbia, divenuta nel frattempo un’unità federata (Repubblica Popolare Serba fino al 1963, poi Repubblica Socialista Serba), così come nel Kosovo, annesso direttamente alla Serbia, e nel resto della Jugoslavia.

La mano di Ranković calò sulla regione con metodicità, sebbene Tito avesse deciso quanto meno di non incoraggiare il ritorno dei serbi che erano fuggiti negli anni tra il 1941 e il 1945. L’UDBA perseguitò quindi sistematicamente quanti, dopo il 1948, furono titubanti o si opposero a schierarsi dalla parte di Tito contro Stalin. E tra i comunisti cossovari a pagare il prezzo più alto erano soprattutto gli albanesi, sospettati di mantenere contatti con il regime di Enver Hoxha, fedelissimo alleato di Mosca, venendo colpiti con ondate di arresti, deportazioni, fino alle più lievi – ma umilianti – campagne di disarmo che pur li privavano del loro bene più prezioso, per un popolo abituato da sempre a portare con sé delle armi. Nel 1963, contemporaneamente al varo della nuova Costituzione federale, fu concessa alla regione (ribattezzata Kosovo-Metohija “Kosmet”) lo statuto di provincia autonoma nella cornice della Repubblica Socialista Serba. Si trattava di un provvedimento puramente di facciata, visto che la Costituzione rafforzava il ruolo centrale del PCJ (divenuto frattanto Lega dei comunisti jugoslavi) e della burocrazia serba, a Belgrado come a Priština[58].

Poi, inaspettata e improvvisa, avvenne la svolta. Nel luglio 1966, durante la riunione del Comitato centrale della Lega, sull’isola istriana di Brioni (residenza di Tito), si contrapposero due correnti contrapposte, una riformista e autonomista, l’altra dogmatica e centralista incarnata da Ranković, che infine fu accusato di aver esercitato negli anni un potere eccessivo sulle istituzioni dello Stato e successivamente deposto da ministro e da capo della polizia. La scomparsa di Ranković ridiede fiato alle rivendicazioni autonomistiche di tutte le componenti etniche della Jugoslavia, compresi naturalmente gli albanesi del Cossovo, e le speranze di un cambiamento furono confermate dal viaggio di Tito nella regione nel marzo 1967[59]. Tuttavia la deposizione di Ranković ebbe un effetto collaterale destinato a suscitare tra i serbi un misto di rancore e vittimismo, che avrebbe infine dato i suoi frutti a partire dalla morte di Tito. Infatti:

«agli occhi di molti serbi e montenegrini la scomparsa di Ranković – per quanto terribile fosse il suo dominio – rappresentava il crollo di una visione centralistica dello Stato, ostile ai particolarismi e agli interessi dei gruppi etnici minori; e di fatti non ci volle molto perché questa previsione si mostrasse esatta: dappertutto le istanze locali, che spesso ferivano non tanto gli interessi del popolo serbo, quanto le sue emozioni, cominciavano a riemergere, suscitando l’impressione di un generale sfascio dell’ordine raggiunto dopo il 1945»[60].

Il pendolo della storia ora ricominciava a spostarsi dalla parte degli albanesi, in modo lento ma inesorabile, suscitando tra i serbo-cossovari un’iniziale sensazione di orgoglio ferito, seguita da apprensione, insicurezza e poi, nel corso degli anni, volontà di vendetta. Frattanto nel 1974 venne varata una nuova Costituzione federale in cui, fin dal primo articolo, era espresso chiaramente che la Jugoslavia era «uno Stato federale di popoli e repubbliche unite, insieme alle province autonome del Kosovo e della Vojvodina», ciascuna di esse dotate di una loro Costituzione, di un parlamento in grado di varare leggi e designare un governo, fatto che «dava alle province uno statuto virtualmente uguale a quello delle repubbliche»[61].

L’equilibrio torna a franare

Da questo momento in poi la situazione degenerò con relativa lentezza e sistematicità, in un crescendo di ulteriori rivendicazioni autonomistiche (già nel 1974 i patrioti albanesi del Kosovo chiedevano la trasformazione della provincia autonoma nella settima repubblica della federazione) e politico-culturali, mentre al contempo un nuovo elemento toglieva il sonno ai serbi che vivevano nella regione e a quanti, a Belgrado come nel resto della Serbia, continuavano a vedere nel Kosovo e nella Metohija una terra indissolubilmente legata alla storia della loro nazione: l’esplosione demografica della minoranza albanesi.

Le rivendicazioni autonomistiche andavano infatti di pari passo con un duplice fenomeno che caratterizzò la provincia in quegli anni: la depressione economica unita a una dinamica demografica eccezionalmente favorevole agli albanesi. In quest’ultimo caso si consideri che dal 1948 al 1981 l’incremento demografico medio annuo nella provincia autonoma fu del 25‰, a fronte del 3,8‰ nella Repubblica croata. Tipici della provincia erano inoltre, fin dagli anni ’40, il sovraffollamento rurale (ben 183 coltivatori per ettaro), che comportava l’esistenza di un’agricoltura poco modernizzata, mentre gli investimenti in altri settori furono incoraggiati solo dopo la svolta di Brioni, ritrovandosi comunque la produzione industriale locale ancora nettamente dominata dal settore minerario (circa il 62 per cento della produzione complessiva). Negli anni Ottanta, malgrado gli investimenti dello Stato centrale e una parziale modernizzazione anche nel settore agricolo, il reddito pro capite della provincia rimaneva il più basso della Jugoslavia: se nel 1956 lo scarto tra il Kosovo e la Slovenia (la Repubblica economicamente più dinamica) era di 1 a 4,6, nel 1981 aveva raggiunto il rapporto di 1 a 6. Al contempo il capoluogo amministrativo, Priština, era passato da 14 mila abitanti (1948) a 140 mila, mentre la disoccupazione, anche in ragione del poderoso incremento demografico, superava di tre volte la media nazionale[62].

La morte di Tito, nel maggio 1980, accelerò il disfacimento del fragile equilibrio che si era creato nella regione. Nella primavera 1981 diede inizio alle danze la rivolta degli albanesi in tutto il Cossovo, sorta di sfogo tardivo per il clima che si respirava dal 1913 (eccetto la parentesi della seconda guerra mondiale). La rivolta iniziò come protesta degli studenti dell’università di Priština, estendendosi poi a tutta la provincia autonoma con slogan dagli inequivocabili toni nazionalisti: «Il Kosovo ai kosovari», «siamo albanesi, non jugoslavi», «statuto di Repubblica per il Kosovo». Ma anche qualcos’altro in grado di urtare particolarmente la suscettibilità di un popolo che si sentiva accerchiato e minacciato: «voi fate fabbriche, noi facciamo bambini», fino al provocatorio «vi vinceremo con il cazzo»[63]. Il 28 marzo la riunione straordinaria a Priština della Lega dei comunisti jugoslavi dichiarò le proteste un tentativo di «destabilizzazione della Jugoslavia» da parte di «forze ostili», dando inizio alla repressione, inviandovi l’esercito e dichiarando il 2 aprile lo stato d’assedio. Vi furono arresti e processi conclusi con lunghe pene detentive, finendo nel maglio anche diversi dirigenti locali della Lega. Peraltro in tutta la regione non erano mancati feriti e morti tra manifestanti e forze dell’ordine[64].

Frattanto l’impatto degli scontri aveva convinto diversi serbi a lasciare la provincia che, anche in ragione del poderoso incremento demografico degli albanesi, vedeva la popolazione di origine serba diminuire costantemente, dal 27,5 per cento del totale nel 1961 al 14 per cento del 1981[65]. Il malessere e la frustrazione si diffondevano tra i serbi e il clima di vessazione a cui la sempre più esigua minoranza era sottoposta non aiutava a rasserenare il clima. Sia da esempio una testimonianza di quel periodo, riferita da un noto giornalista serbo che al tempo (1988) preferì conservare l’anonimato, raccontando la sua esperienza di serbo cresciuto in Kosovo:

«Il primo giorno di scuola i genitori dicono al bambino: se gli šiptari, come noi chiamiamo gli albanesi, ti chiedono una matita, dei soldi, il cappello, dà loro tutto. Comincia l’educazione alla passività. Ai tempi le classi erano etnicamente miste, enormi risse scoppiavano continuamente approfittando del calcio o della pallacanestro. In quanto serbo ricevevi sempre delle minacce, era come la pressione nell’atmosfera. Dai tredici ai diciassette anni andavi sempre in giro con una pistola. Una volta, ne avrò avuti quindici, ero al cinema con una ragazza. Quando si è spenta la luce ci siamo ritrovati coperti di sputi. Un attimo dopo tutto era tranquillo. Oggi di misto non è rimasto nulla. Anch’io, che sono grande e grosso e vivo a Belgrado, l’altra notte ho sognato di essere linciato»[66].

Tra i serbi, “popolo eletto” tra le nazioni della Jugoslavia, iniziava a farsi strada il sentimento vittimistico, riassunto in quel documento programmatico che fu il Memorandum dell’Accademia serba delle scienze e della arti (Sanu) pubblicato sul quotidiano Večernje novosti nel settembre 1986. Subito censurato del regime, circolò come foglio clandestino, sebbene fosse firmato da illustri accademici. Il documento, sorta di novello Načertanije redatto in quaranta pagine, sottolineanava l’esistenza in Jugoslavia di una «coalizione antiserba», colpevole di discriminare economicamente la più importante repubblica della federazione fin dalla sua fondazione, accusando tra l’altro la «guerra totale» condotta dagli albanesi del Kosovo contro la locale popolazione serba[67]. Gli accademici, a tal proposito, suggerivano di impedire a tutti i costi la fuga dei serbi dalla regione, ritenuto un obiettivo esistenziale che riguardava la nazione intera[68].

Nel 1987 Slobodan Milošević veniva eletto segretario della Lega dei comunisti jugoslavi e il vento cambiava ancora direzione, questa volta a vantaggio dei serbi. In un Kosovo dove la minoranza serba si attestava ormai appena al 10 per cento della popolazione, Milošević fece la sua prima apparizione nella regione partecipando ad un’assemblea in cui si discuteva come arginare l’espulsione dei serbi, dando forza a chi rimaneva, sostenendo tesi che erano emerse all’interno del Memorandum e, non ultimo, dando l’approvazione alla creazione di reti informali di autodifesa che doveva coinvolgere il partito, la polizia, l’esercito e la stessa popolazione serba[69]. Frattanto nello stesso anno il capoluogo della provincia autonoma fu militarizzato dalla polizia federale e il nuovo corso impose la “jugoslavizzazione” del Kosovo attraverso espulsioni eccellenti dalla Lega dei comunisti jugoslavi. Vi incappò persino Fadil Hoxha (nessuna parentela con il capo comunista albanese), noto capo partigiano albanese-cossovaro, rimasto per decenni il referente ufficiale di Tito nella provincia, il quale tuttavia si era reso colpevole di un discorso nel quale aveva offeso la reputazione delle donne serbe e montenegrine, invitando la popolazione albanese al commercio sessuale con loro[70].

Il clima si surriscaldava. Nuovi tumulti erano in arrivo e a fare da detonatore questa volta fu la rivolta dei minatori di Trepča, nel febbraio 1989, che proclamarono uno sciopero occupando gli uffici dell’impianto. Trepča, nota per essere una delle storiche località minerarie ai piedi del Kopaonik, nell’ormai ben noto distretto di Mitrovica, era anche uno dei siti minerari più importanti dell’Europa orientale per l’estrazione del nickel, del piombo e dell’argento. Le richieste degli scioperanti avevano come motivazione, una volta di più, ragioni etniche: pretendevano le dimissioni di tre funzionari provinciali imposti dal governo di Belgrado, malvisti dagli albanesi per la loro deferenza verso le istanze serbe[71]. Ai tremila minatori in sciopero si unirono studenti e lavoratori di Priština, coinvolgendo in totale circa 200.000 persone che scesero in strada a protestare. In risposta il parlamento della Repubblica serba a Belgrado si riunì il 23 marzo e a maggioranza assoluta votò la soppressione dell’autonomia della provincia del Kosovo[72].

Cronaca di una guerra annunciata

A questo punto la situazione iniziò a precipitare e a tappe forzate si giunse al conflitto che incendiò la regione nel 1998-1999. Le proteste contro la decisione di sopprimere l’autonomia provinciale furono represse con arresti di massa e processi che comminarono pesanti condanne detentive. Furono arrestati anche i minatori di Trepča che avevano orchestrato lo sciopero. Una volta ripristinato l’ordine e messo a tacere il dissenso, Milošević tornò da vincitore nella regione per celebrare il suo trionfo e insieme la commemorazione degli eroi morti sul campo di Kosovo Polje, nella data fatidica del 28 giugno 1989, sesto centenario della battaglia. La stampa serba riferì che al raduno fossero presenti un milione di serbi giunti da tutta la Federazione[73].

Il resto è una cronaca degli eventi che condussero la regione cossovara sull’orlo del baratro. Il 2 luglio 1990 fu sciolta l’Assemblea provinciale che pure aveva continuato a riunirsi. Furono quindi attuate nuove immissioni di serbi nel territorio cossovaro attraverso il licenziamento o allontanamento di professionisti e impiegati dello Stato di origine albanese (medici, infermieri, poliziotti, giornalisti e tecnici della radiotelevisione nazionale). I nuovi arrivati tuttavia non conoscevano l’albanese e, nel caso di medici e infermieri, non erano pertanto in grado di comprendere i pazienti, i quali come conseguenza iniziarono a disertare gli ospedali, contribuendo a diffondere epidemie non curate e a far calare il tasso di vaccinazione. Fu poi introdotta la segregazione degli studenti, per cui le scuole smisero, anche sulla carta, di essere miste e i corsi di studio furono separati: nelle ore mattutine per i serbi, in quelle pomeridiane per gli albanesi[74].

Intanto gli ex deputati dell’Assemblea provinciale proclamarono la Repubblica del Kosovo e un intellettuale e scrittore, fautore della non violenza e della resistenza passiva, Ibrahim Rugova, ne divenne nel maggio 1992 il primo presidente. Il periodo della resistenza passiva durò dal 1992 al 1998, mentre al contempo Milošević mobilitava ulteriormente polizia ed esercito, di fatto militarizzando l’intera regione, con il rischio che una scintilla potesse far scoppiare l’intera santabarbara, come poi effettivamente avvenne. Si creò anche una cosiddetta «società parallela», ovverosia un sistema di organizzazione sociale ed economica che sfidava le norme imposte da Belgrado e che col tempo creò una rete di scuole, qualche fabbrica, officine e negozi e persino un sistema fiscale più o meno volontario. La violenza crescente iniziò tuttavia a colpire non solo le forze militari e di polizia, ma progressivamente anche i civili serbi. Nel maggio 1996 avvenne il primo eccidio di sette persone e da parte del governo si accusò gli albanesi di terrorismo, rafforzando la repressione. Frattanto andava organizzandosi un esercito clandestino albanese-cossovaro, denominato UÇK (Ushtria Çlirimtare e Kosovës, Esercito di Liberazione della Kosova), che si riforniva di armi nella confinante Albania e che prese a colpire sistematicamente posti di polizia, caserme, installazione militari e uffici della pubblica amministrazione[75].

Malgrado i tentativi di Rugova di dialogare con i serbi per scongiurare un ulteriore aggravamento della crisi, la situazione sfuggì completamente di mano e a partire dal marzo 1998 in Cossovo iniziò la vera e propria condizione di guerra diffusa, con attentati sempre più violenti rivendicati dall’UÇK e conseguenti operazioni di eradicazione di nuclei insurrezionali in alcuni villaggi e aree rurali, terminati solitamente con eccidi di albanesi, uniti a omicidi mirati di esponenti del governo ombra della Repubblica della Kosova, come nel caso del “ministro” della difesa Ahmet Krasniqi. Frattanto anche la comunità internazionale iniziava ad interessarsi alla crisi cossovara con maggiore attenzione, formandosi un Gruppo di Contatto che riuniva Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti d’America, nella speranza di convincere Milošević a fermare le violenze e a ritrovare la via del dialogo, minacciando l’intervento diretto della comunità internazionale[76].

Le ben note capacità dilazionatorie del presidente serbo garantirono al governo di Belgrado ancora un anno di politica repressiva, poi, dopo il fallito incontro di Rambouillet (febbraio 1999) tra la dirigenza serba e le forze politiche albanesi del Cossovo, la NATO segnalò la presenza di massicci movimenti di truppe serbe dirette nella regione. Dopo ulteriori pressioni sul governo di Belgrado, a fronte del fallimento della diplomazia, la sera del 23 marzo 1999 si diede inizio alle operazioni aeree sulla Repubblica Federale di Jugoslavia (ormai la sola Serbia e il Montenegro). Le operazioni durarono fino al 9 giugno 1999 e il 12 giugno iniziarono ad affluire in Cossovo le truppe internazionali della “forza d’intervento” denominata KFOR (Kosovo Force)[77]. Da quel momento la situazione ha iniziato lentamente ma costantemente a raffreddarsi, sebbene la conduzione delle operazioni sul terreno da parte delle forze dell’UÇK abbia lasciato in eredità uno strascico di accuse circostanziate su eccessi di violenza e vere e proprie operazioni di pulizia etnica compiute a danno di serbi, zingari (ritenuti a torto o a ragione dalla parte dei serbi) e albanesi di orientamento moderato, accusati di collaborazionismo, oltre a centinaia di sparizioni connesse al traffico di organi, che avrebbero coinvolto i vertici stessi dell’UÇK, confluiti poi nel Partito Democratico della Kosova, forza di governo il cui noto esponente Hashim Thaçi, detto Gjarpëri (Serpente), primo ministro (2008-2014) e poi presidente (2016-2020) della Kosova, è tutt’ora una figura molto controversa ma anche molto influente e di fatto intoccabile[78].

Cossovo indipendente: sfide e problemi

Dal 1999 è iniziato anche il processo di democratizzazione delle strutture di governo della Kosova che ha portato a coronare il sogno di autodeterminazione della popolazione albanese della regione, raggiunto con la proclamazione unilaterale di indipendenza dalla Serbia il 17 febbraio 2008, riconosciuta anche dall’Italia (21 febbraio), ma non ancora – per citare i soli Paesi membri dell’Unione Europea – da Cipro, Grecia, Romania, Slovacchia e Spagna. Naturalmente la Serbia non ha mai riconosciuto lo status indipendente del Kosovo e con essa neppure la Russia, che della Serbia rappresenta una sorta di nazione tutelare. Fino al 2008 vi ha operato ufficialmente una “Missione amministrativa transitoria delle Nazioni Unite in Kosovo” (UNMIK, United Nations Interim Administration Mission in Kosovo), secondo la risoluzione 1244 adottata dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU il 9 giugno 1999, che ha permesso nell’immediato a circa 700.000 albanesi-cossovari di fare ritorno nelle loro case, dopo essere stati accolti come profughi nei Paesi confinanti, soprattutto in Albania. Il 21 settembre 1999 l’Esercito di Liberazione della Kosova (UÇK) è stato costretto a sciogliersi, ma lo ha fatto cambiando nome (Corpo di Protezione della Kosova, TMK) e conservando strutture e armi[79]. I maliziosi possono poi prendere in considerazione, per giustificare un così massiccio e deciso intervento della NATO nella regione, il fatto che a sud della capitale Prishtina sorga oggi la più grande base militare statunitense dei Balcani, Camp Bondsteel, ufficialmente quartier generale della KFOR, negli anni finita al centro di alcune controversie in merito al supposto uso della base come struttura di detenzione da parte delle forze armate americane per prigionieri sospettati di terrorismo islamista[80].

Frattanto la questione legata alle tensioni etniche si è normalizzata. A tutto vantaggio degli albanesi e a totale svantaggio dei serbi, salvo per il fatto che la tutela internazionale e la vigilanza della KFOR, unite all’ordinamento liberaldemocratico dello Stato, impresso dapprima dalle “Istituzioni Provvisorie di Autogoverno” (Institucionet e Përkohshme të Vetëqeverisjes në Kosovë), operanti dal 2002 fino all’indipendenza, poi sostituite dal governo della Repubblica della Kosova, hanno fornito alle minoranze slave presenti sul territorio kosovaro quei diritti e garanzie che né il regime di Milošević, né la Jugoslavia federale prima e men che meno il Regno jugoslavo del periodo interbellico avevano garantito ai cossovari di etnia albanese. In questo senso il passo avanti è stato notevole. È indubbio tuttavia che, in merito alla lunga vicenda storica narrata, apparentemente e salvo colpi di scena che la storia talvolta è in grado di apparecchiare, la partita per il possesso della regione sembra essere stata vinta definitivamente dagli albanesi, ovvero da coloro che si ritengono (con qualche buona ragione) i discendenti di quelle popolazioni dardaniche che la abitavano da tempo immemore. I serbi, che pur avevano fatto del Cossovo il baricentro del loro glorioso Stato medievale, hanno perso invece su tutta la linea.

Ha giocato a loro sfavore senz’altro la demografia avversa, ma anche un certo atteggiamento di superiorità etnica e di disprezzo, di cui pur conosciamo le origini e che siamo anche disposti a comprendere, ma che pur non giustificano l’atteggiamento di sopraffazione con il quale quel popolo ha trattato la popolazione albanese della regione da quando fu annessa alla Serbia. Si può senz’altro ritenere che, da parte degli albanesi, le feroci violenze degli anni 1941-45 e le intimidazioni degli anni 1967-1987 ai danni dei serbi fossero sproporzionate e controproducenti (gli eventi successivi al secondo conflitto mondiale mostrano senz’altro come la feroce pulizia etnica attuata dagli albanesi della Grande Albania non giovò alla loro causa), ma è anche vero che difficilmente si sarebbe potuto attribuire agli albanesi di aver perseguito fin dall’inizio una politica di annientamento culturale ai danni dei serbi. Furono invece questi ultimi a praticarla ai danni degli albanesi fin dall’annessione del Cossovo, nel 1913, vedendo le popolazioni native come meri “accidenti di secondaria importanza”, comparse da assimilare al più presto, con le buone o con le cattive. Il risultato, a distanza di meno di un secolo, è stata la fine dell’ambizione dei serbi di governare la loro regione storica simbolicamente più importante.

Il mancato riconoscimento dell’indipendenza e la questione di Mitrovicë (Mitrovica)

La questione tuttavia non sembra essersi del tutto chiusa. Se da una parte, infatti, è vero che il Cossovo indipendente è ormai un dato di fatto acquisito, è anche vero che ancora nel 2023 metà degli Stati del mondo non lo hanno riconosciuto e forse non lo faranno mai. Tra questi, oltre alla Repubblica Popolare Cinese, alla Russia e all’India, ci sono anche diverse potenze regionali di una certa rilevanza, come l’Indonesia, l’Iran, l’Algeria, il Sudafrica, il Brasile, l’Argentina, il Messico. Di fatti la prova di forza della NATO nell’ex regione serba può essere letta ad oggi come un’operazione promossa dagli “occidentali” per esibire il loro ruolo (al seguito degli Stati Uniti d’America) di gendarmi del mondo, al fine di far valere quelle regole del diritto internazionale che sono spesso messe in discussione da regimi autoritari, democrature e governi non più disposti a riconoscere all’Occidente alcuna supremazia morale o moralizzatrice. Tale punto di vista ha reso ancor più complesso il riconoscimento di un piccolo Stato indipendente che, se per alcuni è il giusto risarcimento per un popolo che ha molto sofferto, per altri non è stato che un pretesto della superpotenza dominante dell’epoca (e dei suoi alleati) per intervenire in un’area dove un singolo Paese riottoso sfuggiva alle regole imposte da questa. Paese che, una volta che fosse stato umiliato e smembrato, avrebbe fatto da esempio, a dimostrazione peraltro che non sarebbe bastato l’appoggio morale di un’ex superpotenza sconfitta e a sua volta smembrata (leggasi: Russia) per scongiurare la giusta punizione del reprobo. Partendo da un tale punto di vista riesce difficile immaginare che la questione si risolva spontaneamente, a parte per qualche sporadico riconoscimento tardivo.

La questione potrebbe semmai risolversi se uno dei due schieramenti, rispettivamente l’Occidente oppure il resto del mondo che ne contesta apertamente la supremazia o quanto meno la critica, prevalesse nelle future contese (economiche o politico-culturali e con eventuale corollario bellico) che attendono l’umanità nel corso di questa lunga fase di transizione da un equilibrio mondiale a un altro. Possiamo immaginare che se dovesse prevalere l’Occidente non tarderebbero ad arrivare anche gli ultimi riconoscimenti da parte della metà del mondo che manca all’appello, mentre se dovessero prevalere quei nemici dell’Occidente che tutti conosciamo la giostra potrebbe rimettersi in moto e ciò che oggi è dato per scontato un domani potrebbe non esserlo più, con la logica conclusione che un Cossovo ritornato ad essere parte della Serbia potrebbe non essere un’ipotesi del tutto irrealizzabile. Naturalmente tutto ciò significherebbe l’essere testimoni di un cataclisma geopolitico di portata mondiale che frantumerebbe gli equilibri attualmente esistenti. E questo, da occidentali, non dobbiamo augurarcelo.

Il problema del Cossovo tuttavia si pone già adesso per alcune questioni che ci interrogano in merito alla futura stabilità di questo piccolo Stato indipendente. Uno Stato tecnicamente non nazionale, visto che, da un punto di vista strettamente etnico-linguistico, sarebbe più corretto figurarselo come una regione dell’Albania, e che proprio per questa ragione ha assunto agli occhi di alcuni governi il simbolo di una certa tendenza occidentale a promuovere o a non ostacolare le secessioni. Sappiamo bene, alla luce della storia, che la questione cossovara è diversa e più complessa, ma per Paesi alle prese con fragili identità nazionali, movimenti secessionisti o territori indipendenti de facto anche se non riconosciuti (si potrebbe pensare a Taiwan), il caso del Cossovo potrebbe essere un pericoloso precedente. D’altra parte persino la Spagna, di fronte al costante timore di una dichiarazione di indipendenza della Catalogna o del Paese Basco, ha preferito non riconoscere il piccolo Stato balcanico. La questione si connette anche alla futura possibile inclusione dei rimanenti Stati balcanici all’Unione Europea: per entravi la Serbia dovrà normalizzare le relazioni con la Kosova, forse anche riconoscerla, ma la Kosova potrà entrare a far parte di un’Unione in cui cinque Stati membri non la riconoscono?

Futura stabilità, si diceva. A tal proposito questo articolo nasce essenzialmente alla luce degli ultimi scontri interetnici (26-29 maggio 2023) che sono avvenuti nel distretto di Mitrovicë (Mitrovica), un’area molto particolare del neo Stato cossovaro perché l’unica (assieme a poche altre enclavi) rimasta con un consistente nucleo di serbi tuttora residenti e che vedono sé stessi come resistenti ad oltranza, sorta di baluardo umano prima del processo di totale “albanizzazione” della Vecchia Serbia[81]. La difficile, se non impossibile, convivenza etnica nel distretto, ha visto come tappa fondamentale – dopo costanti scontri tra le due etnie nei pressi del ponte sul fiume Ibar, che attraversa Mitrovicë – la partizione della municipalità di Mitrovicë, nel 2013, sulla base degli accordi di Bruxelles[82]. Le due municipalità di Mitrovicë Nord e Mitrovicë Sud, separate dal corso del fiume Ibar, sono ora “etnicamente pure”, la prima abitata quasi esclusivamente da serbi (circa 12.000), la seconda quasi esclusivamente da albanesi (circa 70.000).

A circa nove chilometri a nord-est della città sorge poi la ben nota e strategica miniera di Trepça (Trepča), i cui impianti per la lavorazione del minerale, per ora semiabbandonati, sono distribuiti tra le municipalità di Mitrovicë Sud e di Zveçan (Zvečan), anch’essa ben nota per gli scontri che hanno coinvolto gli Alpini dell’Esercito Italiano inquadrati nella KFOR, scontri suscitati dalla prova di forza del governo cossovaro nell’imporre che il 23 aprile di quest’anno si tenessero le elezioni locali anche nelle municipalità serbe, sulla base del paragrafo 12 degli accordi di Bruxelles sottoscritti dieci anni prima, sfidando le minacce di boicottaggio giunte dai serbi del distretto. Zveçan è infatti una municipalità a schiacciante maggioranza serba (95 per cento)[83], così come tutte le municipalità strette alle falde del Kopaonik e lungo il corso superiore dell’Ibar che da lì in poi, superato il nuovo confine di Stato (ricalcato sui confini della vecchia provincia autonoma jugoslava), scorre verso il cuore della Serbia.

Ecco perché quest’area è così importante per i serbi, essendo di fatto un corridoio che congiunge le regioni centrali dell’odierno Stato serbo agli altipiani del Cossovo. Rimanervi, attaccati come le ostriche allo scoglio, significa mantenere in vita una connessione, concreta anche da un punto di vista geomorfologico, ma soprattutto militarmente strategica, con il resto della regione che la comunità serbo-cossovara spera un giorno di poter ricongiungere alla “madrepatria”. Questo territorio per certi versi potrebbe essere visto come una specie di piccola e informale Repubblica di Doneck o di Lugansk, riconosciuto da metà del mondo come parte della Repubblica della Kosova, ma non dall’altra metà del mondo, compreso il governo di Belgrado. Men che meno dalla popolazione che vi abita, che insiste a viverci con la ferma convinzione di trovarsi ancora in Serbia. La cosiddetta “guerra della targhe automobilistiche”[84] offre un esempio di come la minoranza serbo-cossovara che abita nella metà settentrionale del distretto di Mitrovicë non accetti nemmeno lontanamente l’idea di essere entrata a far parte di un altro Stato.

La mediazione tentata dagli Stati Uniti d’America durante la presidenza di Donald Trump non è riuscita ad andare oltre la firma a Washington di un modesto accordo tra Serbia e Kosova per la normalizzazione delle relazioni economiche, che includeva anche il riconoscimento reciproco tra Kosova e Israele, unico vero successo del trattato firmato nel settembre 2020[85]. Tuttavia, proprio in merito alla questione delle aree popolate da serbi nel distretto di Mitrovicë e contigue al territorio della Repubblica Serba, si parlò due anni prima, nel contesto di una conferenza tenuta in nel villaggio austriaco di Alpbach – dove si confrontarono i presidenti delle due Repubbliche, Aleksandar Vučić per la Serbia e, ancora una volta, il “Serpente” Hashim Thaçi per la Kosova – anche di un possibile scambio di territori tra Serbia e Kosova, ma alla fine non se ne face nulla, soprattutto per l’opposizione dell’opinione pubblica di entrambe le comunità etniche[86].

Tutto questo fa pensare che la soluzione non sia a portata di mano e che nuovi scontri tra le due etnie possano scoppiare in qualsiasi momento e per qualsiasi pretesto. L’area di Mitrovicë naturalmente sarebbe lo scenario ideale perché, come si è visto, rappresenta l’ultima ferita aperta di una questione cossovara che nel complesso si è risolta in una modalità che appare definitiva, vista la schiacciante maggioranza albanese che vive ormai in uno Stato indipendente da essi stessi voluto. Il problema semmai riguarda i rischi che può comportare la presenza di combattive minoranze serbe le cui rivendicazioni sono state costantemente supportate dal governo della madrepatria, a sua volta spalleggiata da altri attori internazionali di ben maggiore potenza e capacità militare. Ogni riferimento implicito alla Russia di Vladimir Putin non è casuale.

Il Cossovo oggi: similitudini e differenze con l’Ucraina e rischi connessi

Alla luce di tutti questi fatti cosa rende quello del Kosovo un caso simile a quello ucraino? Vi sono sono senz’altro alcune similitudini, ma anche alcune differenze che si possono riassumere per punti:

• Come per l’Ucraina si è in presenza di una regione storica considerata la culla di una nazione e di una civiltà differenti da quelle della maggioranza della popolazione che la abita attualmente, in ragione di un processo di secolare traslazione dello Stato. Inoltre, come per l’Ucraina, si è al cospetto di uno Stato indipendente non riconosciuto da un grande vicino ostile.

Ciò comporta, da parte della nazione che ne rivendica la sovranità (in questo caso la Serbia), il riferimento costante, sia a livello di linguaggio politico che di comunicazione pubblica, a ipotetici diritti inalienabili giustificati dalla storia in un arco di tempo che va dal medioevo all’età contemporanea, partendo dall’epica della prima dinastia serba, fino al mito del sangue versato per difendere la nazione da – in ordine cronologico – turchi-ottomani e loro soci fidati, vicini balcanici con grandi appetiti, invasori nazi-fascisti e loro manutengoli balcanici, Stati Uniti d’America e loro alleati occidentali. La Russia fa lo stesso in Ucraina: i diritti storici inalienabili promanano dalla rus’ di Kiev e, attraverso l’Impero degli zar e l’Unione Sovietica, giungono fino a noi. Il sangue versato è primariamente quello della cosiddetta “grande guerra patriottica” (1941-1945), ma non manca l’appello al sangue versato in difesa dell’Ucraina, attuata dalla Russia e poi dall’Unione Sovietica, contro turchi-ottomani, vicini con grandi appetiti (la Polonia innanzi tutto), invasori nazi-fascisti e loro collaborazionisti locali, da ultimo gli Stati Uniti d’America e i loro debosciati alleati occidentali. La situazione è quasi una copia conforme, soltanto in formato minore.

• Tuttavia, al contrario dell’Ucraina, dove il problema dell’identità nazionale in contrapposizione all’asserita identità russa della sua popolazione è complicato da linee di demarcazione etniche, lingustiche e culturali estremamente sfumate, tanto da far apparire l’identità ucraina difficilmente circoscrivibile sulla base di dati storici e culturali, nel caso del Cossovo invece queste linee di demarcazione sono nette e inequivocabili. I due popoli che per secoli si sono contesi il possesso della regione hanno origini diverse, storie diverse, lingue diverse (appartenenti a famiglie linguistiche diverse) e culture che, pur avendo acquisito elementi comuni durante la plurisecolare dominazione ottomana, hanno comunque mantenuto caratteristiche diverse.

• Come per l’Ucraina il vittimismo della nazione allontanata ingiustamente dalla sua storica sede potrebbe all’occorrenza attingere al serbatoio della violenza scatenata durante la seconda guerra mondiale e, in questo caso, da parte serba potrebbe riaffiorare il ricordo delle angherie, degli eccidi e dei massacri compiuti dagli albanesi alleati dei fascisti italiani e dei nazisti tedeschi. L’equivalenza “governanti ucraini = nazisti” coniata da Putin potrebbe trovare una formula quasi speculare nell’equivalenza “governanti cossovaro-albanesi = fascisti”. D’altra parte quando nel 1991-1995 infuriò la guerra tra la Serbia (ufficialmente ancora Jugoslavia) di Milošević e la secessionista Croazia guidata da Franjo Tudjman, conflitto che presto si allargò alla Bosnia-Erzegovina, era comune da parte serba bollare i croati e i loro alleati in Bosnia come “ustascia”. I ricordi delle terribili violenze avvenute durante il secondo conflitto mondiale erano allora senz’altro più freschi, ma andrebbe considerato che nel caso dell’Ucraina quegli stessi ricordi, pur a distanza di quasi ottant’anni, continuano ad essere spendibili politicamente. Evidentemente non tutti hanno dimenticato.

• Come per l’Ucraina la questione cossovara in Serbia ha assunto l’aspetto talvolta di una contrapposizione (finora soltanto politico-diplomatica e comunicativa) tra, da una parte, un’Occidente che si fa forza del diritto internazionale e del principio di autodeterminazione dei popoli per imporre le sue regole e, dall’altra, uno schiermento di nazioni critiche di quegli stessi principi, ritenuti il grimaldello dell’Occidente sedicente liberaldemocratico, di ispirazione anglosassone e a trazione nordamericana, per imporre al resto del mondo i suoi modelli istituzionali, la sua cultura e il suo stile di vita, peraltro decadente.

• A differenza dell’Ucraina la piccola Serbia (77.500 chilometri quadrati, all’incirca un quarto dell’Italia, per 6,6 milioni di abitanti), come si diceva, non ha la forza militare, né le risorse per poter tentare un colpo di mano in Cossovo, tanto più finché nella regione opererà la KFOR ed esisterà la grande base statunitense di Camp Bondsteel. Se anche lo volesse, la Serbia da sola non potrebbe assumersi l’impegno di agire quasi impunemente come la Russia in Ucraina, che può contare sull’effetto deterrente nucleare e sul rischio che il conflitto si allarghi al mondo intero.

Tuttavia la Serbia potrebbe essere sollecitata o supportata dalla Russia ad agire in Cossovo con più decisione se, da parte di Mosca, si ravvisassero margini di manovra nei Balcani superiori agli attuali. Sarà cruciale osservare, ad esempio, cosa potrà accadere in Bulgaria nei prossimi mesi o anni: un Paese alle prese con una grave crisi di governo (effetto di in un parlamento che non riesce ad esprimere una maggioranza stabile fin dal mese di aprile del 2021, dopo ben 5 elezioni parlamentari, e la cui classe politica ha subito un altrettanto grave crisi di legittimazione in seguito a proteste e scioperi contro la corruzione) nel quale sta montando a vista d’occhio il sostegno elettorale al partito Vazraždane (Rinascita) guidato da Kostadin Kostadinov, nazionalista radicale e dichiaratamente filo-putiniano, la cui formazione politica alle elezioni del 2 aprile 2023 ha ottenuto il 13,6 per cento dei suffragi (terzo partito più votato), partendo dal 4,8 per cento alle elezioni del 14 novembre 2021. I nazionalisti bulgari rivendicano tradizionalmente la sovranità sulla Macedonia del Nord e hanno dei conti in sospeso con gli albanesi che vi abitano. Esattamente come ce l’hanno i serbi nei confronti degli albanesi del Cossovo. Bulgaria e Serbia potrebbero diventare alleati naturali e nel segno dell’alleanza con la Russia.

Per concludere, qualcuno in passato ha definito i Balcani la polveriera d’Europa. Altri tempi, forse, ma è pur vero che questa penisola che, secondo una definizione attribuita a Winston Churchill, produrrebbe più storia di quanta ne possa consumare, potrebbe avere una volta di più le carte in regola per riportare in vita il demone della guerra molto vicino a noi, ben più vicino di quello attualmente in azione nelle pianure ucraine. E con un dettaglio non trascurabile: sarebbe bene infatti ricordare che soldati italiani operano sul territorio cossovaro, inquadrati nella KFOR, in ragione di 852 effettivi[87]. Non molti al momento, ma se la situazione in Cossovo dovesse degenerare l’Italia si ritroverebbe nelle condizioni di dover intervenire direttamente sul campo, non potendosi sottrarre dal compito di garantire la stabilità della regione, così come da impegno assunto nell’ormai lontano 1999. Pena la perdita di credibilità e di reputazione, nonché la condanna sine die all’irrilevanza internazionale. Potremo quindi dirci fortunati se dal Cossovo ne usciremo un giorno solo con 11 alpini lievemente contusi? Molto probabilmente sì.


[1] Cossovo, secondo l’ormai desueto esonimo in lingua italiana. Esso viene più spesso usato in questo scritto per la valenza neutra che assume in contrapposizione ai due endonimi nelle lingue albanese e serba.

[2] Vittorio Viale, Dardani, in Enciclopedia italiana, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1931.

[3] Nel testo i toponimi sono resi nella versione ufficiale e corrente in lingua albanese, affiancati tra parentesi dalla versione in lingua serba. Avviene l’inverso se ci si riferisce al periodo 1913-1999, quando la regione appartenne alla Serbia e alla Jugoslavia.

[4] Francisco Villar, Los indoeuropeos y los orígenes de Europa. Lenguaje e historia, Madrid, Gredos, 1991; trad. italiana, Gli indoeuropei e le origini dell’Europa, Bologna, Il Mulino, 1997, 688 p. [citazione alle pp.373-374]

[5] Georges Castellan, Histoire de l’Albanie et des Albanais, Crozon, Éditions Armeline, 2002; trad. italiana, Storia dell’Albania e degli Albanesi, Lecce, Argo, 2012, 224 p. [citazione alla p.16]

[6] Per una sommaria ricostruzione dell’impatto delle invasioni degli Àvaro-Slavi sull’Impero bizantino: Georg Ostrogorsky, Geschichte des Byzantinischen Staates, Monaco, C.H.Beck, 1963; trad. italiana, Storia dell’Impero Bizantino, Torino, Einaudi, 570 p. [citazione alle pp.70-71, 85-86]

[7] Georg Ostrogorsky, Storia dell’Impero Bizantino, op.cit., p.173.

[8] Mihailo Dinić, I Balcani (1018-1499), in The Cambridge Medieval History, vol.IV The Byzantine Empire, Cambridge, Cambridge University Press, 1966; trad. italiana Storia del Mondo Medievale, vol.IV La riforma della Chiesa e la lotta fra papi e imperatori, Milano, Garzanti, 1979, pp.596-643 [citazione alle pp. 597-598]

[9] Mihailo Dinić, I Balcani (1018-1499), op.cit, pp.609-610.

[10] Jože Pirjevec, Serbi, croati, sloveni. Storia di tre nazioni, Bologna, Il Mulino, 228 p. [citazione alla p. 15.]

[11] Mihailo Dinić, I Balcani (1018-1499), op.cit, p.612.

[12] Croazia, Slovenia, Bosnia-Erzegovina, Serbia e Montenegro, Albania, Macedonia, Milano, Touring Club Italiano, 2006, 752 p. [citazione alle pp.499-500]

Un elenco esemplificativo dei monasteri ed edifici ecclesiali serbi nel Cossovo di maggiore interesse artistico e architettonico, dovrebbe includere, oltre al già citato monastero di Dečani, anche il monastero Patrijaršija (Patriarcato) di Peć, il monastero di Gračanica, non distante da Prishtina, e la chiesa di Sveta Bogorodica Lieviška, a Prizren, tutti edifici costruiti tra il XIII e il XIV secolo su iniziativa dei Nemanjići.

La presenza di simili monumenti e opere artistiche riconducibili all’età aurea del primo Regno serbo è stato oggetto di tentativi, qualche volta sfortunatamente riusciti, di cancellarne la memoria da parte di alcune frange violente di nazionalisti cossovari-albanesi. Nel caso del monastero di Dečani si deve segnalare che, a partire dal giugno 1999, con il ritiro dei militari serbi dalla regione e l’arrivo della forza internazionale KFOR sotto l’egida della NATO, un’unità italiana fu distaccata sul posto per garantirne la sicurezza, subendo qualche sporadico attacco da parte di fanatici nazionalisti. Nel marzo 2004 le forze della KFOR hanno difeso il monastero di Dečani dal lancio di bottiglie molotov operato da manifestanti albanesi, mentre il 30 marzo 2007 ignoti cossovaro-albanesi hanno lanciato delle granate contro l’edificio, causando fortunatamente solo lievi danni. https://en.wikipedia.org/wiki/Visoki_De%C4%8Dani

[13] Mihailo Dinić, I Balcani (1018-1499), op.cit, p.616

[14] Mihailo Dinić, op.cit., pp.616-618.

[15] Georges Castellan, Storia dell’Albania e degli Albanesi, op.cit. pp.27-29.

[16] Un giudizio encomiastico sull’opera di Bogdani è stato formulato nella prima metà del Novecento dal valente scrittore e traduttore albanese Ernest Koliqi (1903-1975); cfr. «Lingua e Letteratura» in Albania, Milano, Consociazione Turistica Italiana, 1939, 222 p. [citazione alle pp.89-90]

[17] Jože Pirjevec, Serbi, croati, sloveni, op.cit., p. 17.

[18] Ibidem

[19] Nicolas Vatin, L’ascesa degli ottomani, in Historie de l’empire ottoman (sous la direction de Robert Mantran), Parigi, Librairie Arthème Fayard, 1989; trad. italiana, Storia dell’Impero Ottomano, Lecce, Argo, 1999, 880 p. [citazione alla p. 84]

[20] Nicolas Vatin, L’ascesa degli ottomani, op.cit, pp.87,109

[21] Georges Castellan, Storia dell’Albania e degli Albanesi, op.cit., p.35

[22] Ivi, p.175

[23] https://www.cia.gov/the-world-factbook/countries/kosovo/

[24] Nicoară Beldiceanu, L’organizzazione dell’impero ottomano, in Storia dell’Impero Ottomano, op.cit, pp.153-154.

[25] Georges Castellan, Storia dell’Albania e degli Albanesi, op.cit., p.37

[26] Jože Pirjevec, Serbi, croati, sloveni, op.cit., p. 19

[27] Roberto Morozzo della Rocca, Albania. Le radici della crisi, Milano, Guerini e Associati, 1997, 157 p. [citazione alle pp.47-48]

[28] Jože Pirjevec, Serbi, croati, sloveni, op.cit.,p.22

[29] Ivi, p.26

[30] Gilles Veinstein, Le province balcaniche (1606-1774), in Storia dell’Impero ottomano, op.cit., p.353

[31] Ibidem.

[32] Ibidem.

[33] Jože Pirjevec, Serbi, croati, sloveni, op.cit., p.28

[34] Robert Mantran, “Lo Stato ottomano nel XVII secolo: stabilizzazione o declino?”, in Storia dell’Impero ottomano, op.cit., pp.267-273.

[35] Robert Mantran, Gli esordi della Questione d’Oriente (1774-1839), in Storia dell’Impero ottomano, op.cit., p.481.

[36] Jože Pirjevec, Serbi, croati, sloveni, op.cit., p.35

[37] Ivi, pp.41-42

[38] Georges Castellan, Storia dell’Albania e degli Albanesi, op.cit., p.48

[39] Ivi, pp.49-50

[40] Ivi, pp.52-54.

[41] Jože Pirjevec, Serbi, croati, sloveni, op.cit., p.46.

[42] Georges Castellan, Storia dell’Albania e degli Albanesi, op.cit., p.113

[43] Ivi, p.114

[44] L’opera (in serbo Gorski vijenac) apparve per la prima volta tradotta in italiano dallo spalatino Giacomo Chiudina (Jakov Ćudina), che lo incluse nella raccolta di Canti del popolo slavo (1878), lodata da Niccolò Tommaseo. Cfr. Giacomo Chiudina, Canti del popolo slavo, tradotti in versi italiani con illustrazioni sulla letteratura e sui costumi slavi, Firenze, M.Cellini e C., 1878, 280 p. 

[45] Georges Castellan, Storia dell’Albania e degli Albanesi, op.cit., pp.59-60

[46] Ivi, p.91

[47] Bernd Jürgen Fischer, Albania at War 1939-1945, West Lafayette, Purdue University Press, 1999; trad. italiana, L’Anschluss italiano. La guerra in Albania (1939-1945), Nardò, Besa, 2007, 420 p. [citazioni alle pp.115-117]

[48] Ivi, pp.117-119. Il ministero degli interni serbo nel 1989, dichiarava sulla stampa una cifra molto inferiore (circa 15.000 serbi costretti a lasciare il Cossovo); cfr. Georges Castellan, Storia dell’Albania e degli Albanesi, op.cit., p.116

[49] Bernd J. Fischer, L’Anschluss italiano, op.cit. pp.202-207.

[50] Ivi, pp.222-230.

[51] Ivi, p.234

[52] Ivi, pp.296-297.

[53] Georges Castellan, Storia dell’Albania e degli Albanesi, op.cit., p.117; la Conferenza di Jaice, cittadina medievale nel cuore della Bosnia, è di importanza capitale per la storia della Jugoslavia del secondo dopoguerra perché vi fu riunito il Consiglio Antifascista di Liberazione Popolare della Jugoslavia (AVNOJ, secondo l’acronimo serbo-croato), che gettò le basi organizzative del futuro Stato federale jugoslavo, articolato in Repubbliche autonome capaci, secondo la visione di Tito, di recidere i dissidi e gli odi interetnici che avevano caratterizzato la monarchia jugoslava nel periodo interbellico. Cfr. Jože Pirjevec, Serbi, croati, sloveni, op.cit., p.61

[54] Georges Castellan, Storia dell’Albania e degli Albanesi, op.cit., pp.117-118

[55] Bernd J. Fischer, L’Anschluss italiano, op.cit. pp.298-299

[56] Georges Castellan, Storia dell’Albania e degli Albanesi, op.cit., p.118; Bernd J. Fischer, L’Anschluss italiano, op.cit. p.299 

[57] Jože Pirjevec, Serbi, croati, sloveni, op.cit., p.62-65

[58] Georges Castellan, Storia dell’Albania e degli Albanesi, op.cit., p.119

[59] Ibidem.

[60] Jože Pirjevec, Serbi, croati, sloveni, op.cit., p.66

[61] Georges Castellan, Storia dell’Albania e degli Albanesi, op.cit., pp.119-120

[62] Ivi, p.121

[63] Nicole Janigro, L’esplosione delle nazioni. Le guerre balcaniche di fine secolo, Milano, Feltrinelli, 1999, 216 p. [citazione a p.84]

[64] Georges Castellan, Storia dell’Albania e degli Albanesi, op.cit., pp.139-141.

[65] Ivi, p.141

[66] Nicole Janigro, L’esplosione delle nazioni, op.cit. p.167

[67] Ivi, pp.83-84

[68] Georges Castellan, Storia dell’Albania e degli Albanesi, op.cit., p.142

[69] Ibidem

[70] Nicole Janigro, L’esplosione delle nazioni, op.cit., p.168

[71] Miranda Vickers, James Pettifer, Albania: from Anarchy to a Balkan Identity, New York, New York University Press, 1997; trad. italiana, Albania. Dall’anarchia a un’identità balcanica, Trieste, Asterios, 1997, 392 p. [citazione a p.200]

[72] Georges Castellan, Storia dell’Albania e degli Albanesi, op.cit., p.143

[73] Ibidem.

[74] Ivi, pp.144-146.

[75] Ivi, pp.147-148

[76] Ivi, p.149

[77] Ivi, pp.153-157

[78] Sulla vicenda si legga, ad esempio, il capitolo «Kosovo: dal 1999 al 2007» in: Carla Del Ponte, La Caccia. Io e i criminali di guerra, Milano, Feltrinelli, 2008, 416 p. [il capitolo è alle pp.286-317]

[79] Georges Castellan, Storia dell’Albania e degli Albanesi, op.cit., pp.157-158

[80] Camp Bondsteel sarebbe in grado di ospitare fino a 7000 militari statunitensi ed è esteso su 955 acri (386 ettari).

[81] Il distretto di Mitrovicë (Mitrovica), secondo le statistiche, ha una superficie di 2.077 chilometri quadrati (l’equivalente della provincia di Ascoli Piceno) e una popolazione censita al 2011 di 272 mila abitanti, di cui circa 70 mila serbi (25 per cento); cfr. http://pop-stat.mashke.org/kosovo-census-ks.htm

[82] L’accordo raggiunto tra i primi ministri di Serbia e Kosova, Ivica Dačić e Hashim Thaçi, mediato dall’Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la sicurezza, Catherine Ashton, ha stabilito un modus vivendi fra le due comunità sulle basi della creazione di un’Associazione delle Municipalità Serbe (Zajednica srpskih opština) della Kosova (paragrafi 1-6), delle più specifiche funzioni demandate al corpo unificato della Polizia della Kosova (paragrafi 7-9) e della nuova legge kosovara sulle elezioni municipali, l’unica riconosciuta nel territorio dello Stato per eleggere i sindaci e i consigli municipali (paragrafo 12), quest’ultima di fatto boicottata dai serbi del distretto di Mitrovicë (Mitrovica) nell’aprile 2023, contravvenendo così agli accordi sottoscritti. Cfr. https://www.srbija.gov.rs/cinjenice/en/120394

Si veda inoltre l’analisi promossa dalla Friedrich-Ebert-Stiftung (Bonn): Shpetim Gashi, Igor Novaković, Brussels Agreements Between Kosovo and Serbia. A Quantitative Implementation Assessment (2020), https://library.fes.de/pdf-files/bueros/belgrad/17009.pdf.

[83] Sulle colline alle falde del Kopanonik, nella municipalità di Zveçan, sorge anche la kulla di Isa Boletini. La kulla, tradizionale casa fortificata in pietra di ascendenza ottomana e tipica delle regioni settentrionali dell’Albania, era l’abitazione del patriota albanese Isa Boletini (1864-1916), fervente nazionalista e combattente alla guida di bande armate nelle regioni cossovara, montenegrina e macedone occidentale negli anni tra il 1909 e il 1913, nel contesto dell’opposizione al governo accentratore dei Giovani Turchi nell’Impero Ottomano e delle guerre balcaniche. Il fatto che la casa-museo di un importante patriota albanese si trovi al centro di un’area della Kosova popolata da serbi offre un’idea di come sia complicato il quadro. Cfr. Antonello Biagini, Storia dell’Albania contemporanea, Milano, Bompiani, 1998, 176 p.; cit., pp.42,45,49,75

[84] Il governo kosovaro ha tollerato per anni l’uso di targhe automobilistiche serbe in tre municipalità del distretto di Mitrovicë (Mitrovica), ma dall’estate del 2021 ha imposto, come misura di reciprocità (il governo serbo non consente l’ingresso a veicoli con targa kosovara, obbligando ad adottare una targa provvisoria a pagamento) di adottare targhe kosovare provvisorie per i veicoli con targhe serbe circolanti nella Kosova, provocando proteste sfociate in blocchi stradali. Cfr. https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/tra-kosovo-e-serbia-e-guerra-delle-targhe-31835.

[85] https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Serbia-Kosovo-linee-d-ombra-sull-accordo-Trump-204748.

[86] https://www.balcanicaucaso.org/aree/Kosovo/Serbia-Kosovo-scambio-di-territori-un-ipotesi-pericolosa-190547.

[87] Fonte, Ministero della Difesa: https://www.difesa.it/OperazioniMilitari/op_intern_corso/KFOR/Pagine/ContributoNazionale.aspx.