Web e censura: Tienanmen fa ancora paura. Il governo cinese blocca posta, social network e motori di ricerca

di Alessandra Talarico |

Cina


Censura

Il ricordo dei tragici scontri di Piazza Tienanmen e del massacro compiuto dall’esercito cinese nella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989 fa ancora paura al governo di Pechino, che non ha mai fornito una versione ufficiale dell’accaduto ma esercita ancora oggi una rigida censura riguardo l’avvenimento.

Per non smentire la sua fama di censore del dissenso, il governo cinese – che già dispone di un sistema di sorveglianza considerato tra i più sofisticati al mondo – ha quindi deciso di rafforzare, in occasione del 20° anniversario di Piazza Tienanmen, il già stringente controllo sul web e sulle attività quotidiane degli oltre 300 milioni di internauti cinesi.

Da martedì pomeriggio, quindi, è stato di fatto impedito l’accesso a una dozzina di siti, tra cui il social network Twitter, la posta di Hotmail, il nuovo motore di ricerca Microsoft Bing e al server fotografico Flickr.

Restrizioni che vanno aggiunte a quelle cui già sono soggetti siti utilizzati ogni giorno da milioni di cittadini cinesi, quali Youtube, Blogspot, Skype, WordPress e le versioni in lingua cinese di vari network internazionali come la CNN e la BBC.

Riguardo la censura di Bing.com, Live.com e Hotmail, Microsoft ha confermato il blocco dei siti e ha fatto sapere di essere già in contatto con le autorità per capire le motivazioni della decisione e come comportarsi.

“Per quanto riguarda la governance di internet – ha dichiarato il direttore relazioni pubbliche Kevin Kutz – Microsoft è impegnata a garantire il libero flusso delle informazioni e a incoraggiare la trasparenza, il giusto processo e lo stato di diritto”.

La censura sulla sanguinosa repressione di Piazza Tienanmen è stata, nel corso di questi 20 anni così “brutale”, che secondo l’associazione Reporters sans Frontieres, “la maggior parte dei giovani cinesi non sono neanche a conoscenza di questo episodio”, che pure provocò un numero non ancora precisato di vittime.

Sui fatti di Piazza Tienanmen, il governo non ha mai fornito una versione ufficiale: inizialmente voci ufficiali parlavano di 200 civili e 100 soldati morti negli scontri, ma per la Croce Rossa le vittime furono oltre 2.500 alle quali vanno aggiunte, secondo Amnesty International, le oltre 1.000 vittime dalla violenta repressione portata avanti nei mesi successivi agli scontri.

Praticamente impossibile, quindi, reperire sul web informazioni relative ai tragici eventi del 4 giugno. La risposta del motore di ricerca Baidu è lapidaria: “la ricerca non è conforme alle leggi, ai regolamenti e alle politiche” del governo.

Dello stesso tenore la risposta in caso di ricerca di foto o video: nessun documento corrispondente alla ricerca effettuata risulta disponibile.

Alla base delle rivendicazioni degli studenti, alle cui proteste si unirono anche intellettuali, giornalisti ed operai, in quella che venne definita ‘la primavera di Pechino’, repressa nel sangue in Piazza Tienanmen, vi era non a caso la richiesta di maggiore libertà di stampa.

Coloro che riuscirono a sopravvivere a quella notte, denuncia ancora RsF, stanno ancora pagando le conseguenze delle loro prese di posizione, sotto forma di restrizioni amministrative, sorveglianza costante da parte della polizia, o esilio forzato.

Diversi giornalisti, tra cui Shi Tao – condannato a 10 anni di prigione per aver inviato una mail sugli avvenimenti di Piazza Tiananmen – sono ancora in carcere.

Il documento incriminato diffuso da Shi Tao conteneva in effetti una nota interna trasmessa alla sua redazione dalle autorità per mettere in guardia i giornalisti contro la destabilizzazione sociale e i rischi legati al ritorno di alcuni dissidenti in occasione del 15° anniversario del massacro di piazza Tiananmen.

Il giornalista, arrestato nel novembre 2004, ha confermato di aver inviato il documento via email ma ha contestato il suo carattere “top secret”.

Il cyberdissidente Huang Qi che da tempo si batte per il riconoscimento ufficiale delle vittime del 4 giugno, denuncia ancora RSF, è stato imprigionato senza processo dal 2008 ed gravemente malato, mentre Qi Zhiyong, uno dei più noti dissidenti cinesi (nel 1989 perse la gamba sinistra) è sotto costante sorveglianza della polizia e ha inviato un sms all’agenzia France Press per far sapere di essere stato costretto a lasciare Pechino contro la sua volontà.

Emblematico, inoltre, il recente arresto di Liu Xiaobo, figura simbolica del movimento democratico del 1989 e fervente difensore della liberta di espressione.

Le web company occidentali attive in Cina, per non perdere una fetta dell’immenso mercato internet che ha superato per numero di utenti quello degli Stati Uniti, sono costrette ad adeguarsi alle politiche censorie del governo di Pechino, così come assecondano – si scusano – le richieste di molti governi europei quando si tratta di negare l’accesso a siti inneggianti al nazismo, che istigano all’odio razziale o contengono materiali pedopornografici.

Anche il governo di Pechino usa, per giustificare ufficialmente l’opera di stretta censura sul web, la scusa della lotta alla pornografia e alla pedofilia. In realtà, però, la lista delle parole ‘sgradite’ al governo – e quindi irrintracciabili sui motori di ricerca – comprende diverse centinaia di termini dei quali soltanto poche decine riguardano la pornografia. Gli altri sono legati alla politica e a svariati altri argomenti. A finire nel mirino della censura, oltre agli ormai classici ‘democrazia’, ‘diritti umani’ o alle espressioni che fanno riferimento al Dalai Lama, al movimento religioso Falun Gong o ai fatti di piazza Tiananmen anche termini facenti riferimento ai fatti di cronaca che potrebbero mettere in imbarazzo il governo, come nel caso dello scandalo del latte per bambini contaminato dalla melamina.

L’arresto di Shi Tao, ad esempio ha costretto l’ex ceo di Yahoo Jarry Jang a scusarsi ufficialmente con la famiglia del giornalista, dopo che sempre RsF rese noto che l’arresto era stato reso possibile proprio dalla “delazione” di Yahoo! che aveva fornito le informazioni che hanno permesso di risalire alla sua identità.

Ma perché ancora resta così alta la guardia su un fatto di vent’anni fa, quando la Cina si batte per apparire agli occhi del mondo un Paese diverso da allora?

Secondo Reporters sans Frontieres, giocano molto, oltre al rigido sistema di controllo messo in atto dal governo, anche “l’autocensura e l’ignoranza della nuova generazione di giornalisti”, ma per Renee Xia, dell’organizzazione Human Rights Defenders, il nocciolo della questione è che “I leader cinesi sanno che le loro mani sono sporche di quel sangue e hanno paura che se emergesse la verità sarebbero costretti a rendere giustizia a quei crimini”.

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