l'analisi

Tutto è abbonamento. Ma quanto ci costa la subscription economy?

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Gli abbonamenti ci circondano, e senza far troppo rumore ci fanno spendere decine di euro ogni mese, con un meccanismo particolarmente insidioso; ognuno di questi costa una manciata di euro, ed è solo quando cominciano ad accumularsi che, controllando il nostro bilancio, ci rendiamo conto che qualcosa non va.

Rubrica settimanale SosTech, frutto della collaborazione tra Key4biz e SosTariffe. Per consultare gli articoli precedenti, clicca qui.

La tv streaming (anzi: almeno tre, quattro tv streaming). La musica, tutta quella esistente al mondo o giù di lì però senza la pubblicità, che ci distrae dell’ascolto. L’app per la ginnastica online, quella che ci ripromettiamo sempre di considerare per una mezz’ora al giorno e non ci riusciamo mai. Amazon Prime, perché non possiamo spendere per ogni pacco che ci arriva. Il giornale online che leggiamo e che altrimenti ci blocca buona parte dei suoi contenuti. Il canone del conto corrente. Un po’ di app per smartphone che usiamo quotidianamente, dal calendario al promemoria. Insomma: gli abbonamenti ci circondano, e senza far troppo rumore ci fanno spendere decine di euro ogni mese, con un meccanismo particolarmente insidioso; ognuno di questi costa una manciata di euro, ed è solo quando cominciano ad accumularsi che, controllando il nostro bilancio, ci rendiamo conto che qualcosa non va. Così l’apparentemente innocua subscription economy prospera, perché se è vero che il tal servizio “costa meno di un caffè alla settimana” o giù di lì, venti caffè al giorno sul portafoglio si fanno sentire eccome.

Subscription economy: un vecchio modello che si rinnova

Nel suo libro The Subscription Boom, Adam Levinter descrive il successo di un modello, quello dell’abbonamento, che in realtà ha radici molto antiche, risalendo al diciassettesimo secolo. L’economia digitale, a partire dai primi anni Dieci, ha saputo rinverdire i fasti di una simile pratica, della quale si sono subito appropriati i vari Netflix, Amazon o Spotify. Il modello ci è familiare, visto che da tempo paghiamo una decina di euro al mese o poco più per i nostri abbonamenti telefonici, e si tratta di cifre, come si è detto, basse, rassicuranti, che si moltiplicano in men che non si dica.

Prendiamo le tv streaming, ad esempio: ognuna di queste ha un costo limitato (su SOSTariffe.it si possono trovare le offerte più convenienti) ma per avere un panorama completo delle novità bisogna avere Netflix, Prime Video, Disney+, Apple Tv+, senza contare chi deve ancora arrivare da noi come l’attesa HBO Max. Certo, si tratta di abbonamenti che non hanno obbligo di rinnovo, quindi – in teoria – nulla vieta di sottoscrivere un’offerta solo per un mese, guardarsi tutti i titoli che interessano e poi disdirla. Ma chi lo fa davvero? Molto spesso, con la complicità di quel “silenzio assenso” che è il rinnovo automatico (obbligatorio), ci ricordiamo che stiamo pagando un abbonamento solo quando ci arriva la mail con la fattura dell’addebito. Allora ci ripromettiamo di disdire prima della fine del mese successivo, e il ciclo ricomincia.

Al centro di tutto, le relazioni

Levinter parla nel suo libro di economia basata sulle relazioni, invece che sulle singole transazioni: «Un abbonamento è un appuntamento ricorrente con il cliente. È quel tipo di costante promemoria della relazione che le persone hanno con un marchio». Le società sono state abili nello sfruttare il più possibile questo incontro periodico obbligato, utilizzando notifiche ed email per porsi in modo accattivante, senza lesinare messaggi d’addio strappalacrime quando qualcuno decide di uscire da questo circolo vizioso e annullare il proprio abbonamento. Peggio ancora se vengono proposti sconti consistenti se si decide di pagare un intero anno in una soluzione unica invece che un canone mensile: se ci si fa tentare da promozioni del genere senza avere valutato con attenzione la plausibilità che un determinato servizio ci serva ogni singolo mese dell’anno, il rischio è quello di finire legati mani e piedi.

Anche la pandemia, come ha mostrato il Washington Post, ha avuto un ruolo non indifferente per l’affermarsi della subscription economy. Malgrado il trend fosse più che positivo già negli anni scorsi, i lockdown hanno spostato buona parte delle attività quotidiane, anche a pagamento, online, e secondo le stime questo settore raggiungerà la ragguardevole cifra di 1500 miliardi di dollari entro il 2025, più del doppio degli attuali 650 miliardi. Non c’è quasi azienda digitale che non applichi in una forma o nell’altra la soluzione dell’abbonamento: anche i colossi del software che fino a pochi anni fa vendevano i loro programmi a cifre sì una tantum, ma spesso molto alte – è il caso di Microsoft o Adobe – oggi propongono l’abbonamento mensile, cercando di renderlo quasi indispensabile con una frequenza impressionante di aggiornamenti, anche per bug minimi, in modo da rendere obsoleto il vecchio modello dell’acquisto “una volta per tutte”.

Il decluttering: come liberarsi dagli abbonamenti inutili

Un po’ come quando sommando tutti gli spiccioli ci rendiamo conto che la loro somma è tutt’altro che trascurabile, arriva un momento in cui i nostri abbonamenti digitali totalizzano una cifra tanto alta da convincerci che è il momento di fare pulizia. Così come Marie Kondo ha costruito un’impero sul concetto del decluttering nelle case disordinate di chi non riesce a separarsi da oggetti che non userà più, è una buona idea adottare un’ottica altrettanto decisa per assicurarsi di lasciare attivi solo gli abbonamenti che interessano davvero.

Ogni volta che sottoscriviamo una nuova offerta, prendiamo l’abitudine di attivare un promemoria sul nostro smartphone un paio di giorni prima della scadenza del periodo di prova o del primo mese, così potremo valutare se è il caso di mantenere l’iscrizione o di annullarla. Invece di collegare direttamente al nostro conto corrente il pagamento dell’abbonamento, utilizziamo una carta prepagata – ovviamente con le notifiche attive – che rende più facile seguire tutti i nostri pagamenti periodici. Utilizziamo servizi come JustWatch per scoprire dove vengono trasmessi i titoli che ci interessano, diamo un’occhiata realistica alla nostra agenda e, invece di tenere attivi tutti i nostri abbonamenti alle tv streaming, ogni mese paghiamo soltanto quelli che siamo in grado di gestire: inutile programmare il binge watching di cinque stagioni di una serie e di un’altra da tre stagioni su una piattaforma diversa, visto che sarà difficile portare a termine anche solo la prima.

Soprattutto, non dimentichiamo che di tanti servizi a pagamento esiste un’alternativa del tutto gratuita: le app di ginnastica sono esteticamente molto ben fatte e offrono tantissimi servizi (come le sezioni dedicate alla nutrizione che in realtà nessuno segue mai), ma YouTube pullula di corsi interi da seguire senza spendere una lira.