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Streaming e pubblicità, anche Amazon dice sì agli spot

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Ormai tutti si sono resi conto che considerare Internet come la patria di ciò che è libero, di ciò che è gratis, è una forzatura, per usare un eufemismo.

Rubrica settimanale SosTech, frutto della collaborazione tra Key4biz e SosTariffe. Per consultare gli articoli precedenti, clicca qui..

Quando si allude a qualche prevedibile ritorno, ci sono due scelte: citare Giambattista Vico o Antonello Venditti. In questo caso la materia è più da corsi e ricorsi che non da giri immensi, perché suvvia, chi poteva avere nostalgia della pubblicità in tv, che adesso imperversa anche in quella che ingenuamente pensavamo fosse lo sconfinato orizzonte della libertà, ossia lo streaming? “Non si interrompe un’emozione”, ammoniva severo Federico Fellini per protestare contro la pubblicità che, negli anni Ottanta dell’iperconsumismo, sezionava i film con continue réclame.

Non sono poi molte le nazioni che hanno votato un referendum abrogativo per diminuire il numero delle interruzioni pubblicitarie. Bocciato, tra l’altro: all’epoca, il 1995, la campagna referendaria per il no ricordava che meno pubblicità, meno film: e gli italiani, particolarmente teledipendenti, ne furono terrorizzati. Ora che nessuno ha da temere sulla scarsità di contenuti, viste le decine di servizi attivi – semmai qualche dubbio in più si può avere sulla qualità degli stessi, ma è un altro discorso – ci ritroviamo daccapo.

Mai più pubblicità nello streaming. Anzi no

Piaccia o no, infatti, ora la situazione ricorda molto quella di tre decadi fa, anche se non molto tempo addietro avremmo guardato come un marziano chi paventasse il ritorno degli spot. Reed Hastings, il CEO di Netflix, nel 2015 si diceva sicuro: «Non ci sarà nessuna pubblicità su Netflix. Punto». Tanta assertività per arrivare, meno di dieci anni dopo, a una homepage che subito ti sbatte davanti, in bella vista, «Tutto ciò che ami di Netflix a soli 5,49 euro. Scegli il piano standard con pubblicità» (per conoscere i piani di abbonamento delle varie tv streaming, c’è sempre il comparatore di SOSTariffe.it). Di certo, non gli si può rimproverare una gestione poco oculata dell’azienda, visto che i recenti dati di JustWatch del 2023 hanno dimostrato che, ancora una volta, Netflix è il leader assoluto del mercato dello streaming, anche in Italia (da noi le preferenze degli utenti sono al 30%).

E ora la pubblicità è arrivata anche su Amazon Prime Video, che rispetto agli altri servizi (pur essendo al secondo posto in Italia come preferenze, al 23%) è un po’ particolare: è percepito come gratuito, o meglio è incluso nell’abbonamento che ci permette di non spendere fortune in spese di spedizione quando si compra qualsiasi cosa su Amazon. Ora però Prime Video gratuito non lo è più, o almeno è cambiato il patto con l’utente (almeno negli Stati Uniti, in Regno Unito, in Germania e in Canada, ma succederà anche da noi).

Anche Amazon dice sì agli spot

Dal 29 gennaio hanno fatto timidamente capolino, infatti, i break pubblicitari: uno all’inizio dei programmi, ed eventualmente anche un altro a metà, per un totale tra i 2 e i 3,5 minuti all’ora; Amazon garantisce che ci saranno comunque molti meno spot rispetto alla relevisione tradizionale, ma, appunto, anche Hastings aveva fatto un certo tipo di dichiarazioni, a suo tempo. E per chi proprio le pubblicità non le sopporta? C’è la possibilità di rimuoverle, ma, appunto, a pagamento, con 2,99 dollari al mese in più, per quanto riguarda gli Stati Uniti.

Lora Kelley, una giornalista dell’Atlantic, nel suo pezzo sul ritorno della televisione alla «commercials era» ha intervistato Bard Adgate, esperto di media, sulla mossa dell’azienda di Jeff Bezos, e la sua risposta è stata «perché no?». Ormai, in una forma o nell’altra, tutti o quasi i servizi di streaming hanno un tier a basso costo di abbonamento sostenuto proprio dalle pubblicità, quindi il modello sta diventando talmente comune, almeno oltreoceano, che nessun cliente si scandalizza più, esattamente come anni fa si fece il callo al profilerare delle interruzioni televisive. Avevamo anche una soglia d’attenzione ben diversa da quella attuale, però; sicuri che sia una mossa farci prendere lo smartphone in mano aspettando che il programma rinizi, o almeno farlo più di quanto già non sia abitudine?

Colpi di scena e dove inserirli

Non è, infatti, è solo un problema di fastidio dell’utente: è anche una questione artistica. Come ben ricorda chi imprecava quando l’addio di Rick a Ilsa in Casablanca veniva interrotto da una pubblicità di pannolini con trenta decibel in più, o quando il jingle «più gusto di Burghy nessuno ti dà» compariva tra un round e l’altro di Rocky tumefatto contro Ivan Drago, i prodotti d’intrattenimento televisivo sono montati in un certo modo, a seconda che siano previste o no le interruzioni.

Nel primo caso, ci sarà abbondanza di cliffhanger e colpi di scena, tensione montata ad arte che, anche se arrivano sessanta secondi di pubblicità di yogurt di stimolo per la digestione, ti terrà incollato allo schermo per sapere come andrà a finire; se così non è, e magari ti stai già un po’ annoiando, lo stacco pubblicitario sarà il colpo di grazie che ti spingerà a cambiare canale. Lulu Wang, la sceneggiatrice e regista della nuova miniserie in sei episodi Prime Video, Expats, con Nicole Kidman, ha detto all’Hollywood Reporter che se avesse saputo prima della decisione di Amazon, avrebbe creato la serie in modo differente, proprio perché è un’opera continua, che non ha momenti perfetti con cui lasciare lo spettatore sulle spine e inserire un’interruzione pubblicitaria.

Internet regno del gratuito? Ormai non più

C’è poi un altro elemento. Ormai tutti si sono resi conto che considerare Internet come la patria di ciò che è libero, di ciò che è gratis, è una forzatura, per usare un eufemismo. I creator sponsorizzano prodotti di ogni tipo, utilizzare un ad-blocker sul browser significa ricevere preghiere d’ogni sorta per disattivarlo, e anche guardare un semplice video di media lunghezza sull’app YouTube della propria smart tv vuol dire sottoporsi a un fuoco di fila di pubblicità che possono essere saltate solo dopo qualche decina di secondi. Perché quindi dovrebbe essere proprio la tv, che più di qualsiasi altro media ha portato lo spot fino quasi alla forma d’arte (pensiamo a ciò che viene trasmesso in America durante il Superbowl), a comportarsi diversamente? L’unica speranza è che, tra sciopero degli sceneggiatori e degli attori e idee che cominciano a scarseggiare per le varie serie, perlomeno si tratti di pubblicità avvincenti.