l'approfondimento

Trump chiede di essere riammesso su Twitter: il ban dei social network viola davvero il Primo emendamento?

di Giovanni Maria Riccio, Professore ordinario di Diritto comparato, Università di Salerno |

Trump sostiene che il ban imposto dalla piattaforma di social network violerebbe il primo emendamento, dal momento che Twitter sarebbe un “a major avenue of public discourse”.

È di due giorni fa la notizia che l’ex presidente americano Donald Trump avrebbe agito in giudizio nei confronti di Twitter dinanzi al Southern District della Florida.

Trump sostiene che il ban imposto dalla piattaforma di social network violerebbe il primo emendamento, dal momento che Twitter sarebbe un “a major avenue of public discourse”.

Giovanni Maria Riccio

Proviamo a riavvolgere il nastro, per capirci qualcosa di più.

Nel 2019, la Second Circuit Court of Appeals ha pronunciato una sentenza destinata a fare, per dir così, da spartiacque nella riflessione sui rapporti tra politici e social media, nel caso Knight First Amendment Institute v. Trump. L’appello, confermando la decisione di primo grado, ha stabilito che il presidente Trump, rimuovendo e bloccando alcuni utenti che “seguivano” il suo profilo Twitter ed erano molto critici nei confronti e del presidente e delle politiche di governo, avrebbe violato il primo emendamento.

La Corte Suprema, nell’aprile del 2021, non ha preso posizione sul punto, limitandosi a rinviare la decisione al Second Circuit; peraltro, nel frattempo, Trump aveva cessato il proprio ruolo politico e, soprattutto, Twitter – a seguito degli eventi di Capitol Hill – aveva chiuso il profilo dell’ex presidente. È interessante, però, la concurring opinion del giudice Clarence Thomas, resa in Biden v. Knight First Amendment Institute, il quale ha osservato che l’attenzione dovesse essere spostata sugli operatori anziché sul titolare dell’account (ossia Trump) e che questi ultimi dovessero essere trattati alla stregua di common carrier, come avvenuto, nel passato, per i gestori dei servizi e delle infrastrutture telefoniche. Inoltre, il giudice Thomas ha osservato che l’analisi avrebbe dovuto riguardare non tanto il tentativo di Trump di bloccare gli utenti, ma piuttosto il potere esercitato dalle piattaforme, arbitri finali della possibilità di sviluppare un discorso politico composito.

Il tema del public forum, declinato nei confonti dei social network, è complesso. Le corti che si sono occupate della partecipazione democratica nei social media ha fatto ampio ricorso a tale ricostruzione, per esempio ritenendo che l’account Twitter dell’ex presidente Trump (@realDonaldTrump), quindi non l’account governativo o presidenziale, sia uno spazio pubblico di discussione perché gestito da un personaggio pubblico. In altri termini, la circostanza che l’ex presidente statunitense abbia utilizzato il proprio profilo per lanciare messaggi politici (dalle dichiarazioni sulla Corea a quelle sulla politica interna, giusto per ricordare alcuni casi), determinerebbe che lo stesso sia qualificabile quale luogo, seppur privo di fisicità, nel quale si svolge il dibattito politico e, quindi, come già ricordato, l’accesso allo stesso non possa esser circoscritto in caso di opinioni dissenzienti o polemiche da parte di altri utenti della piattaforma

Allo stesso modo, i giudici americani hanno fatto sovente richiamo alla doctrine della viewpoint discrimination, secondo cui sarebbero ammissibili, nel marketplace of information, esclusivamente le discriminazioni che non siano fondate sui contenuti o sulle idee su cui tali contenuti poggiano. Pertanto, le opinioni espresse all’interno dei social network, ammettendo che questi ultimi siano dei public forum, dovrebbero essere protette, anche nel caso in cui le stesse cozzino con le policy delle piattaforme che ospitano questi contenuti. Policy, che, è appena il caso di ricordarlo, avevano determinato il ban definitivo del profilo di Trump dopo l’invasione del Campidoglio.

Probabilmente, una possibile via di uscita da questa impasse potrebbe essere suggerita dalle regole tecniche: in altri termini, occorre valutare se un determinato soggetto – titolare di una carica pubblica o candidato a tale carica – abbia adottato restrizioni nelle impostazioni del proprio account. Difatti, com’è noto, v’è la possibilità di limitare il proprio pubblico (seppur con differenti sfumature sui vari social media) e, l’esercizio di tale facoltà, dovrebbe lasciar intendere un uso privato del proprio account ovvero un uso destinato ad un’attività pubblica. Interessante, in questo senso, è l’argomentazione della Corte nel caso Campbell, nel punto in cui si affrontano il contenuto e la natura dei messaggi veicolati, che, evidentemente, non era confinato ai propri “amici”, ma era indirizzato ad un pubblico indeterminato.

Come statuito in un recente caso, che ha visto coinvolta Amazon, la previsione del Primo emendamento della Costituzione americana,che impedisce di limitare la libertà di espressione, è indirizzata esclusivamente alle public entity e non anche ai soggetti privati, quali i gestori delle piattaforme.

Quest’ultimo tema ci consente di ritornare sul ban di Twitter e Facebook nei confronti di Trump e di alcuni suoi sostenitori, arringati dall’ex presidente per mezzo di post sulle diverse piattaforme di social network in cui si denunciavano brogli elettorali.

Rispetto al caso Knight First Amendment Institute v. Trump (ma ve ne sarebbero anche altri), siamo al cospetto di un elemento fattuale diverso: in questa fattispecie, infatti, non è stato il gestore del singolo account a bloccare o a limitare le interazioni degli altri utenti, ma la piattaforma stessa, in nome delle proprie policy. Ma è ammissibile che un soggetto privato, una impresa, sui cui servizi si svolge il dibattito politico, possa limitare il campo di azione di uno state official, di un esponente politico? Oppure dovrebbe estendersi il concetto di public forum anche a tali piattaforme, sebbene non si trovino sotto il controllo statale?

La questione è senz’altro complessa ed è difficile offrire un’unica risposta, che sia veramente appagante. Da un lato, le piattaforme hanno oramai catalizzato l’attenzione del pubblico, divenendo, al di sopra degli altri mezzi di comunicazione di massa, le arene nelle quali si svolge maggiormente il dibattito politica (o, forse, sarebbe meglio più proprio discorrere di comunicazione politica). Dall’altro, però, non può trascurarsi un’altra circostanza: impedire alle piattaforme di poter intervenire sulla gestione dei propri utenti significa avallare una sorta di (sia consentito il termine) espropriazione, sulla base unicamente di una posizione di mercato – e, correlativamente, di incidenza comunicativa – sul mercato dell’informazione pubblica.

La dissenting opinion nel caso Trump, come si accennava, ha enfatizzato che l’attenzione non dovrebbe essere concentrata sui titolari dei profili, siano essi privati cittadini o esponenti pubblici, quanto, piuttosto, sui gestori delle piattaforme, il cui potere rischia di incrinare gli equilibri democratici. Eppure, siamo davvero sicuri che sia la strada giusta da seguire? Oppure una strada simile rischia di rafforzare le posizioni di mercato esistenti, assegnando ancora più forza ai gestori delle grandi piattaforme?