La relazione

PA digitale, flop e ritardi danneggiano il Pil. Bilancio desolante della Commissione d’inchiesta

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Oggi al Cnel la relazione finale della Commissione d'inchiesta sulla digitalizzazione della Pa. Il presidente Paolo Coppola (Pd) ‘Digitale sottovalutato, scarse competenze digitali fra i dirigenti pubblici e rapporto squilibrato con i fornitori’.

La digitalizzazione della PA in Italia continua ad arrancare e il ritardo pesa sul Pil in termini di scarsa produttività che si riverbera sulla nostra economia. Nonostante una spesa Ict stimata in 5,7 miliardi di euro annui (Consip ha una capacità di penetrazione del 24%, il 50% della spesa è in capo alla Pac, il 25% alla Pal e il restante 25% alla Sanità) il digitale resta un tema sottovalutato dalla classe politica e dalla dirigenza dei nostri enti pubblici centrali e periferici che, tranne rarissime eccezioni, dichiarano candidamente di non aver nemmeno provveduto a nominare un responsabile alla transizione digitale, una figura prevista almeno per la PAC (Pubblica amministrazione centrale) dal lontano 1993.

Competenze digitali scarse

Le competenze digitali sono al lumicino nella PA, la conoscenza del CAD (Codice dell’amministrazione digitale) è scarsa per non parlare della sua applicazione. Il rapporto con i fornitori è di sudditanza, per carenza appunto di skill digitali. I progetti di informatizzazione sono vissuti come semplici adempimenti. Questi in sintesi alcuni dei risultati – annunciati ma non per questo meno desolanti – della relazione finale della Commissione parlamentare d’inchiesta sul livello di digitalizzazione e innovazione delle Pubbliche amministrazioni, presieduta da Paolo Coppola (Pd) ed esposta dalla relatrice Enza Bruno Bossio (Pd). Risultati presentati oggi dopo un anno di audizioni e inchieste in una giornata di studi che si è tenuta a Roma al Cnel, in collaborazione con l’Università degli studi di Roma Unitelma Sapienza (presente il Rettore Francesco Avallone) e con la Scuola Nazionale di Amministrazione Digitale (Snad) Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza (presente il Direttore Donato Limone).

All’evento hanno preso parte come relatori Andrea Nicolini del CISIS; Antonella Galdi, Vice segretario generale dell’Anci; Gaetano Palombelli, Dipartimento Finanza e personale UPI; Enzo Chilelli, Vice segretario generale Federsanità; Antonello Busetto, Direttore Anitec-Assinform; Giovanni Manca, Presidente Anorc; Irene Sigismondi, Comitato Direttivo Andig; Raffaele Barberio, Direttore Supercom.

12 mesi di audizioni

Dai 12 mesi di audizioni e inchieste fra novembre 2016 a novembre 2017, portati avanti dalla Commissione parlamentare, emerge una generalizzata “la sottovalutazione del digitale” e in particolare del capitale umano da parte di Pac e Pal, sostanziata dalla mancata nomina negli anni del responsabile della transizione digitale, aggravata dal fatto che la successiva nomina ha premiato magari “vertici apicali sprovvisti dei titoli e quindi presumibilmente delle competenze per la transizione digitale”, ha detto Paolo Coppola, secondo cui questa situazione è gravissima tanto più che da 25 anni questa figura è obbligatoria.

Una PA dove l’informatizzazione è vissuta ancora come “adempimento e dove manca la cultura dell’obiettivo”, con dirigenti che si arrampicano sugli specchi per giustificare la mancata nomina delle figure di riferimento e la mancata attuazione di quanto previsto per le leggi e una sistematica disapplicazione della legge 150 del 2009 (Riforma Brunetta) che impone la valutazione dirigenziale in base a risultati e performance (con la rara eccezione dell’Agenzia delle Dogane).

Il caso emblematico dell’Anagrafe Unica

Un caso emblematico di questo clima è l’Anpr (Anagrafe nazionale della popolazione residente), progetto portante del decreto Crescita Digitale per la creazione di un’unica anagrafe dei cittadini dei più di 8mila comuni italiani, fermo al palo della sperimentazione ormai da più di due anni. L’allora amministratore delegato di Sogei venne in audizione a dire che per lui il progetto era concluso – dice Coppola- Ma c’era un solo comune che era passato all’Anpr. Dal suo punto di vista (la fornitura del software ndr), supportato dal contratto con il Ministero dell’Interno, il progetto era terminato. Ma per noi questa è una posizione inaccettabile”. Il progetto è passato ora in mano al Team digitale del Commissario di Governo per l’attuazione dell’Agenda Digitale presso la Presidenza del Consiglio Diego Piacentini, che ha detto che Anpr sarà terminato quando tutti i comuni saranno passati all’Anagrafe unica, ma quando ciò avverrà non lo sa nessuno. C’è da dire che secondo i piani del Piano Crescita Digitale l’Anagrafe unica dovrebbe già essere in funzione, con la migrazione di tutti i comuni già conclusa, ma troppi errori nelle anagrafiche comunali rallentano il processo. “I dati sono stati raccolti male”, sono sporchi e questo pesa non poco anche sulla mancanza di interoperabilità delle banche dati.

Certo, fissare una dead line per la migrazione potrebbe aiutare, anche perché senza Anagrafe Unica tutto il disegno del Digital first rischia di restare sulla carta per non parlare di Italia Login, la casa digitale degli italiani.

Rapporto non paritario fra PA committenti e fornitori IT

Un’altra pecca che pesa sul processo di digitalizzazione della PA è il rapporto con i fornitori IT. Mancando le competenze tecniche e di informatica giuridica nei dirigenti questa carenza di skill si riflette nei contratti, dove quasi sempre manca ciò che “sarebbe ragionevole attendersi”, aggiunge Coppola. La PA non riesce a governare il rapporto con i fornitori. L’outsourcing digitale, secondo la Commissione, non funziona con conseguenze negative rispetto alla definizione delle basi d’asta per i progetti di digitalizzazione. In altre parole, la spesa Ict non è efficace secondo la Commissione, che per il futuro vede nel cambiamento organizzativo la sfida fondamentale per accompagnare il digitale. Tanto più che nei prossimi 5-10 anni, secondo l’Ocse e svariati studi internazionali, il digitale cambierà il lavoro di moltissime persone, anche nella PA nonostante le resistenze. “Troppe risorse nella PA vivono l’automatizzazione del lavoro come una minaccia”, chiude Coppola, secondo cui peraltro la digitalizzazione deve rappresentare invece una lotta non solo per il risparmio in ottica di spending review, ma anche e soprattutto contro la corruzione.

Le norme ci sono, cosa blocca il cambiamento

Donato Limone, Direttore della Scuola Nazionale di Amministrazione Digitale (Snad) Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza, si sofferma sulle carenze normative che bloccano il cambiamento citate dal presidente Coppola. In primo luogo, l’articolo 17 (del Cad ndr) è molto importante “riguarda il dirigente responsabile del passaggio al digitale e al cambiamento – dice Donato Limone – ma è stato pensato soltanto nella logica delle amministrazioni centrali, e non nella logica di allargare questa figura a tutto il sistema contiguo. E’ vero poi che questi dirigenti non portano avanti il cambiamento nel modo previsto dalle norme almeno, però è anche vero che non viene applicato l’articolo 12 del Cad, quando si riferisce al ruolo degli organi, che non danno indirizzi in materia. Quindi, il combinato fra i due soggetti è esplosivo, da un lato la politica, che ha in mano le leve decisionali, non crede in questo cambiamento, dall’altro la dirigenza non crede essa stessa nel cambiamento. Così si blocca qualsiasi tipo di cambiamento”.

Per quanto riguarda il decreto 150 del 2009, il Cad stabilisce tutta una serie di norme per l’analisi delle performance e la domanda è “dove stanno gli organismi indipendenti di valutazione? Li valutano i processi di semplificazione e digitalizzazione oppure no?”, dice Limone, secondo cui la cosa “più drammatica” è la qualità del dato. “Noi abbiamo 30mila organizzazioni pubbliche, abbiamo più di 300mila decisori pubblici che decidono sulla base di dati che nessuno sa, effettivamente, essere di qualità. Eppure abbiamo delle norme precise sulla qualità dei dati pubblici (articolo 50 e seguente del Cad) e l’importantissimo articolo 6 del decreto 33 del 2013 che riguarda proprio la qualità dell’informazione legata alla trasparenza e all’anti corruzione. Quindi, noi le norme ce le abbiamo tutte, il problema vero è la cultura che manca al cambiamento, e quindi anche la formazione”.

Serve lo switch-off

“Oggi la tecnologia abilitante c’è, il problema è culturale. Spid, Anpr e PagoPA se li facciamo forse faremo il salto di qualità”, dice Enza Bruno Bossio, relatrice del documento finale della Commissione Parlamentare, che non essendo permanente rischia di chiudere la sua attività di monitoraggio a fine legislatura. “La Commissione d’inchiesta nasce perché l’applicazione del Cad aumenterebbe la produttività e di conseguenza anche il Pil del Paese – ha detto Bruno Bossio – Alla voce produttività ci sono anche i dati pubblici, che, come dice Piacentini, sono come un giacimento petrolifero, ma vanno esplorati”.

L’Italia però è ancora indietro, secondo gli indicatori del Desi, l’indice che valuta il livello di digitalizzazione dei paesi Ue, resta sempre intorno al 25esimo posto anche se il paino Bul e il piano crescita Digitale hanno dato un certo impulso, sicuramente dal punto di vista della copertura a 30 Mbps dove oggi siamo al 71,8% rispetto al 17% di tre anni fa. “Ma la rete da sola non basta”, aggiunge Bruno Bossio, “abbiamo pochi laureati in facoltà scientifiche” e l’utilizzo prevalente di Internet è limitato ai social.

L’integrazione di tecnologie digitali sta migliorando con il piano Industria 4.0, in Manovra è previsto un credito d’imposta del 40% per la formazione digitale, ma l’uso di servizi di eGovernment resta molto scarso. “La riforma del Cad del 2016 non è purtroppo sanzionatoria – dice Bruno Bossio – e i ministeri continuano a ragionare per silos chiusi, ma i dati devono parlare fra loro”.

Quel che manca, è una visione strategica d’insieme. “Bisogna saper semplificare e capire come cambiare il rapporto con i cittadini – aggiunge – ma si fanno progetti di digitalizzazione che si sovrappongono fra loro e nei contratti non è prevista la misurazione del risultato della digitalizzazione e il suo impatto”.

A questo punto, secondo Bruno Bossio, “dobbiamo andare verso uno switch off effettivo. Dobbiamo fare pagare di più chi resta fermo al processo analogico, anche i cittadini, perché con la fatturazione elettronica si è visto che le imprese si sono adeguate. Solo in questo modo la PA potrà entrare nell’era del dato pulito e dell’interoperabilità”.

Dato nativo digitale e appalti da cambiare

In sintesi, due gli aspetti fondamentali per cambiare rotta. “Il concetto di base è il dato nativo digitale nella PA. Le amministrazioni dovrebbero formare e gestire tutti i documenti in formato digitale fin dall’inizio – dice Donato Limoneil sistema misto digitale-analogico è pericolosissimo. E’ importante poi che vi sia una Commissione permanente sul digitale nella PA, è assurdo che solo in Italia i cambiamenti fondamentali non siano legati al digitale. E quindi anche in Parlamento deve esserci questo tipo di logica. Infine, i contratti pubblici e gli appalti, che purtroppo vengono gestiti come delle pratiche. Non c’è una rilevazione dei bisogni prima, non c’è un’analisi su come si decide di procedere negli appalti, non c’è un’analisi della documentazione tecnica adoperata per poi fare il bando, non c’è un’analisi d’impatto, non c’è un monitoraggio successivo. I 5,7 miliardi di euro di spesa Ict vengono gestiti come una pratica di acquisto di penne o carta igienica. Questa è la logica che va cambiata”.