L'analisi

ilprincipenudo. L’immobilismo mediale di Matteo Renzi: da Google alla Rai

di Angelo Zaccone Teodosi (Presidente Istituto italiano per l’Industria Culturale - IsICult) |

Tanto attivismo e decisionismo in molti settori della socio-economia nazionale, ma scarso interesse per i media: l’anomalia di Matteo Renzi, che almeno in questo settore non sembra l’uomo del ‘new deal’.

#ilprincipenudo è una rubrica settimanale di ragionamenti eterodossi di politica culturale e economia mediale, promossa da Key4biz a cura di Angelo Zaccone Teodosi, Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult.
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Si osserva una strana contraddizione tra l’iperattivismo di Matteo Renzi in tanti settori della socio-economia nazionale (o “iperannuncismo” che sia) e la grande perdurante staticità rispetto alle politiche mediali (tutto immobile).

Ipotizziamo tre possibili spiegazioni. Al di là delle solite decantate belle intenzioni (ovvero della “centralità” della cultura, e quindi anche dei media, nell’agenda governativa), a Renzi poco in verità importa delle questioni mediali; oppure, importa, ma l’assetto esistente lo soddisfa, e preferisce non muover palla (per non dover assumere decisioni gravose e disturbare poteri forti); oppure, ed è certamente tesi malevola, esiste un arcano patto tra lui e Silvio Berlusconi, affinché non si tocchi nulla dello “status quo” (a partire dalla concentrazione triopolistica RaiMediasetSky).

Nella compagine governativa, va dato atto al Ministro Dario Franceschini di aver assunto decisioni coraggiose, in materia di cultura (con debordamenti nello specifico mediale): dalla questione “copia privata” (schierandosi con i produttori di contenuto – e con la Siae – contro i produttori di hardware), all’ennesimo tentativo di riforma del dicastero (elefantiaca macchina burocratica), all’introduzione dell’”Art Bonus” (non rivoluzionario, ma significativo).

Sui media, però, si registra un assordante silenzio ed un immobilismo totale.

Eppure, le questioni in agenda sono numerose e alcune hanno assunto ormai tratti quasi ridicoli: citiamo, per tutte, la vicenda della numerazione automatica dei canali televisivi (“Lcn”, nel gergo degli addetti ai lavori), che, in un ginepraio di sentenze e ricorsi, evidenzia il mal governo ovvero il non governo dell’etere italico.

È stata resa nota in questi giorni la sentenza del Consiglio di Stato che ha respinto i ricorsi presentati dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, dal Ministero dello Sviluppo Economico e da Mtv Italia contro la sentenza del dicembre 2013, con cui i giudici di Palazzo Spada hanno annullato la delibera Agcom sul nuovo piano di numerazione dei canali, nella misura in cui aveva disposto “l’assegnazione dei numeri 8 e 9 del sistema lcn a canali generalisti ex analogici”, e avevano nominato un commissario “ad acta” per predisporre un nuovo piano di numerazione (l’ingegner Marina Ruggieri, costretta a sospendere le proprie attività a causa dalla decisione del Consiglio di Stato).

E’ una vicenda sintomatica della complessità dei processi decisionali della Pubblica Amministrazione italiana, della farraginosità, della lentezza. Ed anche una riprova della debolezza istituzionale (e della correlata fragile autorevolezza?) dell’Agcom, così come della complessificazione kafkiana che l’attività di Tar e Consiglio di Stato determina nelle attività imprenditoriali (e ci stupiamo se l’Italia è un Paese sempre più snobbato dagli investitori stranieri?). L’Italia è il regno dell’incertezza del diritto, e, al tempo stesso, un Paese nel quale prevale una vischiosa conservazione dell’esistente.

Si decide, e al contempo non si decide.

La vicenda “Lcn” è intimamente correlata all’assetto complessivo del sistema radio-televisivo, ed anche al ruolo delle emittenti locali, peraltro da decenni abbandonate a se stesse, in una penosa deriva di disinteresse istituzionale. Basterebbe un intervento normativo, per determinare un riassetto equilibrato ed ecologico del sistema, ma ciò significherebbe disturbare anzitutto i tre grandi (Rai, Mediaset, Sky), e, intervenendo in materia di frequenze, anche altri poteri, quelli delle tlc (Telecom Italia in primis).

E, quindi?

Meglio nascondere la testa sotto la sabbia, e… sarà quel che sarà.

E che dire dell’Agenzia per l’Italia Digitale?!

Ennesimo caso sintomatico di contraddizioni, lentezze, approssimazioni, finanche… schizofrenie istituzionali (la Ministra Marianna Madia ha sottratto competenze che sembravano essere state assegnate al Sottosegretario Antonello Giacomelli).

Un passo avanti ed uno indietro, a zig-zag, in danze tipiche della commedia dell’arte.

Si decide, e al contempo non si decide.

Per esempio, in materia di diritto d’autore, si registra una sostanziale assenza di iniziativa governativa (ed in verità anche parlamentare): la Siae (Società Italia Autori Editori) non si tocca, perché evidentemente piace così com’è, finanche nella sua novella caratterizzazione “plutocratica”; il Nuovo Imaie (Istituto per la Tutela dei Diritti degli Artisti Interpreti ed Esecutori) cerca di distinguersi e promuove un inedito fondo di 5 milioni di euro a favore del settore audiovisivo, cinematografico e teatrale, incluso il sostegno degli artisti in difficoltà e delle attrici madri… Non sembra che il Governo o il Parlamento sentano necessità, anche in questo settore, di una legge organica sul diritto d’autore, che modernizzi gli assetti, e possa determinare un sistema ben temperato, più equilibrato, in sintonia con le migliori esperienze dei casi di eccellenza europea.

E di Google, ovvero specificamente Google Italia, che dire?!

Lo stop di Renzi alla “Google tax” è stato netto, nell’aspra dialettica “interna” al Pd, scatenata contro il lungimirante Francesco Boccia (che pur sempre resta compagno di partito, oltre che azzittito Presidente della Commissione Bilancio di Montecitorio).

La morte de “l’Unità”, e più in generale lo stato di infinita crisi in cui versa l’editoria giornalistica italiana sono il risultato del mal governo, anzi del non governo del sistema mediale italiano.

Non sosterremo che si tratta di una dinamica causa/effetto diretta (non è il colosso di Mountain View ad aver killerato lo storico quotidiano fondato da Antonio Gramsci…), ma della riprova delle patologie sedimentate e intrecciate di un sistema incancrenito. Patologie che determinano crisi di imprese, disoccupazione intellettuale, depauperamento delle industrie culturali, riduzione del pluralismo.

La questione è duplice: è economica ed è culturale a un tempo.

Google, Amazon, Facebook ed altri “player” non soltanto pagano pochissimi tributi in Italia, ovvero – abusando di pur legittimi marchingegni contabili – li pagano in Paesi fiscalmente più “generosi” (come l’Irlanda), sottraendo risorse allo Stato.

La questione dell’Italia come “no tax land” per i colossi del web non interessa Renzi. Eppure la Francia ha prospettato a Google una multa di 1 miliardo di euro per evasione fiscale.

Quel che riteniamo sia ancora più grave è che Google & Co. non contribuiscano minimamente al rafforzamento del tessuto industriale e creativo delle industrie culturali italiane. E simpaticamente Google organizza a Roma la tappa italiana del tour europeo per contrastare la decisione della Corte di Giustizia Ue, che impone il “diritto all’oblio”.

L’oblio vero è quello di Renzi rispetto ai colossi del web!

Della Rai, meglio tacere.

Una “consultazione pubblica” sulla Convenzione tra Stato e tv pubblica viene annunciata da mesi ormai, ma non se scorge alcuna evidenza. Il decano dei mediologi italiani, l’esimio Mario Morcellini, ha promosso – con benedizione del renziano Rai per antonomasia, Luigi De Siervo – una sorta di simulazione di consultazione, un ennesimo laboratorio accademico, un esercizio ludico non a caso denominato Pallacòrda: utile certamente, ma non è questo il modo per provocare una discussione profonda, plurale, trasparente.

Nel mentre, nessuna reazione da parte del Governo all’ardita proposta “Cambia canali” presentata durante il Festival di Venezia dalle maggiori associazioni dell’audiovisivo (Anica, Apt, 100autori, Anac, Doc/it…), in un’inedita (e non si sa quanto feconda) alleanza tra anime “commerciali” ed anime “artistiche”: una Rai divisa in due società (una finanziata dal canone ed una dalla pubblicità).

Altro esercizio di teoria mediologica. Nel mentre, però, si assiste anche all’isterico autoritario taglio governativo di 150 milioni di euro al budget Rai, all’unificazione delle testate che non garantisce certo migliore pluralismo, ad un tentativo di privatizzazione di RayWay sganciato da una riflessione organica sul ruolo del sistema pubblico mediale.

Tutta l’architettura dell’intervento pubblico nel sistema culturale e mediale italiana è arcaica, squilibrata, asimmetrica, con processi di sostegno ormai privi di complessiva razionalità (i contributi all’editoria, alle emittenti locali radiotelevisive, allo spettacolo…), con assurde sacche di privilegio (un esempio per tutti: gli enti lirici). Sarà banale sostenerlo, ma sempre più crediamo – à la Bartali – che veramente “l’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare!”. E, almeno nel settore dei media, non è Renzi l’uomo del “new deal”.