Solitudine digitale

eJournalism. Paradosso smartphone: sempre connessi ma sempre più soli

di André Gunthert, L’Image Sociale |

Lo smartphone è diventato l’emblema dell’essere assorto, della solitudine e del rifiuto di comunicare – profondo paradosso per un oggetto connesso.

Andé Gunthert analizza in un intervento molto interessante su Image Sociale (che qui traduciamo) il processo che trasforma le foto di persone completamente assorte nell’uso dei dispositivi ‘mobili’ in proverbi e fonte di ‘’senso comune’’, facendone, appunto, delle caricature.

La viralità delle foto di persone assorte nello smartphone – spiega lo studioso francese – si basa sulla loro articolazione con una ‘’verità generale’’ che l’immagine porta con sé e conferma, in un circolo autorealizzatorio. Essa prende così un valore proverbiale, con la forza che nasce dall’espressione precisa di un sentimento generale diffuso. Una foto ben scelta può quindi avere la stessa efficacia di un disegno sul giornale, attestandone così le sue declinazioni. Come il proverbio essa fornisce una forma sintetica appropriabile, dotata della firma di un giudizio condiviso, che ne fa un potente strumento retorico.

#eJournalism è una rubrica settimanale promossa da Key4biz e LSDI (Libertà di stampa, diritto all’informazione).

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Absorbement, smartphone et caricature

di André Gunthert

(L’image sociale)

Un nuovo oggetto è entrato nelle nostre vite. Mi correggo: l’immagine di un oggetto (o piuttosto di un comportamento) si ripete in continuazione. Immagini che incrocio e reincrocio, con o senza commenti. Che scavano e ripropongono l’ovvio. E cioè: lo smartphone è diventato questo oggetto onnipresente, ‘’addictivante’’, incontrollabile che mostra i nostri scambi più elementari.

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Più un telefono, come ai primi tempi del mobile, quando si rideva delle persone che parlavano a voce alta per strada? O più un apparecchio fotografico, come nel 2013, quando si rideva dei selfie degli adolescenti. No, solo un oggetto opaco, di cui non si sa più quale sia l’utilizzo (video? gioco? informazione? messaggeria?), un buco nero a portata di mano, in cui i contemporanei si perdono, inabissati- assorti, direbbe Michael Fried (1).

Lo smartphone è diventato l’emblema dell’essere assorto, della solitudine e del rifiuto di comunicare – profondo paradosso per un oggetto connesso.

A dirlo sono prima di tutto le immagini. Un account di Instagram che raccoglie foto e disegni de-connessionisti (vedi qui sopra).

Delle immagini in bianco e nero di anonimi totalmente assorbiti dagli smartphone scattate da uno street photographer, condivise per più di mezzo milione di volte. Un’immagine che circola anonimamente su blog e account Facebook (vedi qui sotto), che un commento sostiene provenire dall’Australia (…). O, ancora, un brano di un documentario del 1947, che predice l’avvento di una televisione individuale e mostra delle persone per strada, fornite di una sorta di antenna, che si urtano quando si incrociano…

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In tutte queste immagini persone preoccupate, con gli apparecchi in mano, lo sguardo fisso, assorbite completamente da uno spettacolo invisibile. E questo fa discutere sulle reti sociali, su cui si vede bene come ci siano parecchie persone infastidite da questa rappresentazione univoca, che tentano di correggerne l’immagine. Postando foto diverse, di utenti sorridenti, oppure mostrando degli schermi che non si vedono (vedi sotto). Tanto, ci sarà sempre un friend per farti rimettere dal Babycakes Romero di sopra.

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Niente di tutto questo avrebbe senso se lo smartphone non avesse preso tanto spazio nelle nostre vite. Passato il tempo della scoperta («c’è un’applicazione per tutto»), l’oggetto comunicante è diventato usuale. Le file di attesa sono diventate dei saloni di lettura. In quel grande luogo di socialità paradossale che sono i trasporti pubblici, che impongono la prossimità fisica con dei perfetti sconosciuti, si vedono gli schermi erigersi in barriere. E a cena, ‘’spegni il tuo pc’’ si è venuto ad aggiungere alla lunga lista delle consegne rabbiosamente imposte ai ragazzi.

Già, un nuovo oggetto è entrato nelle nostre vite, capovolge le abitudini, riconfigura i codici, impone delle nuove regole. Buono o cattivo, si vedrà, non si può tornare indietro. Come l’automobile, come la televisione, questo nuovo oggetto cambia tutto, impone la sua presenza e occupa posto.

A questo punto, di fronte a questa serie di immagini che ognuno di noi ha potuto collezionare, si impone il passaggio alla rappresentazione. L’immagine che circola, che gli uni e gli altri fanno rimbalzare perché essa riecheggia quello che essi sentono, non è la trascrizione realista di una situazione complessa. Al contrario, è un simbolo, una sintesi, una caricatura.

E’ l’apparecchio che bisogna accusare o le persone che se ne servono?

I comportamenti sotto accusa sono l’eccezione o la regola?

Possiamo adattare i nostri codici di condotta o dobbiamo gettare il nostro smartphone?

La posizione de-connessionista non si pone delle questioni così sottili, fa delle denunce in blocco.

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Ora, come mostra un reportage un po’ più elaborato, a fumetti, di Boulet, che reintroduce la temporalità e la riflessività delle pratiche (vedi sopra), gli utilizzi dello smartphone sono difficili da ridurre all’istantanea di un colpo d’occhio. Selezionando ad esempio la situazione di prossimità imposta dal trasporto pubblico, luogo per eccellenza di una cultura dell’assorbimento (vedi qui sotto la metropolitana di New York nel 1963), i critici del cellulare trovano facilmente un teatro del suo impiego moltiplicato. Omettendo di sottolineare questo contesto, o di entrare nel dettaglio del suo uso, essi fanno dell’essere assorto l’immagine generica dello smartphone.

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In altre parole, queste foto che dovrebbero essere delle ‘’prove oggettive’’ sono invece orientate, menzognere e manipolatorie come la caricature di Jean-Luc Mélenchon veicolata dalla stampa, o quella della mussulmana col velo.

Una fotografia può svolgere il ruolo di una caricatura?

Se quello che definisce la caricature è la nozione di caricamento o di esagerazione del tratto, allora ci troviamo proprio davanti a delle caricature fotografiche – un uso poco conosciuto di registrazione documentaria e perciò sempre più frequente.

La caricatura non è una esagerazione grafica. Affinché la carica abbia peso, essa deve applicarsi a una situazione riconosciuta come verità generale. La forza della caricatura è di esprimere in maniera leggibile e sintetica un giudizio simile al proverbio.

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La viralità delle foto di persone assorte nello smartphone poggia sulla loro articolazione con una ‘’verità generale’’ che l’immagine porta con sé e conferma, in un circolo autorealizzatorio. Essa prende così un valore proverbiale, con la forza che nasce dall’espressione precisa di un sentimento generale diffuso. Una foto ben scelta può quindi avere la stessa efficacia di un disegno sul giornale, attestandone così le sue declinazioni. Come il proverbio essa fornisce una forma sintetica appropriabile, dotata della firma di un giudizio condiviso, che ne fa un potente strumento retorico.

La circolazione caotica di un messaggio visuale ripetuto può dunque avere valore di segnale. Associata ad altre manifestazioni, prese di posizione pubbliche, articoli di riviste, pubblicazioni sagge, essa contribuisce a costruire e ad imporre una rappresentazione, una figura sintetica, che potremmo chiamare immagine sociale, creazione collettiva da parte dei partecipanti alla conversazione.

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(1)       Michael Fried, Absorption and Theatricality. Painting and Beholder in the Age of Diderot, Berkeley, University of California Press, 1980. Fried propone una opposizione fra figura di chi è assorto e figura di teatralità nella pittura del XVIII secolo. Nel caso dello smartphone, la nuova coppia di opposti potrebbe essere: assorbimento vs. sociabilità. []

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