Guerra digitale

Droni militari: cambia la percezione del nemico, cambia il concetto di guerra

di Filippo Ruschi, Ricercatore di ruolo, Filosofia del Diritto-Università di Firenze, Esperto di Relazioni Internazionali |

Nella guerra digitale il nemico subisce una degradazione ulteriore, una disumanizzazione estrema che lo riduce a impulso elettronico, a macchia colorata su di uno schermo, a icona di un tragico videogioco.

Il ricorso alla tecnologia robotica nell’ambito delle operazioni militari è ormai un fatto ordinario: si tratti di Unmanned Aerial Vehicles, di cingolati in grado di neutralizzare ordigni esplosivi o di veicoli semoventi destinati a missioni di esplorazione e sorveglianza, le intelligenze artificiali si rivelano sempre più preziose nei teatri operativi.

Anche se l’allestimento di veri e propri androidi da combattimento appartiene più alla cinematografia hollywoodiana che non ai progetti del Pentagono, è plausibile che nel prossimo futuro, come temono i tanti critici dei LAWS (Lethal Authonomous Weapons Systems), il potenziale offensivo dei sistemi robotici sarà significativamente accresciuto.

Di fronte di questo “scatenamento” della tecnica militare, le preoccupazioni sono giustificate, meno la sorpresa.

Massimizzare i danni inflitti al nemico, al tempo stesso minimizzando le proprie perdite, ha rappresentato la chiave della vittoria dai tempi in cui Egiziani e Ittiti si affrontavano nella Piana di Qadeš.

Vera e propria pietra filosofale della strategia militare, questo obbiettivo fin dall’evo antico è stato perseguito con tenacia affinando la tattica, introducendo armi da lancio sempre più letali, ma anche cercando nella tecnologia risorse alternative a quelle umane: là dove la de-umanizzazione della guerra, almeno fino alla Modernità, ha significato ricorrere all’ausilio degli animali.

Condottieri e generali non hanno fatto difetto di inventiva, anche se i risultati non sempre sono stati all’altezza delle aspettative.

Gli elefanti di Pirro e di Annibale sono patrimonio dell’immaginario collettivo, ma non sono mancati altri espedienti: pare che i Maya, al momento di prendere d’assalto le fortificazioni avversarie, usassero scagliare dei contenitori che liberavano sciami di api sui difensori.

Settimio Severo dovette fare i conti con gli scorpioni lanciati sui suoi legionari dalle mura della fortezza mesopotamica di Hatra.

Annibale, come ci attesta la vivace prosa di Cornelio Nepote, sconfisse la flotta del re di Pergamo Eumene, assai più potente di quella punica, gettando sulle navi nemiche vasi di terracotta colmi di serpenti velenosi: lo scompiglio causato tra i rematori della flotta avversaria gli garantì un inaspettato successo.

E che direi dei cani da combattimento?

Si racconta che i perros utilizzati dai Conquistadores con effetti micidiali contro i nativi indo-americani fossero nutriti con carne umana, ma si tratta dell’ennesima leyenda negra.

Per altro già le legioni di Roma avevano efficacemente fatto ricorso a branchi di aggressivi molossi, secondo una pratica forse ereditata dai Celti.

Infine, a ben vedere anche il binomio uomo-cavallo, prima di essere un fondamentale archetipo sociale e istituzionale della storia dell’Occidente, ha rappresentato un possente dispositivo bellico.

Se dunque la cibernetica è la cifra autentica dello Zeitgeist del XXI secolo, non stupisce il fatto che la de-umanizzazione della guerra passi attraverso microchip, sistemi informatici e reti digitali anche se, come testimoniano i delfini e i leoni marini infaticabili custodi delle maggiori installazioni dell’US Navy, la transizione non è ancora terminata.

La criticità di questa parabola tecnologica non sta nella de-umanizzazione della guerra, quanto piuttosto nella sua radicale disumanizzazione.

Il punto, cioè, è capire quali ripercussioni avrà cedere i campi di battaglia alle intelligenze artificiali sull’etos dei combattenti, sul modo in cui percepiscono (e rappresentano) sé stessi e i loro nemici.

Pura accademia?

Tutt’altro, si tratta di interrogativi che l’ampio ricorso ai droni rende drammaticamente attuali.

E che le criticità non mancano lo testimoniano reportage come quello, lucidissimo, di William Langewiesche relativo alla Hollomann Air Force Base, il centro di addestramento per gli operatori di droni da combattimento quali il Reaper e il Predator.

Le attuali procedure operative prevedono che il veicolo sia pilotato da basi distanti migliaia di chilometri, là dove il pilota e l’addetto ai sistemi d’arma, seduti dietro ad una console e circondati da schermi, sono immersi in una sorta di realtà virtuale: le immagini sul video sono stilizzate, rarefatte, totalmente decontestualizzate.

Siamo ai confini del videogame e non è un caso che gli addetti al reclutamento siano alla disperata ricerca di geek smanettoni, abituati a passare lunghe ore davanti all’Xbox o alla Playstation.

La sensazione di irrealtà è assoluta e spiazzante: questi specialisti hanno il compito di pilotare il velivolo per lunghe ore tra le valli dell’Hindu Kush perlustrando il terreno sottostante, agganciare i bersagli con il puntatore laser e quindi, una volta ricevuta l’autorizzazione del comando operativo, lanciare un missile guidato Hellfire. Dopodiché, terminato il turno di servizio e bevuto un caffè allo spaccio della base, si prende il bus e si fa ritorno a casa.

Davvero uno strano modo di fare la guerra: non è un caso che gli operatori dei droni con buona dose di autoironia si autodefiniscano combat commuters, pendolari da combattimento.

Si potrebbe obiettare che qualsiasi conflitto armato presuppone la disumanizzazione dell’avversario.

Da Konrad Lorenz a Irenäus Eibl-Eibesfeldt l’etologia, esaminando quella pratica precipua dell‘Homo sapiens che è il conflitto bellico, ha messo in rilievo un fatto fondamentale: ovvero che la guerra si fonda su di un meccanismo di pseudospeciazione culturale.

In sostanza, fattori come la lingua, la religione, l’identità comunitaria sono capaci di azzerare nell’uomo quei meccanismi inibitori che negli altri primati superiori consentono di vincolare l’aggressività intraspecifica, arrestandola prima che causi l’uccisione del simile.

E questo azzeramento è possibile proprio in virtù dei processi di differenziazione attivati dai processi culturali, attraverso cui il nemico è avvertito come appartenente ad un’altra specie e, pertanto, può essere soppresso.

Se la spiegazione offerta dall’etologia è plausibile, se a partire dai tempi in cui Achille ed Ettore si affrontavano davanti alle mura di Ilio la guerra è stata l’esito di un processo di pseudospeciazione, i LAWS, però, rappresentano un paradigma assolutamente inedito.

Nella guerra digitale, infatti, il nemico subisce una degradazione ulteriore, una disumanizzazione estrema che lo riduce a impulso elettronico, a macchia colorata su di uno schermo, a icona di un tragico videogioco.

Possiamo interrogarci sulla rivoluzione militare innescata da questi sistemi d’arma, su scenari operativi e su opzioni tattiche fino a poco tempo assolutamente fantascientifici. Abbiamo però una certezza, ovvero che le prossime generazioni di LAWS daranno un nuovo significato al concetto di inimicizia.