Il settore

Democrazia Futura. Un modello Ginevra per l’industria creativa europea

di Piero De Chiara, già dirigente Olivetti, Telecom Italia e La Sette e consulente AGCOM |

Guardare oltre il monopsonio delle piattaforme OTT. Per inventarsi un suo spazio, un’impresa europea dovrebbe proporre ai suoi fornitori un modello diverso da quello americano e cinese: condivisione dei dati e messa a disposizione di algoritmi e di potenza di calcolo.

Prosegue il dibattito di Democrazia futura sulle conseguenze della pandemia l’industria dell’immaginario Una nota di ottimismo viene dall’articolo di Piero De Chiara che invita a “Guardare oltre il monopsonio delle piattaforme OTT”, proponendo “Un modello Ginevra per l’industria creativa europea”. La buona notizia è che l’industria audiovisiva è “un settore per chi opera su scala mondiale ancora in crescita”. La cattiva notizia è che tale partita non è alla portata di imprese e nazioni di dimensioni medie. Di qui l’invito alle tv commerciali a “sganciarsi dai confini linguistici” in cui continuano a rimanere prigioniere e a “creare un polo europeo che offrirebbe agli investitori il maggior numero di contatti pubblicitari in quello che è, per ora, il più grande mercato del mondo”, al servizio pubblico a perseguire un “finanziamento collegato a obiettivi misurabili”, in primis la coesione sociale e la diversità culturale. De Chiara considera che la “frantumazione sociale, che riflette e amplifica l’aumento delle diseguaglianze, è il principale problema dei paesi democratici”. Per questo un “’indice di coesione sociale può servire a valutare gli investimenti realizzati attraverso fondi pubblici”. “Il secondo problema che la sola iniziativa privata non risolve ma aggrava è la diversità culturale, intesa sia come contributo di diverse culture linguistiche, sia come autonomia ed equa remunerazione dell’attività creativa. La diversità culturale necessita di una politica industriale pubblica sovranazionale, con obiettivi realistici e adeguati investimenti di lungo periodo [il che] può essere perseguito “attraverso la valorizzazione di un marchio europeo”. In conclusione perora la causa di “un’azienda comune europea dotata di una propria piattaforma e potenza di calcolo condivisa […] Per inventarsi un suo spazio, un’impresa europea dovrebbe non solo individuare un target mondiale aggredibile tra cultura e intrattenimento, ma proporre ai suoi fornitori un modello diverso da quello americano e cinese: condivisione dei dati e messa a disposizione di algoritmi e di potenza di calcolo, affinché i produttori, gli autori e le maestranze possano fare prodotti sempre migliori e ambire a una maggiore quota dei ricavi. Una dimensione europea per negoziare le regole di accesso alle piattaforme e ai dati, verso un modello produttivo e distributivo equo e sostenibile”.

Piero De Chiara

L’industria dell’audiovisivo. Un settore per chi opera su scala mondiale ancora in crescita

La buona notizia è che l’industria audiovisiva, nel mondo, cresce in termini economici e di influenza nella vita delle persone. Da decenni la crescita è più che doppia di quella del PIL, ancor più dopo la crisi del 2008 e quella del 2020. L’intrattenimento audiovisivo cattura ormai più tempo del lavoro e poco meno del sonno; assorbe tre quarti della rete internet; ridefinisce il ruolo delle nazioni sulla base della loro capacità di produrre immaginario e di proporlo al resto del mondo. I mercati finanziari se sono accorti e iniettano nel settore ingenti investimenti. Cresce veloce non solo la capitalizzazione di nuove imprese focalizzate come Netflix, non solo quella di grandi imprese del settore che riescono ad adattarsi, come Disney; ma anche le stesse Google, Amazon, Facebook, Apple, finora percepite come industrie tecnologiche, riorientano verso l’industria creativa una quota crescente della loro illimitata capacità di investimento.

Come l’Europa può superare il ritardo subito dalle imprese e nazioni di dimensioni medie

La cattiva notizia è che questa partita non è alla portata di imprese e nazioni di dimensioni medie.I paesi europei, nonostante siano quelli che proporzionalmente indirizzano più risorse pubbliche a sostegno del cinema e della tv, perdono terreno nell’arena mondiale: in particolare l’Italia ha dimezzato la sua quota di export in soli venti anni. Ma prima di abbozzare le caratteristiche di un progetto europeo con adeguate economie di scala, vediamo quali sono le più interessanti strategie di sopravvivenza dei principali attori europei in campo. Per affrontare la sfida al livello più alto non basta una visione e una ambizione adeguata, occorre anche fare i conti con i i pezzi di cui si dispone, per quanto arrugginiti essi siano.

Alcune delle televisioni in chiaro finanziate dalle pubblicità tentano di costruire un polo europeo che offrirebbe agli investitori il maggior numero di contatti pubblicitari in quello che è, per ora, il più grande mercato del mondo. Una concentrazione difensiva, che nel breve periodo ha senso, ma che va per le lunghe per le velleità di comando di Fininvest e Vivendi e le illusioni di autosufficienza di TF1, RTL e ProSiebenSatEins. I rispettivi governi farebbero meglio a spingere perché l’operazione si realizzi in tempi utili, anziché difendere gli azionisti delle rispettive imprese nazionali, contribuendo alla paralisi talvolta con interventi legislativi improvvisati Se la televisione commerciale in chiaro riuscirà a sganciarsi dai confini linguistici può tornare competitiva nel mercato pubblicitario dei prodotti di largo consumo.

Può inoltre difendere un ruolo forte nell’acquisto e produzione di eventi in diretta. Lo sport, i quiz e talent show, gli spettacoli culturali, in qualche misura la stessa informazione, sono stati sinora protetti da barriere nazionali e tecnologiche che stanno cadendo.

La battaglia per i diritti sportivi, gli eventi musicali e i format per quiz, show e le incognite per la fiction

Il broadcasting via etere terrestre e satellitare resterà per sempre il miglior mezzo di diffusione di eventi fruiti in simultanea da un pubblico molto largo, perché ogni utente aggiuntivo non rappresenta un costo marginale per la rete. Per lo streaming invece ogni utente in più determina un costo, sia a livello di server che di istradamento; ciò nonostante in molte aree territoriali lo streaming è già oggi affidabile, se si connette simultaneamente meno di un decimo della popolazione.

Guardiamo, ad esempio, a quello sta succedendo nella distribuzione degli eventi sportivi. Le prossime due edizioni dei Giochi Olimpici sono state acquistate dal gruppo Discovery che ha poi offerto alle televisioni nazionali poche centinaia di ore dei soli diritti broadcasting ossia sui canali televisivi lineari in chiaro. Le altre migliaia di ore andranno in onda, in esclusiva, su Eurosport via satellite e digitale terrestre. In streaming (televisori connessi, pc, tablet e, quel che più conta, smartphone) tutti gli eventi saranno trasmessi in esclusiva da Eurosport player, che ambisce a diventare la piattaforma dominante per lo sport, battendo la concorrenza di Sky now, DAZN, ESPN e Facebook. Non sappiamo se sarà una concorrenza nel mercato o per il mercato, se ne resterà uno solo e chi; ma questo è il livello dello scontro.

Qualcosa di analogo avverrà per gli eventi musicali. La musica, d’altronde, è stata la prima industria distrutta e ricostruita dallo streaming, con un oligopolio fondato su un uso massiccio di dati e sistemi di raccomandazione. Quiz e talent show sembrano meglio protetti dalle barriere linguistiche, ma investimenti e valori si sono spostati più sui format internazionali che sulle edizioni locali. In tutti questi campi legati ad eventi in diretta, i broadcaster commerciali sono leader e possono continuare a esserlo solo se avranno la capacità di investire molti miliardi, per svariati anni più di quelli che possono rientrare con la vendita di spazi pubblicitari.

Molto più difficile per le televisioni in chiaro è diventare competitive nelle serie sceneggiate, i cui costi di produzione, così come per il cinema, devono essere coperti prevalentemente da abbonamenti o acquisti in un mercato che non ha più barriere linguistiche. Per i prodotti di alta fascia, quelli decisivi, il costo medio per ora prodotta è sopra i 5 milioni medi, con punte oltre i 10 milioni; e non c’è limite a questa escalation. Alcune televisioni commerciali (come Antena 3 in Spagna e Channel 4 nel Regno Unito) hanno dimostrato una brillante capacità ideativa e produttiva, ma hanno dovuto cedere a piattaforme a pagamento le stagioni successive delle serie da loro create suscettibili di sfruttamento internazionale (la casa de papel, black mirror…); altre (Mediaset, ITV, RTL) hanno tentato con scarso successo di acquisire o esternalizzare la produzione seriale.

Un finanziamento collegato a obiettivi misurabili per le imprese di servizio pubblico

In Europa, in Cina e in Giappone una parte rilevante della televisione in chiaro è costituita da imprese pubbliche, incaricate dai rispettivi governi di svolgere un servizio pubblico, i cui obiettivi sono spesso generici e retorici. Il finanziamento del servizio pubblico varia molto da paese a paese, ma la tendenza dei governi è verso un contenimento, sia per le resistenze dei contribuenti, sia per la progressiva riduzione del ruolo della televisione pubblica nel formare l’opinione degli elettori. Il principale problema delle aziende pubbliche è l’assenza di obiettivi misurabili e collegabili alle risorse assegnate.

Nessuna impresa può funzionare in assenza di obiettivi misurabili e collegati a incentivi economici. Per i servizi pubblici a cui è consentito raccogliere pubblicità, (anche se in misura ridotta rispetto alle televisioni commerciali in chiaro), questa condiziona la programmazione, perché costituisce l’unico incentivo variabile, a differenza del canone contrattato con il governo su base poliennale senza indici di verifica dei risultati. I servizi pubblici privi di pubblicità storicamente hanno un canone più alto, ma che resta da decenni sostanzialmente stabile, ormai inadeguato a un mercato sempre più globale e competitivo.

La distribuzione multipiattaforma e multidevice, aumenta la concorrenza e i costi di produzione e di acquisti diritti. La forbice continua ad aprirsi e ormai non è più questione di qualità del management o di autonomia della governance; nessun servizio pubblico riesce a mantenere le posizioni conquistate in altri contesti di mercato. Prima o poi i governi dovranno decidere se continuare ad accompagnare un inesorabile ridimensionamento oppure definire obiettivi misurabili e collegati ai finanziamenti pubblici proporzionati.

Quali possono essere obiettivi di interesse pubblico misurabili? E quanto valgono? Quali sono oggi i fallimenti del mercato? In questo periodo (per tutti gli anni Venti, almeno) i principali problemi che l’iniziativa privata non risolve, ma anzi aggrava, sono due: la coesione sociale e la diversità culturale.

Le logiche pubblicitarie premiano i programmi che si rivolgono a target precisi, distinti per età, livello di reddito e istruzione, valori e stili di vita. Streaming e On demand portano all’estremo questa tendenza. Genitori e figli, nonni e nipoti non vedono gli stessi programmi. I laureati non conoscono quello che piace ai meno istruiti e viceversa. Una parte della popolazione ha fiducia assoluta nella scienza, un’altra sospetta imbrogli interessati.

Questa frantumazione sociale, che riflette e amplifica l’aumento delle diseguaglianze, è il principale problema dei paesi democratici.

Il valore dell’indice di coesione sociale per valutare gli investimenti realizzati attraverso fondi pubblici

Produrre programmi che creino coesione sociale costa di più e rende di meno che produrre per target definiti; non si deve quindi pretenderlo dai privati, ma dal servizio pubblico (come argomenta Andrea Melodia in questo stesso numero di Democrazia futura). Si tratta quindi di definire una metrica, gli obiettivi e le risorse pubbliche necessarie.

Quanto agli strumenti di misurazione è stato sperimentato un indice di coesione sociale basato sulle fasce auditel di età, genere, reddito, istruzione, densità abitativa, composizione del nucleo familiare; con la diffusione dei televisori connessi si potranno utilizzare anche dati comportamentali anonimizzati.

Le risorse, indicizzate all’inflazione, dovrebbero poi riflettere gli incrementi o decrementi realizzati anno per anno, imponendo così una drammatica torsione al funzionamento aziendale in tutti i settori. Ad esempio nello sport giustificherebbero gli investimenti nei diritti per le olimpiadi, mondiali ed europei specie per le nazionali negli sport di squadra, i più adatti a creare coesione sociale di genere; nell’informazione limiterebbero l’attuale tendenza ai telegiornali dagli anziani per gli anziani, rivalutando temi quali gli esteri o l’ambiente ai quali sono più sensibili i giovani; nell’intrattenimento e nelle fiction nazionali consentirebbero a una sintesi, sempre più difficile e costosa, tra qualità e popolarità.

Ovviamente si possono proporre e discutere altri obiettivi o altre metriche; ma nessuna impresa pubblica ha senso se ha gli stessi obiettivi incentivanti di quelle private o, peggio ancora, se non ha incentivi collegati ad obiettivi misurabili, che sono, persino più della governance, la vera tutela dell’autonomia da pressioni indebite.

Combattere l’inadeguatezza delle imprese europee alle sfide del mercato globale dell’audiovisivo  promuovendo le nostre diversità attraverso la valorizzazione di un marchio europeo

Il secondo problema che la sola iniziativa privata non risolve ma aggrava è la diversità culturale, intesa sia come contributo di diverse culture linguistiche, sia come autonomia ed equa remunerazione della attività creativa. A differenza della coesione sociale, che può in questa fase essere affrontata a livello nazionale, la diversità culturale necessita di una politica industriale pubblica sovranazionale, con obiettivi realistici e adeguati investimenti di lungo periodo.

Il campo decisivo oggi è la produzione e distribuzione di film per la televisione e di serie televisive capaci di conquistare un pubblico mondiale. Per entrare nel mercato della distribuzione on line, occorre investire 10 miliardi l’anno, per 10 anni. Questo è l’ordine di grandezza che hanno messo a disposizione imprese come Amazon, Disney, Google, Apple, le quali hanno deciso di non accettare il rischio di un monopolio Netflix nella distribuzione mondiale del prodotto audiovisivo. In quasi tutti i settori dell’economia digitale, la concorrenza dura poco e in breve il vincitore prende tutto, creando dei quasi monopoli mondiali, appena arginati dalla grande muraglia cinese. Così è per le ricerche on line, per gli acquisti, per i social network. Nessuno sa se, anche in questo caso, è appena iniziata una competizione, breve preludio a un quasi-monopolio, oppure se stavolta si creerà un oligopolio, ciò che sarebbe meno peggio.

Non c’è nessun paese e nessuna impresa europea che abbia le tasche e la credibilità per sedersi a questo tavolo.

Ormai neanche una nuova impresa, adeguatamente finanziata e supportata dai governi di Germania, Francia, Spagna, Italia e Scandinavia potrebbe competere sull’insieme di questo mercato; ma nell’ ampio spazio a cavallo tra intrattenimento e cultura potrebbe ambire a essere, se non monopolista, leader mondiale. I nuovi pubblici mondiali sui loro schermi distinguono sempre meno i prodotti francesi da quelli italiani e tedeschi, ma hanno ancora un immaginario segnato dal marchio europeo. Marchio è la parola giusta, nel suo doppio significato di orrori coloniali e di certificato di garanzia di valori, stili di vita, cultura e civiltà. Questo marchio che ci viene riconosciuto dal resto del mondo può essere trasformato in valore anche economico.

Un’azienda comune europea dotata di una propria piattaforma e potenza di calcolo condivisa

Non si tratta di partire solo da una piattaforma di distribuzione proprietaria, che pure è utile. Ancor più importante è che questa nuova impresa europea voglia essere leader almeno nei sistemi di intelligenza artificiale che studiano la reazione dei grandi pubblici e dei micro-target alle varianti di regia, sceneggiatura, recitazione e raccomandano i prodotti audiovisivi. Oggi l’intelligenza artificiale nell’industria creativa è usata prevalentemente nei sistemi di raccomandazione e in misura crescente nella ottimizzazione della filiera produttiva; si analizza il rapporto tra costo di produzione dei diversi produttori e autori mondiali e la loro resa in termini di fidelizzazione degli abbonati. Si sperimenta il passo successivo che consiste nell’utilizzo dei dati per suggerire, poi imporre, ad autori e produttori, le soluzioni che massimizzano l’engagement. È lecito nutrire dubbi sulla compatibilità di questo modello con la libertà e la varietà della creazione artistica, ma i mercati finanziari non hanno questi dubbi e valutano oltre un miliardo l’algoritmo di raccomandazione di Netflix e spostano i capitali su chi dimostra di avere più dati e maggiore potenza di calcolo.

Per inventarsi un suo spazio, una impresa europea dovrebbe non solo individuare un target mondiale aggredibile tra cultura e intrattenimento, ma proporre ai suoi fornitori un modello diverso da quello americano e cinese: un modello fatto di condivisione dei dati e di messa a disposizione di algoritmi e di potenza di calcolo, affinché i produttori, gli autori e le maestranze possano fare prodotti sempre migliori e ambire a una maggiore quota dei ricavi. Modello da estendere non solo ai produttori europei, ma anche a quelli degli altri paesi, soprattutto quelli emergenti, che vanno strappati al monopsomio americano, offrendo loro una più equa condivisione dei rischi, dei ricavi e dei dati. Se il provincialismo del made in Italy è ridicolo, anche quello del made in Europe è perdente. Il marchio Europa si afferma solo se stavolta diventa sinonimo di un modello attrattivo e sostenibile anche per i non europei.

È lecito essere dubbiosi che questa impresa europea nasca in tempi utili. Talvolta l’Europa c’è riuscita, ad esempio nella ricerca fisica e chimica di base. Altre volte è arrivata tardi, come nell’industria aerospaziale, aumentando i costi e riducendo la quota di mercato aggredibile. In questo caso purtroppo il ritardo è inevitabile, se non altro perché questa impresa dovrebbe assorbire anche i finanziamenti ministeriali al cinema e i servizi pubblici televisivi europei, ciò che nessuno ha finora mai proposto. Eppure è l’unica cosa sensata da fare e non solo per evidenti economie di scala e di scopo. Anche il termine piattaforma è solo un buzz-word, una parola vuota di moda. La distinzione tra distribuzione lineare via etere e quella on line è destinata a sfumare, come sa Disney che sta ottimizzando il suo archivio, i suoi studios, la sua tv e la sua distribuzione on line e come sa, nel suo piccolo, la BBC con qualche speranza di successo nei documentari.

Una dimensione europea per negoziare le regole di accesso alle piattaforme e ai dati, verso un modello produttivo e distributivo equo e sostenibile

La regolamentazione comunitaria è la più avanzata del mondo con il GDPR e i recenti Digital Markets Act e Digital Services Act, ma può al più proteggere i consumatori, non i produttori europei. Anche Gaia-X, per ora è solo un buon protocollo per l’interoperabilità dei cloud, non una sfida industriale a Amazon, Google e Microsoft. L’investimento comunitario nei supercalcolatori (uno dei quali a Bologna) è invece un investimento prezioso per le imprese europee che sappiano sviluppare algoritmi propri. È come se l’Europa stesse apparecchiando un puzzle di cui non si vede il disegno, perché mancano i giocatori: le imprese, gli attori politici, i soggetti sociali.

Come si è visto a proposito delle imprese televisive pubbliche e private alcune trasformazioni sono possibili anche oggi a partire dai soggetti oggi esistenti a livello nazionale. Ancor di più a livello sociale, nel periodo più o meno breve, in cui si svolge la competizione tra giganti che poi finirà in un monopolio o in un oligopolio collusivo, cambiano i rapporti nella filiera, ciò che provoca conflitti e negoziati tra piattaforme, produttori, autori.

In questo momento decisivo i produttori, il lavoro creativo e quello tecnico, sono soli di fronte a imprese globali nei cui confronti non possono negoziare e non possono scioperare. Coordinando il lavoro italiano (o, ancor meglio, quello europeo) si può tentare di negoziare le regole imposte dalle piattaforme, sia quelle economiche, sia l’accesso ai dati. Non si tratta oggi di competere, ma sfruttare la competizione tra di loro, con una massa critica sufficiente per dire: se non accetti di contrattare le condizioni, io posso lavorare per il tuo concorrente. Poi ogni negoziato è basato su un conflitto e ogni conflitto ha dei costi. Ma solo nel conflitto/negoziato si chiariscono gli obiettivi.

Servono a poco i timidi tentativi abbozzati in Francia e ora in Italia per la distribuzione del prodotto audiovisivo nazionale. Il supporto dei governi, dei servizi pubblici e della commissione è invece urgente per consentire ai produttori, autori e lavoratori di dotarsi di modelli di misurazione e calcolo dei loro interessi, da confrontare con gli algoritmi disegnati per gli obiettivi delle piattaforme. Avranno così fatto un primo passo nel mondo della cosiddetta intelligenza artificiale per scoprire che esistono diverse soluzioni ottimali per diverse funzioni obiettivo e che per mediarle non può esistere un algoritmo, ma solo un negoziato tra diversi punti di vista.

Alla fine di questo percorso (che è più veloce di quanto possiamo immaginare) avremo qualche idea in più su quale può essere un modello equo e sostenibile per la produzione e distribuzione di prodotti audiovisivi. I giuristi la chiamano regulation by litigation, riferendosi solo al rapporto tra imprese, tribunali e successivo intervento del legislatore. Ma il soluzionismo legislativo è illusorio quanto quello tecnologico.  Solo un processo di apprendimento innestato nelle dinamiche sociali consente di capire come fare l’unica politica industriale possibile, con il marchio Europa, garanzia di creatività.