Mestieri

Democrazia Futura. Tra Scilla e Cariddi. Lo spazio stretto per una fabbrica delle notizie con professionisti qualificati

di Marco Mele, giornalista e saggista, esperto e analista dell’industria dei media |

La riorganizzazione dei gruppi editoriali nell’era dell’ingegneria dell’informazione. Aveva poi torto Nicholas Negroponte, a dire, molti anni fa, che il quotidiano di carta era uno strumento preistorico da riporre nel museo dell'umanità, accanto al torchio di Gutenberg?

Conclude il Focus di approfondimento Marco Mele che, analizzando “la riorganizzazione dei gruppi editoriali nell’era dell’ingegneria dell’informazione”, appurata la “fine della vecchia fabbrica delle notizie”, dopo aver rievocato le “ombre del passato” e “la ricerca disperata dell’editore puro”, si sofferma sulle “novità dei finanzieri del 2020”. Per Mele “La questione principale oggi, per i media e i mediatori, per gli editori e per i giornalisti, è la moltiplicazione siderale delle fonti e dei soggetti che le utilizzano e, contemporaneamente, la diversificazione dei ruoli e delle professionalità con le nuove “fortezze” dei dati e della capacità di elaborarli e renderli “leggibili”.

Marco Mele
Marco Mele

La fine della vecchia fabbrica delle notizie

Nell’ultima parte del ventesimo secolo la fabbrica delle notizie[1] è uscita dalla fase artigianale ed è diventata industria. Poi, è arrivato il digitale, è esplosa la Rete, è arrivato il citizen journalism, sono comparsi i Big Data. I servizi soppiantano i prodotti, l’utente finale entra nella fabbrica.

Aveva poi torto Nicholas Negroponte, vero negromante delle tecnologie, a dire, molti anni fa, che il quotidiano di carta era uno strumento preistorico da riporre nel museo dell’umanità, accanto al torchio di Gutenberg?[2] Le aziende editoriali sono anch’esse destinate ad essere riposte in qualche museo o nel portafoglio di qualche imprenditore che vende oggetti ed emozioni a domicilio, tanto per non fare nomi?

C’era una volta la ricerca disperata dell’editore puro: le ombre del passato…

Torna qui la vexata quaestio dell’editore puro. Che puro non è mai stato sino in fondo, occupandosi anche di altre cose  (Attilio Monti e il petrolio) e trattando sempre con la politica, anziché distanziarsene. Le imprese famigliari, in realtà, si sono a mano a mano tirate indietro dal settore mentre sono entrati in scene gruppi industriali (Fiat, Eni, Cir, Montedison, Caltagirone, la Confindustria per il Sole 24 Ore) e finanziari, con tanto di patti di sindacato, tutti intenti a nominare amministratori e direttori.

Abbiamo conosciuto un gruppo editoriale come quello del Corriere della Sera, acquistato prima dalla famiglia Rizzoli, a prezzo di un forte indebitamento e finito sotto il controllo di una loggia massonica (deviata?) implicata nei più loschi e sanguinosi affari di quegli anni; tutti, peraltro, anche oggetti d’informazione da parte del Corriere.

E non solo: Umberto Ortolani – indicato dalla Procura Generale di Bologna come uno dei quattro mandati della strage alla Stazione – è stato direttore dell’Agenzia Italia e presidente della Federazione della Stampa Italiana all’estero. Molti eventi dell’Italia del dopoguerra, del resto, restano ancora da spiegare e raccontare.

— e le novità dei finanzieri del 2020: il nuovo assetto proprietario de La Repubblica i nuovi mediatori e la leggibilità dei big data.

La manipolazione delle informazioni. Una vecchia questione con nuovi interrogativi

La Fiat, infine, ha conquistato La Repubblica, un’operazione che, fatta quindici anni prima, avrebbe fatto tremare Governo e Parlamento. Anche in questo caso, è la finanza a soppiantare un azionariato famigliare in disfacimento. L’immediato cambio di direttore del quotidiano romano ha confermato il passaggio di fase, da quotidiano “altro”, che si distingueva nel panorama informativo a quotidiano “moderato”, omologato, ma pur sempre urlato. E pensare che nel lontano aprile 1974 Gianni Agnelli dichiarò ufficialmente di non aver alcuna intenzione di comprare l‘Espresso; a luglio cederà ad Angelo Rizzoli la sua quota nel Corriere.

La questione principale oggi, per i media e i mediatori, per gli editori e per i giornalisti, è la moltiplicazione siderale delle fonti e dei soggetti che le utilizzano e, contemporaneamente, la diversificazione dei ruoli e delle professionalità con le nuove “fortezze” dei dati e della capacità di elaborarli e renderli “leggibili”.

Abbiamo vissuto due decenni accecati dall’ideologia” dicono alcuni. Cito dalla rivista Il lavoro dell’Informazione, diretta da Giorgio Grossi: “il destinatario dei messaggi [] il protagonista che è stato ed è spesso rappresentato come passivo e silenzioso, come oggetto di tutte le manipolazioni, come indifeso e disarmato ma … ” […] “che uso fa la gente dell’informazione? Come entra nel processo di produzione? Ci deve entrare direttamente e in prima persona? È vera o falsa l’immagine di un’informazione tutta diretta dall’alto e manipolata? Quali sono i limiti che già oggi la gestione dell’informazione incontra rispetto ai destinatari?”. Lo scrive Giovanni Bechelloni (3). Era il 1978. Non tutti erano poi accecati dall’ideologia […].

Si sono scoperti i giornalismi, i siti on line hanno presto rotto il cordone ombelicale con la versione di carta, hanno ingerito e masticato quantità industriali di dati, di notizie vecchie e nuove, hanno messo in piedi archivi, utilizzato in grande abbondanza foto e video. Con le notizie modificate in corso d’opera, 24 ore su 24. Altro che orario di lavorio su cinque giorni a settimana, altro che settimana “corta”.

Altro che contratto. Altro che gerarchie redazionali verticali che impediscono lavori di team tra giornalisti e altre professionalità. Cambiano le professionalità, ne arrivano di nuove. E cambia l’azienda che deve utilizzarle. Perché, come scriveva Angelo Agostini (ciao Angelo) nel 2004 nel suo Giornalismi, nome già significativo: “Mi capita da quasi quindici anni di formare giornalisti, I migliori hanno sempre avuto un dato in comune: sanno fare più di un mestiere” (4).

Nuovi mestieri dell’azienda editoriale e interrogativi inerenti alla profilazione dei lettori

Non basta più neanche quello, oggi. All’azienda editoriale, chiamiamola ancora così, servono mestieri e soggetti differenziati, figure che lavorino insieme in team ma ciascuna con proprie competenze specifiche. E’ la fine dichiarata dell’esclusività del lavoro giornalistico nel processo di produzione dell’informazione, dopo anni di delegittimazione tra veline, interviste “sdraiate”, titoli urlati, ma anche di giornalisti minacciati, intimiditi, uccisi mentre facevano il loro lavoro.

Il cambiamento, la mutazione prosegue. A Repubblica che sbandiera 34 newsletter, 200mila iscritti e 30mila streaming, risponde Michele Mezza con un post nel blog Infodem.it chiedendo al gruppo (e a ogni editore): “Come vengono profilati gli utenti? I dati sono di proprio esclusivo dominio o condivisi con Google e Amazon? Si utilizzando intelligenze artificiali che scelgono il momento, il social, la formulazione del titolo e la struttura semantica della notizia o no? Chi seleziona queste intelligenze? Figure della redazione o del management? La testata è proprietaria dei propri software o usa in appalto intelligenze, concedendo all’esterno i propri dati sensibili e quelli dei lettori […]?” (5).

Qui siamo arrivati al cuore della mutazione. Un cuore che pulsando produce lo spettro dell’automatizzazione delle funzioni di scrittura, processo in corso di sperimentazione e attuazione da parte del 64 percento delle testate europee; ovvero la tendenziale marginalità del lavoro giornalistico.

Tra Scilla e Cariddi. Lo spazio stretto per una fabbrica delle notizie con professionisti qualificati

Da una parte le aziende e i giornalisti hanno di fronte una Scilla composta da lettori che non sono più tali, agiscono in un ambiente fatto di post, di foto, di video, di scambi e di aggressioni, di falsi profili e notizie inventate a tavolino.

E’ mancata una riflessione storica e culturale sull’impatto e gli effetti – sul modo di pensare, di interagire, sui linguaggi parlati e scritti – della commercializzazione della televisione italiana (tutta, Rai in testa, non solo Mediaset). Giornalisti ed editori devono, sull’altro fronte, capire come affrontare la Cariddi dei politici che comunicano sempre più con gli elettori senza mediazioni giornalistiche, postando video da Facebook a Instagram.

Nessuna domanda scomoda (che, veramente, era rarissima; ma non si sa mai), solo autoproclamazione senza contraddittorio. Senza curare troppo l’estetica del video, come invece faceva Silvio Berlusconi, pioniere della comunicazione senza comunicatori ma con un solo Politico Comunicatore agli elettori.

L’automatizzazione della fabbrica delle notizie non è un fenomeno recente ma gli effetti si vedono solo ora

La fabbrica delle notizie si è moltiplicata, dispersa, automatizzata (metà dei post sui social, più o meno, sono scritti da macchine). E ha ridimensionato le aziende e i ruoli professionali che la presidiavano.

Occorre ripartire dalla realtà delle professioni coinvolte nella ricerca, elaborazione, rielaborazione e formati delle informazioni: web master, informatici, designer, analisti dei dati, comunicatori. E giornalisti, da formare e specializzare, abbandonando le nebbie del desk, che hanno inghiottito molti redattori, riducendoli ad aiuto-cuochi di roba precotta altrove. Scriveva Mauro Wolf, alla fine degli anni Ottanta: “Il lavoro redazionale si sta centrando su un’attività di assemblaggio, ripetitiva, che accentua l’omogeneità di una certa quota almeno dell’informazione giornaliera.”(6).

Certo. Andrebbero rifondati Ordine, Inpgi, Casagit (la più pronta ad adeguarsi alla realtà) e Fnsi, andrebbe ripensato l’accesso alla professione. Nuove infrastrutture (fibra ottica, 5G) porteranno ad una crescita esponenziale ulteriore di informazione e di notizie, o pseudo notizie, di video e di immagini lungo la rete, verso gli utenti e da questi ultimi ad altri utenti. Sarà l’ultima opportunità per arrestare l’attuale agonia ed avere aziende editoriali e giornalisti magari ridimensionati ma vitali e in grado di distinguersi nella melassa informativa.

Note al testo

(1) Riprendo il titolo del saggio di Vittorio Roidi, La fabbrica delle notizie. Piccola guida ai quotidiani italiani, Bari, Laterza 2001, 252 p.

(2) Nicholas Negroponte, Essere digitali,  Milano, Sperling & Kupfer, 1995. 257 p. Edizione originale: Being Digital, New York, Alfred Knopf,1995, 243 p.

(3) Giovanni Bechelloni, “La grande illusione” Il lavoro dell’informazione, Rivista trimestrale Milano, Edizioni Ottaviano 1978 I (1), marzo 1978, pp. 5-7.

(4) Angelo Agostini  Giornalismi, Media e giornalisti in Italia, Il Mulino, 2004, 240 p.

(5)Michele Mezza, “Intelligenza artificiale: così l’irruzione in atto nei processi dell’informazione”, Infodem.it. Informazione e democrazia, 31 dicembre 2020. Cfr. http://www.infodem.it/teatrino.asp?idn=6032

(6) Mauro Wolf, “Qualche riflessione sui telegiornali”, in Giovanni Celsi, Rodolfo Falvo (a cura di) I mercati della notizia. Giornalisti e informazione nella condizione post-moderna, Roma, Quaderni della Fondazione Adriano Olivetti 1989, 196 p. [pp. 137-144].


[1] Riprendo il titolo del saggio di Vittorio Roidi, La fabbrica delle notizie. Piccola guida ai quotidiani italiani, Bari, Laterza 2001, 252 p.

[2] Nicholas Negroponte, Essere digitali,  Milano, Sperling & Kupfer, 1995. 257 p. Edizione originale: Being Digital, New York, Alfred Knopf,1995, 243 p.