Riflessioni

Democrazia Futura. Serve davvero all’Italia il Trattato del Quirinale? (Parte Terza)

di Giulio Ferlazzo Ciano, dottore di ricerca in storia contemporanea |

La tentazione neo bonapartista di Macron ostile ad un accordo triangolare con la Germania: la terza parte dell'analisi per Democrazia Futura di Giulio Ferlazzo Ciano del trattato del Quirinale tra Italia e Francia sottoscritto a novembre 2021.

L’analisi del Trattato del Quirinale si conclude con una lunga disamina del testo del Documento approvato non senza evitare di evidenziare quelle che Ferlazzo Ciano chiama “I rischi connessi alla politica estera comune nel Bacino del Mediterraneo” nonché “Il rischio di subordinazione militare e politica” dell’Italia da parte della Francia”, “Il rischio di subordinazione economico finanziaria” denunciando infine “L’anomalia di un trattato bilaterale molto impegnativo fra Paesi membri dell’Unione Europea. La triangolazione improbabile con la Germania e la ritrosia di Macron a rinunciare al ruolo di arbitro fra Roma e Berlino”Nei prossimi mesi Democrazia futura aprirà un dibattito ospitando pareri diversi sul valore di questo trattato e sull’importanza degli interventi di “cooperazione rinforzata” bilaterale o multilaterale fra Paesi membri in seno all’Unione europea.

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5. Il testo del trattato.

5.1 L’irreversibilità degli effetti prodotti dalle disposizioni dell’accordo, in particolare nelle regioni di confine: la questione del bilinguismo 

Parte di questa risposta ce lo offre il trattato stesso. All’articolo 12, paragrafo 3, infatti, si legge: «Il trattato ha durata indeterminata, fatta salva la facoltà di ciascuna Parte di denunciarlo con un preavviso di almeno dodici mesi per via diplomatica…Tale denuncia non mette in causa i diritti e gli obblighi delle Parti derivanti dai progetti avviati nel quadro del presente Trattato».

Se ne deduce che gli effetti pratici della stipula di questo accordo potrebbero non finire mai.

Possiamo ad esempio immaginare che alcuni accordi di natura economica potrebbero impegnare l’Italia, anche di fronte a un netto vantaggio competitivo per la Francia, persino ad anni di distanza da un’eventuale denuncia del trattato. Ci si potrebbe poi chiedere quali siano, oltre a quelli di natura economica, gli eventuali altri «progetti avviati nel quadro del trattato. Uno in particolare ci dovrebbe indurre a qualche riflessione, e si riferisce, a quanto si evince dalla lettura dell’articolo 10, alla “Cooperazione transfrontaliera”. È noto, e spero che si sia ben compreso, quanto l’amicizia francese abbia tenuto a preservare immutata la linea di confine comune che passa per le Alpi occidentali. E dunque, al paragrafo 1, ecco cosa si legge: «La frontiera italo-francese costituisce un bacino di vita interconnesso, in cui le popolazioni italiana e francese condividono un destino comune». In effetti accade spesso che ciò che si desidera avere senza poterselo permettere si chiede di metterlo in comune. Paragrafo 2: «Le Parti…sostengono i progetti che favoriscono l’integrazione di questo spazio». Si parla espressamente di integrazione, chissà a vantaggio di quale delle due Parti.

Ma a pensar male si fa peccato, pertanto poco più avanti è debitamente specificato che si tratta di un’integrazione «in linea con gli obiettivi dello sviluppo sostenibile [non sia mai che manchi l’ingrediente essenziale per rendere tutto più bello, buono e giusto: la “sostenibilità”] e con quelli della politica di coesione europea». Certo, per espugnare Troia serve sempre un cavallo di legno cavo. In questo caso lo si fascia con il vessillo blu con le dodici stelle dorate. E all’interno del cavallo, come doni nascosti, troverebbero spazio «la creazione di servizi pubblici comuni in materia sociale, sanitaria, ambientale, di energia, d’istruzione, culturale e di trasporti». Poco più avanti si legge (articolo 10, paragrafo 3): «Le Parti approfondiscono la loro cooperazione in materia di sicurezza, in particolare attraverso scambi di personale e favorendo la realizzazione di operazioni comuni o coordinate». Chiaro, si capisce: in pratica verrà insegnato anche alle nostre forze dell’ordine a respingere i migranti clandestini dai valichi della frontiera comune, non senza aver prima tagliato loro le scarpe a metà. Tale metodologia sostenibile, che esalta la dignità della persona ed è in linea con il rispetto dei diritti umani, così come enunciato dai trattati dell’Unione Europea, è regolarmente usata dalle autorità francesi sulla frontiera fra Mentone e Ventimiglia[1].

Ma c’è un punto che sta più a cuore a chi scrive e si tratta del paragrafo 5 di quello stesso articolo 10: «Le Parti favoriscono la formazione dei parlanti bilingue in italiano e in francese nelle regioni frontaliere, valorizzando in tal modo l’uso delle due lingue nella vita quotidiana». In parte questo paragrafo ricalca quanto già presente nella versione del 1963 del Trattato dell’Eliseo (Titolo II, sezione C Education et Jeunesse, articolo 1-a) ove si prevede, a livello di istruzione superiore, l’insegnamento pratico delle lingue francese in Germania e tedesca in Francia.

Sul trattato italo-francese si dice invece qualcosa di più, al di là di una simile disposizione contenuta all’articolo 8, paragrafo 2 («Al fine di favorire la diffusione e il reciproco apprendimento delle rispettive lingue, le Parti realizzano azioni di promozione linguistica e sostengono lo sviluppo dell’insegnamento della lingua italiana e della lingua francese nei rispettivi Paesi»). Si parla – è bene sottolinearlo – di parlanti bilingue in italiano e francese nelle regioni frontaliere. Non è un dettaglio di poco conto. Non si tratta, infatti, di generici inviti a favorire lo studio dell’italiano o del francese nelle scuole (peraltro, dominando ormai l’inglese come lingua franca, si potrebbe ritenere che tale dettato finisca pure per diventare lettera morta o avere ben scarso seguito), ma si tratta semmai di favorire una fascia di bilinguismo a ridosso del confine comune lungo le aree alpine. Quello stesso confine così faticosamente fissato sulla displuviale (o quasi) alpina.

Ora, noi tutti sappiamo che, al di là delle aspirazioni franco-italiane a stabilire un bilinguismo ufficiale, sulla base di quanto stabilito dal trattato del Quirinale, esiste anche un bilinguismo di fatto, prodotto dal lavorio plurisecolare della storia lungo le Alpi occidentali. Sfortunatamente questo bilinguismo ha interessato esclusivamente il versante italiano della catena montuosa, per ragioni abbastanza ovvie, data l’influenza della lingua francese incrementata nel corso dei secoli dall’incontenibile pressione transalpina sulle nostre frontiere naturali.

Era senz’altro più naturale aspettarsi che il francese si diffondesse sul nostro versante delle Alpi (tanto più che fino alla riconquista del ducato sabaudo da parte di Emanuele Filiberto, la capitale di quello Stato di trovava in terra culturalmente e linguisticamente francese, a Chambery) che non aspettarsi, al contrario, la diffusione dell’italiano sul versante opposto.

Infatti, stando a dati facilmente reperibili, possiamo affermare che in Italia, lungo la sua frontiera nordoccidentale, esistano già oggi qualcosa come poco più di 120-130 mila italiani per tradizione bilingui o parzialmente bilingui. La maggior parte di essi in Valle d’Aosta, già provincia del Piemonte costituitasi in regione a statuto speciale nel 1948 e che ha adottato ufficialmente il bilinguismo per tutti gli atti politici e amministrativi, oltre che sul versante dell’istruzione primaria e secondaria.

In più sopravvivono sacche di bilinguismo nell’alta val di Susa e nell’alta val Chisone, oltre che nelle estreme propaggini vallive a ridosso del confine francese nelle province di Torino e Cuneo.

Non è riscontrabile invece alcuna situazione simile al di là del confine francese. Anzi, a ragion veduta si può ben dire che persino la residua parlata italiana nella media e alta valle Roia, così come attorno a Mentone, Sospello e Nizza, sia stata progressivamente sostituita dal francese a partire dall’annessione del 1860 e per gli effetti del trattato di pace del 1947.

Se il paragrafo 5 dell’articolo 10 intende, almeno nelle sue intenzioni, riparare tale squilibrio favorendo un bilinguismo franco-italiano anche dall’altra parte delle Alpi, non è dato saperlo, ma di certo si può affermare che, partendo da queste basi e in mancanza di una normativa a tutela delle minoranze linguistiche (in Italia esiste la legge 482 del 1999, di analoghe leggi francesi ci interesserebbe saperne di più), si rischierebbe ulteriormente di favorire l’infiltrazione del francese nelle nostre valli alpine a scapito dell’italiano. E non dovrebbe troppo rasserenarci il fatto che nel cosiddetto Trattato di Aquisgrana (la versione aggiornata nel 2019 del Trattato franco-tedesco dell’Eliseo del 1963) si parli, nell’articolo 15, di introdurre anche nei territori frontalieri posti tra Francia e Germania «l’objectif du bilinguisme».

È chiaro infatti che questo nostro trattato parte da una situazione di squilibrio effettivo fra i due contraenti. Italia e Francia, sfortunatamente, non sono più due nazioni sullo stesso piano o quasi, anche dal punto di vista della diffusione della lingua.

La nostra lingua è già soccombente su tutti i fronti: è facile riconoscere come sia sempre più spesso maltrattata, sottoposta com’è a ibridazioni, sostituzioni e semplificazioni del vocabolario. Lingua sempre più destinata a essere relegata a forme colloquiali e del gergo familiare, perdendo posizioni in ambito professionale, culturale e formativo (alcune università italiane pretendono già oggi che le tesi di laurea o di dottorato siano redatte in inglese), oltre a dover fronteggiare l’invasione dell’inglese, l’italiano si ritrova a dover condividere il destino di quelle lingue che non hanno tratto beneficio dagli imperialismi continentali o coloniali, per cui oggi possiamo constatare che la lingua di Dante si parla solo in Italia e in pochi esigui territori limitrofi; a differenza del francese, pur in leggera regressione a causa dello strapotere dell’inglese, ma senz’altro molto più avvantaggiato dell’italiano sul campo internazionale.

Noi possiamo ben vantare che l’italiano sia la lingua che quasi tutti i musicisti classici e cantanti lirici imparano, la lingua che diversi studiosi e storici dell’arte vogliono conoscere, così come una sorta di lingua franca per il clero cattolico del mondo, talvolta studiata per vezzo culturale da certi intellettuali più originali e controcorrente, ma comunque sia è una lingua non ampiamente diffusa. Oltre che in Francia invece il francese si parla nel Quebec, nel Belgio vallone, in Lussemburgo e nella Svizzera romanda, realtà economicamente e culturalmente molto dinamiche e nelle quali vivono ben 14 milioni di individui francofoni. Per non parlare del centinaio di milioni di francofoni della Françafrique, almeno sulla carta.

Di fronte a questo evidentissimo squilibrio di peso linguistico (ancora una volta, diversamente da quanto avviene tra Francia e Germania, considerando che nella sola Europa centrale, numeri alla mano, coloro che parlano tedesco come prima lingua sono quasi il doppio di quanti parlino l’italiano), viene da chiedersi quale sarebbe il destino dell’italiano nella futura fascia bilingue transfrontaliera. Ubi maior minor cessat, sarà banale, ma è una legge di natura sempre valida. E di certo non sarebbe il caso di barattare una maggiore penetrazione del francese tra Piemonte e Liguria in cambio di un pugno di alcune migliaia di parlanti italiano tra Briançon, Mentone e Chamonix. Dovremmo stare ben attenti quindi a vegliare su questo punto perché, sempre in base al medesimo trattato, stando alle disposizioni (art.12, par.3) relative alla facoltà di denuncia dell’accordo, qualsiasi progetto avviato su questo fronte (per esempio l’estensione, a un maggior numero di comuni a ridosso del confine, della tutela linguistica sulla scorta della legge 482/1999 o un qualsiasi rafforzamento del bilinguismo già esistente in Valle d’Aosta) potrebbe dover essere garantito nella sua continuità senza alcun limite temporale. Rischieremmo così di ritrovarci a condividere una sovranità mista italo-francese, quanto meno sul piano linguistico, lungo tutta l’area alpina occidentale, così come già avviene nel condominio de facto italo-austriaco in Alto Adige.

L’articolo 9, paragrafo 1, enuncia: «Le Parti promuovono il ravvicinamento tra i loro popoli e un sentimento di appartenenza comune europea incoraggiando gli scambi all’interno della società civile e la mobilità dei giovani, sfruttando in particolare i programmi europei. Esse si dotano di una strategia comune al fine di incoraggiare l’impegno e la mobilità dei giovani italiani e dei giovani francesi, nel quadro della strategia europea per la gioventù e del dialogo strutturato europeo…».

Ancora una volta compare il cavallo di Troia. Sappiamo già di dover coltivare un artificioso sentimento di appartenenza comune europea, perché ribadirlo in un trattato che mira, al contrario e in contrasto con il tanto sbandierato sentimento di appartenenza europeo, al «riavvicinamento tra i [rispettivi] popoli»? Peraltro è interessante notare come si parli esplicitamente di “riavvicinamento” (rapprochement nella versione francese del testo), come se tali rapporti non fossero mai stati idilliaci, contraddicendo così il principio di amicizia ancorata nella storia.

In realtà, almeno in questo caso, se si parla di rapporti fra popoli, potremmo essere ben più ottimisti. In fondo, malgrado tutta la lunga sequela di soprusi perpetrati dai francesi in Italia, non si può certo dire che i due popoli si odino, anzi, al contrario: i francesi amano gli italiani e gli italiani talvolta egualmente amano i francesi, apprezzandone più spesso alcune caratteristiche. Non si vede tutto questo bisogno di “riavvicinamento”. Abbiamo già perdonato ai francesi una lunghissima lista di sgarbi, forse perché, molto banalmente, ce ne siamo anche già dimenticati, visto che studiamo pochissimo e male la storia del nostro Paese. Ma in ogni caso sono stati dimenticati e pertanto anche tacitamente perdonati.

5.2. Modesta proposta per un sincero riavvicinamento tra Francia e Italia

Dunque perché questo accento sul “riavvicinamento”? Se si trattasse di francesi e tedeschi in tal caso il “riavvicinamento” avrebbe potuto avere un senso e nel preambolo del Trattato di Aquisgrana si legge in effetti l’espressione «réconciliation entre les peuple français et allemand».

Forse è perché in cuor loro i francesi sono consapevoli di quanti danni, umiliazioni e raggiri abbia subito l’Italia per mano loro? Forse indirettamente hanno voluto comunicare di volersi scusare? Se così fosse avrebbero potuto farlo in forma più concreta. Non sarebbe stato male, ad esempio, se il presidente della Repubblica Francese avesse preparato un bel discorso, da leggere in occasione della firma a Roma del trattato, fra le cui righe, pur senza andare troppo nel dettaglio, si sarebbe potuto intuire che da parte francese era maturata una certa consapevolezza di quanto la Francia avesse influito, non sempre positivamente, sui destini e la storia d’Italia e che di questo la Francia del XXI secolo si sentiva in dovere di scusarsi. Scusarsi non costa nulla e sortisce sempre un buon effetto, perché di fronte a chi invoca il perdono siamo tutti inevitabilmente ben disposti.

Ciò detto, visto che tali scuse sarebbero state davvero una cosa da nulla, sarebbe potuto seguire un risarcimento più concreto, sebbene simbolico nella forma e nella sostanza, per esempio sul piano artistico e territoriale.

Per quanto riguarda le opere d’arte trafugate da Bonaparte e rimaste in Francia per motivi connessi alle serie difficoltà nel riportare indietro quelle di più grande dimensione senza danneggiarle ulteriormente, oppure perché abilmente occultate, si sarebbe potuto pensare da parte francese di riportarne indietro alcune, donandole all’Italia.

Per esempio (ma ognuno di noi potrebbe predisporre una propria personale lista) i 14 ritratti di uomini illustri dipinti da Giusto di Gand per lo studiolo del duca di Montefeltro, che meriterebbero di tornare a Urbino (al Louvre, dove sono oggi, posti nelle vicinanze di una scala, non li nota quasi nessuno); la Madonna della Vittoria, dipinta nel 1496 da Andrea Mantegna su commissione del duca di Mantova Francesco II Gonzaga per celebrare la vittoria dei collegati italiani a Fornovo contro il re di Francia Carlo VIII, la cui importanza simbolica è evidente; il grande telero delle Nozze di Cana dipinto dal Veronese, da esporre nel refettorio del monastero di San Giorgio Maggiore a Venezia, dove attualmente è presente una copia, molto realistica ma pur sempre una copia.

Per quanto riguarda il risarcimento territoriale avrebbero potuto essere riconsegnati quei territori che ricadono sul versante padano dello spartiacque alpino, sottratti all’Italia in forza del trattato di pace del 1947. Si tratta di zone pressoché disabitate, dunque non ci sarebbe stata neppure la necessità di sentire il parere degli abitanti.

Al contrario, sono aree dove ancora oggi i terreni privati e i pascoli appartengono a comunità e cittadini che risiedono nei paesi e villaggi limitrofi in territorio italiano e dove peraltro ricade un bacino idroelettrico che fornisce una parte dell’elettricità a Torino. Si sarebbe potuto dunque ripristinare la linea di confine in vigore fino al 1947 a ridosso di tre territori: l’altopiano del Moncenisio con il summenzionato bacino lacustre fino ai valichi del Moncenisio e del Piccolo Moncenisio; la valle Stretta, a ovest di Bardonecchia, fino alla rocca Chardonnet, estremo limite occidentale geografico della Penisola; infine, la vetta del monte Chaberton e il vallone del rio Secco, a ridosso del colle del Monginevro. Escludendo pertanto dalla restituzione i ben più vasti territori comunali di Tenda, Briga Marittima e le cosiddette “riserve reali di caccia” poste alle testate delle valli della Vesubia e della Tinea, aree cedute nel 1947 e che sarebbero da considerare come il vero indennizzo alla Francia per la nostra aggressione nel giugno 1940. Sarebbe stato anche il caso di porre fine alla pagliacciata del Monte Bianco, ammettendo che la cima più alta del massiccio, situata sulla displuviale, sia condivisa fra le due nazioni.

5.3 I rischi connessi alla politica estera comune nel bacino del Mediterraneo

A queste condizioni si sarebbe potuto credere che le intenzioni che hanno animato i compilatori francesi del trattato fossero genuine e che non vi fosse alcun proposito di stringere l’Italia nel solito soffocante abbraccio amichevole di cui la storia delle relazioni italo-francesi è piena.

Solo così si sarebbero potute leggere, senza più nutrire alcun sospetto malizioso, le disposizioni del trattato che stabiliscono una più stretta collaborazione fra le due nazioni in politica estera (articolo 1, paragrafi 1-6), senza temere che da parte del contraente più forte vi sia l’intenzione di spingere quello più debole a sottostare alle sue decisioni.

Nel paragrafo 3 dell’articolo 1, ad esempio, è scritto: «Riconoscendo che il Mediterraneo è il loro ambiente comune, le Parti sviluppano sinergie e rafforzano il coordinamento su tutte le questioni che influiscono sulla sicurezza, sullo sviluppo socio-economico…esse s’impegnano altresì a favorire un approccio comune europeo nelle politiche con il Vicinato Meridionale e Orientale».

Proprio per evitare che l’espressione approccio comune europeo non sia letta maliziosamente unicamente come approccio francese che, in forza dell’imposizione dei suoi obiettivi geopolitici all’Italia, finirebbe per diventare conseguentemente un approccio anche europeo, da parte francese sarebbe necessario far comprendere con atti concreti che non c’è e non ci sarà mai alcuna intenzione di ripetere gli errori commessi in passato nei nostri confronti e che, anche in un ambito così delicato come la politica estera mediterranea, dove spesso gli interessi dei due Paesi si sono trovati in collisione, esisterà sempre la volontà di convenire su una posizione comune concordata fra le parti, senza alcuna imposizione.

Insomma, niente più schiaffi o colpi di mano. C’è da crederlo?

Per crederlo vi è un ulteriore elemento da considerare: se è vero che il Mediterraneo può considerarsi per entrambe le nazioni «il loro ambiente comune» è tuttavia anche vero che per una delle due lo è ancora di più.

E questa non è certo la Francia, che sul Mediterraneo ha un affaccio, tutto considerato, abbastanza modesto e la cui unica profondità strategica in quel bacino è data dal possesso di un’isola, la Corsica, la quale peraltro ricade geograficamente (anche se non politicamente) nello spazio italiano.

È l’Italia, al contrario, fra le due ad essere la nazione più mediterranea, fino a spingersi nel cuore di quel mare, possedendo la Sicilia, che ne è una sorta di perno simbolico, guardando a Ponente dalle coste della Sardegna e a Levante da quelle della Puglia, mentre è attraversando ben 9 gradi di latitudine che la Penisola si spinge fin quasi a toccare le coste dell’Africa.

È sul Mediterraneo che affacciano alcune fra le più popolose città italiane (Napoli, Genova, Palermo) e sorge ad appena 20 chilometri da quello stesso mare anche la capitale d’Italia, una città di quasi tre milioni di abitanti. Si evince che le conseguenze della politica estera francese in questo spazio finiscono per avere una ricaduta immediata su di noi, nel bene, ma anche nel male.

Quindi ne deriva che, se proprio una fra le due nazioni volesse imporre all’altra i propri obiettivi e le proprie strategie in ambito mediterraneo, questa dovrebbe essere l’Italia. Potrebbe ciò mai avvenire? C’è da dubitarne.

5.4 Rischio di subordinazione militare e politica. La prospettiva di una nuova calata francese (concordata) in Italia?

Nell’articolo 2, paragrafo 7 si legge inoltre questa frase che fa sorgere ulteriori dubbi: «Le Parti si impegnano a facilitare il transito e lo stanziamento delle forze armate dell’altra Parte sul proprio territorio».

Questa è davvero una di quelle disposizioni che, più di altre, fa venire meno la fiducia nelle buone intenzioni della Francia. È un articolo degno dell’instaurazione di un protettorato, laddove si annuncia una reciprocità teorica che finisce per essere sempre smentita a livello pratico.

Ci si domanda infatti dove mai potrebbero andare le forze armate italiane sul territorio francese. Dove potrebbe servire la presenza delle forze armate italiane sul territorio della nazione meglio armata del continente e che non ha più nulla da temere dalla Germania? Non è forse più facile, vista anche la nostra posizione nel Mediterraneo, vero e proprio fronte del caos in questo inizio XXI secolo, e la nostra intrinseca relativa debolezza militare, che siano le forze armate francesi e dover transitare e stanziare sul territorio italiano? Si ripropongono i fantasmi delle tante gravose discese dell’esercito transalpino in Italia. Ci si potrebbe domandare quale delle due parti abbia voluto aggiungere una simile disposizione.

Se è vero che anche il trattato dell’Eliseo menziona un articolo di un simile tenore, è anche vero che in quell’articolo (Titolo II, sezione B Défense, articolo 2) si parla esclusivamente di formazione militare congiunta, per cui si prevedono in linea teorica «détachements temporaires d’unités entières». D’altra parte all’epoca c’era la Guerra Fredda e il pericolo che l’Armata Rossa potesse attaccare direttamente dal territorio dell’ex Repubblica Democratica Tedesca. Ma perché nel nostro caso dovremmo pensare a facilitare il transito (verso dove?) e lo stanziamento delle forze armate francesi sul nostro territorio? Non basta l’umiliazione di avere basi degli Stati Uniti d’America sul suolo italiano? Dovremmo forse un giorno ospitare anche quelle francesi? Ribadiamolo, che bisogno c’era e perché è stata aggiunta questa disposizione? Chi l’ha voluta fra le due parti e chi eventualmente fra gli italiani l’ha accettata a cuor leggero?

Il trattato rinnovato tra Germania e Francia nel 2019 non menziona neppure più i détachements temporaires d’unités entières; si enuncia semmai (art. 4-1) il principio della sicurezza collettiva e della reciproca assistenza in caso di aggressione armata contro uno dei due Paesi. E si parla (art. 4-3) di cooperazione fra le due forze armate in vista di operazioni congiunte. Indirettamente può senz’altro darsi che prima o poi sul suolo tedesco possano essere ospitate o possano transitare unità armate francesi, ma non è espressamente enunciato. E soprattutto in quel trattato non è enunciato il “transito”, solitamente connesso all’idea di una servitù militare che vede il Paese sottoposto al transito di truppe straniere in una posizione di debolezza e di costrizione.

Viene in mente il transito di forze tedesche sul suolo svedese nel 1940 e nel 1942.

Potrebbe invero anche trattarsi di truppe francesi che transiterebbero sul nostro suolo proprio per aiutarci a fronteggiare un attacco ostile, ma allora sarebbe bastato tradurre in italiano il testo dell’articolo 4-1 del trattato di Aquisgrana, oppure mantenere esclusivamente la disposizione del paragrafo 1 dell’articolo 2 del trattato del Quirinale che regola la politica di sicurezza e difesa comune, il quale, come per l’articolo 4-1 del trattato franco-tedesco, cita giustappunto il principio della reciproca «assistenza in caso di aggressione armata». Così com’è quel testo, invece, viene da pensare che nulla impedirebbe alle truppe francesi di attraversare il territorio della Penisola a fini strategici pur sempre concordati con noi, ma forse anche forzandoci un po’.

Nel preambolo del trattato del Quirinale è espresso l’auspicio di «favorire una migliore conoscenza reciproca delle…società civili, in un’ottica di cittadinanza europea, in particolare tra le giovani generazioni».

Bene, fuorché, ancora una volta, non sia questo un modo per far dimenticare agli italiani ciò che essi dovrebbero ogni tanto ricordare, onde evitare di rimanere ancora una volta di più vittime degli amichevoli abbracci della Francia.

In questo caso sarà senz’altro diverso e, al di là dello spazio di bilinguismo e del transito sul nostro territorio delle truppe francesi, si può credere che il trattato del Quirinale sarà stato ispirato dalle migliori intenzioni, tuttavia ci si può riservare il diritto di non fidarsi fino in fondo e di preferire che, invece di una migliore conoscenza reciproca, magari sulla base del reciproco apprendimento delle rispettive lingue, sia favorita una migliore conoscenza della storia delle due nazioni, così che ci si possa conoscere senza nascondere la polvere (e i torti) sotto i rispettivi tappeti.

Certe cose, al contrario, è bene farle conoscere anche alle giovani generazioni, le quali prima o poi dovranno vegliare, in veste di opinione pubblica, ma anche di futuri governanti, sul rispetto del trattato fra i due Paesi, evitando che questa “cooperazione rafforzata” non assuma col tempo le forme di un assorbimento (forzato) dell’Italia nella sfera di influenza francese.

5.5 Rischio di subordinazione economico-finanziaria. Una nuova campagna d’Italia incruenta e silenziosa alle porte

L’unico spazio per una simile forma di assorbimento delle prerogative sovrane è, al momento, l’Unione Europea e non certo uno dei Paesi che la compongono, anche se uno dei più forti e autorevoli.

Non ci dovrebbe essere spazio nell’Unione Europea per la costituzione di una fattispecie di grande Cecoslovacchia latina nella quale l’Italia assumesse le vesti della Slovacchia, anche se si trattasse di una grande Slovacchia bagnata dal mar Mediterraneo.

Non si dovrebbe pertanto mai neppure sospettare che le disposizioni contenute nell’articolo 1, relative alla politica estera concertata, siano volte a fondere in un tutt’uno, a scapito della stessa Unione Europea, le diplomazie dei due Paesi. Se nel paragrafo 2 di detto articolo si enuncia che le «Parti promuovono forme di cooperazione strutturata anche tra le rispettive missioni diplomatiche in Paesi terzi e presso le principali organizzazioni internazionali», non si dovrebbe temere nessun tentativo occulto di farci rappresentare, in futuro, dalla sola Francia presso quegli stessi Paesi terzi e quelle stesse principali organizzazioni internazionali. Tanto più che l’articolo 5 del trattato di Aquisgrana siglato tra Francia e Germania prevede delle condizioni senz’altro più vantaggiose per la Germania stessa, laddove si profila persino la possibilità di «échanges au sein de leurs raprésentations permanentes auprés des Nations Unies à New York, en particulier entre leurs équipes du Conseil de sécurité…», che renderebbe pertanto quel prestigiosissimo seggio permanente presso il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite quasi condiviso pariteticamente tra Francia e Germania, concetto peraltro ribadito anche nell’articolo 8 di quel medesimo trattato.

Per noi niente di tutto ciò. Solo generiche forme di “collaborazione strutturata”; sperando peraltro che rimangano generiche sul serio.

E, sempre a proposito di speranze, possiamo solo sperare che l’articolo 5, paragrafo 1, del trattato italo-francese, laddove è enunciato che le «Parti s’impegnano a facilitare gli investimenti reciproci e producono, in un contesto di bilanciamento dei rispettivi interessi, progetti congiunti per lo sviluppo di startup [a proposito del degrado della lingua italiana, nel testo francese il termine startup è reso con l’espressione entreprises innovantes, così che ancora una volta dimostriamo ai nostri vicini di non essere degni della loro ammirazione], di piccole e medie imprese (PMI) o grandi imprese dei due Paesi, favorendo le relazioni reciproche e la definizione di strategie comuni sui mercati internazionali, nel quadro di un’Europa sociale», ebbene si deve sperare che tale articolo non semplifichi la strada alla strategia degli acquisti francesi a danno della proprietà italiana delle imprese.

Se il richiamo agli investimenti reciproci e al bilanciamento dei rispettivi interessi può tranquillizzare l’italiano più malfidente, allo stesso tempo lo stesso malfidente italiano si può interrogare sul valore della parola bilanciamento. Bilanciamento su quale base? Il Prodotto Interno Lordo dei rispettivi Paesi, per esempio? Dio non voglia, in questo caso saremmo autorizzati ad effettuare in media 2 investimenti in Francia ogni 3 investimenti francesi in Italia, e lo stesso sarebbe se ci si parametrasse sulla base del valore delle rispettive bilance commerciali (valore dato dalla somma delle esportazioni e delle importazioni).

Speriamo che non sia così, dunque, e che bilanciamento significhi effettiva parità di opportunità.

Se poi, come già accennato (art.5, par.2), le allusioni relative all’«attuazione di un’ambiziosa politica industriale europea orientata alla competitività globale delle imprese» non nascondono, attraverso l’espediente del richiamo all’Europa, obiettivi più marcatamente nazionalisti, in questo caso di nazionalismo economico, meglio ancora, ma ci pare giusto poterne dubitare al fine di ricevere incontrovertibili rassicurazioni anche su questo fronte.

Abbiamo senz’altro da guadagnare, come Paese, da un più stretto legame fra le nostre due nazioni. Francia e Italia hanno già mostrato di saper cooperare insieme in modo proficuo ed efficace, senz’altro in ambito economico (andrebbe citato, come esempio virtuoso, il complesso industrial tecnologico italo-francese STMicroelectronics, colosso mondiale della produzione di componenti elettronici e semiconduttori indispensabili per l’industria elettronica, automobilistica e informatica, e si potrebbe anche guardare con ottimismo alla fusione delle case automobilistiche italiane e francesi che ha dato vita al gruppo Stellantis), ma anche e forse soprattutto nel campo della produzione culturale e artistica. Se questo è il destino comune al quale non possiamo sottrarci, ben venga. Con questo scritto si vuole tuttavia difendere un punto di vista opposto, premendo innanzi tutto di interrogare le coscienze di chi, fra coloro che condividono per nascita, discendenza e identità culturale, l’appartenenza a questa Penisola dalla storia antica e travagliata, ritiene che un simile destino comune debba anche per forza di cose accordarsi a una progressiva cessione di sovranità non tanto all’Unione Europea, quanto a uno dei suoi più influenti e potenti membri. Paese che, peraltro, come spero si sia riuscito efficacemente a rievocare, nella storia non sempre si è comportato nei nostri confronti con quell’attitudine, ora tanto sbandierata, di disinteressata e sincera amicizia.

Non possiamo neppure essere del tutto certi, visti i precedenti in ogni epoca storica e fino ai tempi attuali, che la Francia per una volta contraddica una certa sua tradizionale scarsa convinzione a mantenere la parola data e a rispettare gli impegni presi nei nostri confronti. Chi scrive non vorrebbe mai scoprire che questo trattato italo-francese possa rappresentare uno dei peggiori accordi internazionali mai sottoscritti nella storia della Repubblica Italiana, se non addirittura il peggiore. Il fatto poi che il trattato sia stato quasi ignorato dall’opinione pubblica italiana, essendo relativamente poco coperto dalla stampa e dall’intero complesso dell’informazione giornalistica fin dal giorno della sua firma, quando solo allora il contenuto è stato reso pubblico, non contribuisce a far venir meno la sensazione che si stia rischiando di ipotecare il futuro della nazione senza nemmeno aver avuto l’opportunità di discutere e dibattere sui vantaggi e gli svantaggi derivanti da questo accordo. Si ribadisce il convincimento che, nella malaugurata ipotesi che il trattato per la cooperazione rafforzata italo-francese, una volta divenuto pienamente operativo in seguito alla ratifica di entrambi i parlamenti, si rivelasse per l’Italia il peggiore affare della sua storia recente, ebbene a quel punto qualsiasi tentativo di riportare indietro le lancette dell’orologio sarebbe vano e non sortirebbe alcun effetto. Ci si ricordi della clausola contenuta nelle disposizioni finali (art.12, par.3) relativa agli obblighi delle Parti nei confronti dei progetti avviati nella cornice del trattato. E se poi scoprissimo di aver ceduto pezzi notevoli della nostra industria e della nostra finanza alla nostra ben poco affidabile vicina (almeno fino ad oggi), mai più potremmo anche solo pensare di tornarne in possesso.

5.6 L’anomalia di un trattato bilaterale molto impegnativo fra Paesi membri dell’Unione Europea. La triangolazione improbabile con la Germania e la ritrosia di Macron a rinunciare al ruolo di arbitro fra Roma e Berlino

Sarebbe poi senz’altro corretto domandarsi perché sia necessario firmare accordi di partenariato bilaterale così impegnativi con un unico Paese europeo quando esiste già la cornice di inclusione offerta dall’Unione Europea.

Se proprio ci si deve sciogliere come Stato indipendente e sovrano, tanto vale farlo sapendo che la nostra sovranità verrà divisa fra tutti e 27 i contraenti del patto di costituzione dell’Unione, dalla Finlandia a Cipro, dal Portogallo alla Romania, Francia inclusa.

Ma l’idea di cedere la maggioranza del nostro capitale economico, storico e culturale prima di tutto a un unico Stato, la Francia, che ha operato per secoli sul nostro destino di nazione un ruolo a dir poco esiziale, sarebbe davvero un atto beffardo del destino. L’ennesimo e forse anche l’ultimo della nostra storia di Stato indipendente.

Si può essere certi che Italia e Francia, all’interno della cornice europea, troverebbero senz’altro un accomodamento alternativo per confermare l’amicizia reciproca in modo più equo e per continuare a cooperare proficuamente come membri influenti dell’Unione Europea assieme agli altri Stati che la compongono.

Se è vero, invece, che all’Unione Europea dovrebbe stare più a cuore il mantenimento di un nucleo a tre formato da Francia, Germania e Italia, ebbene che senso avrebbe stipulare un accordo che, di fatto, porrebbe l’Italia tendenzialmente più vicina a uno solo dei tre?

Tanto più che non pare sia in programma la firma di un analogo trattato italo-tedesco che potrebbe così chiudere il lato scoperto di questo triangolo incompleto che si vorrebbe fosse anche equilatero.

Il 20 dicembre 2021 Mario Draghi e Olaf Scholz ne avrebbero accennato, ma in termini ancora assai vaghi. Non bastano infatti tre punti a formare un triangolo, serve anche tracciare sulla carta le linee che li uniscono e al momento queste linee sarebbero solo due, entrambe generate dall’angolo francese. Ed inoltre, al di là del triangolo, se fosse per la questione legata al negoziato del 2022 sul Patto di stabilità, perché l’Italia dovrebbe firmare un trattato così vincolante con Parigi per sincronizzare entrambe le posizioni? Non basterebbe concordare anticipatamente una strategia tramite dialoghi serrati fra i due governi e le rispettive diplomazie?

C’è bisogno di concordare anche la politica estera africana e mediterranea? Sperando peraltro che i compromessi raggiunti non siano (come si può temere che saranno) al ribasso per noi, in virtù dell’evidente asimmetria e disparità fra i due Paesi.

E c’è bisogno di concordare strategie industriali e finanziarie comuni sul lungo termine, assumendoci i rischi che ciò comporti una futura colonizzazione francese ai danni dell’industria e della finanzia italiana? C’è bisogno di promuovere il bilinguismo nelle regioni di frontiera? C’è bisogno di facilitare il transito e lo stanziamento delle forze armate di entrambi i Paesi sui rispettivi territori?

No, chi scrive ritiene che non ce ne sia bisogno. Altrimenti non avrebbe senso che esista un’Unione Europea, se poi si deve tornare a stipulare trattati bilaterali.

Tanto più se simili trattati sono stipulati trovandosi il nostro Paese in una condizione di oggettivo bisogno e difficoltà, aggravata dal fatto di rimanere soggetto alla volontà di un nutrito numero di Stati, alcuni addirittura di dimensioni demografiche e territoriali esigue, che pretendono di imporre anche all’Italia la loro visione del mondo, rigidamente allineata su posizioni ordoliberiste e austere, in virtù proprio della comune appartenenza a quella stessa Unione Europea.

Dunque sarebbe come ammettere che per sfuggire agli effetti collaterali dell’esistenza dell’Unione Europea ci si debba rifugiare in accordi bilaterali privilegiati con un suo influente membro, nel duplice ruolo di nostro protettore e fiancheggiatore, al fine di contrastare quelle politiche pensate ai nostri danni da altri membri di quella stessa Unione Europea. Un assurdo.

Ci si dovrebbe domandare, a questo punto, che senso abbia la stessa Unione Europea, se poi al suo interno si devono comporre triangoli (incompleti) perché non ci si fida gli uni degli altri e perché al suo interno esistono due posizioni egemoni che spingono l’una in direzione opposta all’altra. E se così fosse ci sarebbe da domandarsi ulteriormente: cosa sta succedendo realmente?

Ci si sta posizionando ai blocchi di partenza in vista di una partizione dell’Europa? Ipotesi forse stravagante al momento, ma chissà che questa Unione Europea, formatasi sulla suggestione di rifondare sul continente una versione liberaldemocratica dell’impero carolingio, anche questa volta non debba fare i conti con uno dei maggiori difetti di quell’impero, ovvero la sua breve durata. L’impero carolingio si spezzò di fatto in due e da quella partizione sarebbero emerse le nazioni francese e tedesca, storicamente in lotta per la loro egemonia in Europa e, sfortunatamente per noi, come corollario di questa tenzone continentale, in lotta per la loro egemonia anche in Italia.

Dio non voglia che sia così, ma se così fosse, ebbene sarebbe il caso di tentare di raccogliere disperatamente tutte le nostre forze e stare ad assistere a distanza allo scontro fra titani, senza lasciarci coinvolgere nelle loro beghe secolari.

Perché è chiaro che alla fine rischieremmo di rimanere lacerati da un simile conflitto, divisi come siamo da una faglia che ritaglia nello spazio italiano una Kerneuropa che comprende, nel suo nucleo di satelliti della Germania, anche la pianura Padano-Veneta, ma non il resto della Penisola, ben più appetibile invece per i piani mediterranei della Francia.

Tanto più che una lacerazione della Penisola, contesa in un conflitto di influenza economico-politica fra Germania e Francia, potrebbe produrre, in ragione di mai sopite tendenze centrifughe regionalistiche, anche un’ipotesi di vera e propria frammentazione o partizione politica.

È senz’altro la peggiore delle ipotesi, ma neppure un’ipotesi tanto peregrina. Vogliamo davvero, come Paese, imboccare questa strada, iniziando a prendere posizione per una delle due parti in modo tanto assertivo e vincolante, di fatto ipotecando il futuro dell’Italia a un’alleanza stretta con uno dei due contendenti?

Il prezzo da pagare potrebbe essere la nostra scomparsa come Stato nazionale.

Conclusioni

Crediamo infine davvero che legarci alla Francia attraverso relazioni speciali vincolanti servirebbe a rinforzare le nostre capacità di far fronte alle sfide del futuro? Oppure forse, come è più logico pensare, saremmo noi, attraverso il nostro atto definitivo di subalternità, a fornire una dimostrazione concreta al nostro speciale alleato di quanto esso sia forte e influente, così tanto da ambire ad essere il cuore pulsante e il baricentro dello stesso processo unitario europeo, tale da rendere la stessa Unione Europea il prolungamento del suo ego smisurato di nazione?

In altre parole, lo faremmo davvero per noi questo accordo o per loro, i nostri amichevoli cugini d’oltralpe? E possiamo dunque pensare che gli interrogativi sorti in Germania all’indomani della firma del Trattato del Quirinale siano malriposti?[2]

Certo, il dubbio che la Germania vi veda il rafforzamento di un blocco latino che renderebbe più arduo il ruolo moralizzatore finanziario tedesco è più che fondato[3] .

Tanto più che della firma di un analogo trattato tra Italia e Germania al momento è stata solo dichiarata una vaga intenzione per il futuro, peraltro immediatamente rintuzzata dal presidente francese Macron, che si è detto dubbioso sul funzionamento delle relazioni a tre, volendo evidentemente mantenere per la Francia il ruolo di perenne mediatore tra Italia e Germania.

Se la triangolazione tra Germania, Francia e Italia non vedesse la luce, magari proprio attraverso il sabotaggio francese, sarebbe lecito a quel punto domandarsi che senso avrebbe avuto formare con la Francia un blocco latino in grado di spingere la Germania a dubitare delle buone intenzioni del nostro Paese, vedendovi semmai l’ennesimo espediente per rifuggire dalle nostre responsabilità e ritardare di onorare i nostri impegni di finanza pubblica.

A rigor di logica la creazione di un blocco latino in seno all’Unione potrebbe persino pregiudicare i buoni rapporti franco-tedeschi, laddove venissero a rafforzarsi due blocchi di Paesi più saldamente legati alla Francia o alla Germania, tali da fare rinascere la competizione fra le due potenze continentali, così dannosa per l’Europa e per la stessa Italia. Come dire che per ottenere un vantaggio immediato e di breve durata (se mai in effetti si rivelasse un vantaggio) rischieremmo di produrre un danno grave e per un tempo prolungato.

Per tutte le ragioni sopra esposte, per la storia delle relazioni italo-francesi che ci induce ad essere molto prudenti, per i punti poco chiari emersi nel testo del trattato, per le sue ambiguità, per l’irreversibilità del processo una volta che sarà avviato e per i possibili rischi alla coesione interna dell’Unione Europea, varrebbe la pena di rifletterci ed eventualmente di ripensarci.


[1] Marco Imarisio, “Nel caos di Ventimiglia, tra bivacchi, ronde, proteste e l’ultimo migrante ucciso”, Corriere della Sera, 28 novembre 2021.

[2] Ne ha dato conto in Italia un articolo a firma di Beda Romano, “Trattato del Quirinale. Le reazioni della stampa tedesca, tra sufficienza e preoccupazione”, Il Sole 24 Ore, 27 novembre 2021.

[3] Dell’evocazione di un simile disegno si è scritto più approfonditamente su Limes, n.4/2021 (Pierre-Emmanuel Thomann, “Dateci l’Italia: il triangolo visto dalla Francia”, pp.75-82; Alexandre Kojève, “Progetto di una dottrina della politica francese”, pp.189-228). Inoltre: Bernard-Henri Lévy, “Perché a Macron serve l’Italia”, La Repubblica, 7 ottobre 2021.

Leggi anche:
Democrazia Futura. Serve davvero all’Italia il Trattato del Quirinale? (Parte Prima)
Democrazia Futura. Serve davvero all’Italia il Trattato del Quirinale? (Parte Seconda)