memorie

Democrazia Futura. Il monarca della Rai

di Licia Conte, scrittrice, giornalista e autrice radiofonica |

"Ricordo di Ettore Bernabei al mio concorso in pieno Sessantotto": il contributo di Licia Conte per la rubrica "Visti da vicino".

Licia Conte rievoca per Democrazia futura nella rubrica “Visti da vicino” il concorso in cui venne assunta alla Rai in pieno Sessantotto tratteggiando un “Ritratto di Ettore Bernabei” definito nel titolo come “Il monarca della Rai”.

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Licia Conte

Fa ancora, e sempre, notizia quel che accade dietro il cavallo di Viale Mazzini, ma pur se nel tempo si sono succedute personalità rilevanti alla guida del Servizio Pubblico radiotelevisivo, il re, una specie di monarca assoluto, è stato solo e soltanto lui: Ettore Bernabei. Poteva permettersi di dare una gratifica a un cameraman eccezionalmente bravo, ma che aveva trasgredito una sua precisa indicazione, e al contempo dirgli: “Non si permetta però mai più di disobbedirmi”. Quel cameraman si era trovato stretto tra due comandi: quello di un mitico direttore generale e  quello della propria straordinaria professionalità. Per fortuna obbedì a sé stesso e regalò a tutti, e per sempre, una grande pagina di televisione: un Papa affacciato alla finestra di una delle più belle piazze del mondo illuminata dalla  luna piena.

Non ho alcuna intenzione di raccontare la biografia di Ettore Bernabei.

Ettore Bernabei

Ne parlano tanti libri. E poi, basta andare su Google e digitare il suo nome: e via con wikipedia. Semmai, può essere interessante guardarlo da vicino con gli occhi di una donna non ancora trentenne. Si era nella primavera del 1968. Il ’68! l’anno in cui irruppe in Italia un forte vento di emancipazione giovanile.

Poco dopo ‘Valle Giulia’ e poco prima del ‘Maggio’ nel palazzo di vetro di viale Mazzini, nella saletta Santa Chiara una marea di uomini in giacca e cravatta, e molto autorevoli, esaminavano uno (o una) alla volta i nuovi possibili “corsari”. Non so quanti fossimo a sostenere quell’esame, ma certo agli scritti nell’autunno precedente ci eravamo presentati in oltre mille. Alla fine degli esami eravamo 59.

Io rimasi abbagliata dal palazzo di vetro, dal cavallo di Manzù, dal grande tavolo tondo intorno al quale almeno una dozzina di signori molto ragguardevoli si misero a conversare con me di tutto: della pace? di arte? di Gentilini? di Turcato? dello strutturalismo? e di un programma che si chiamava l’Approdo. Dissi che mi annoiava. Un signore molto cortese mi chiese come l’avrei fatto io. Non ricordo che cosa mi inventai.

Uscita dalla saletta, mi aspettavo di fare l’esame vero e proprio come all’Università. Mi dissero che avevo finito; l’esame c’era già stato. Qualcuno però mi avvertì che, avendo io criticato l’Approdo, non sarei stata assunta, dato che chi mi aveva interrogato era l’inventore del programma. Non fu così. Anzi, al contrario, gli ero andata a genio e fui mandata con gli altri 58 a Firenze per un corso professionale di 3 mesi.

Di concorsi come il mio ce ne erano stati precedentemente altri due: il primo, voluto da Filiberto Guala e diretto da Pier Emilio Gennarini, reperì 400 funzionari ai programmi fra oltre trentamila aspiranti: fra loro Umberto Eco e altri. Il secondo selezionò gente come Liliana Cavani, Enrico Vaime e altri.  

Ci fu gente di valore anche nel mio concorso.

Ma era il ’68. La Rai lo ignorava ancora, ma alcuni di noi, e non i peggiori, erano stati fra i protagonisti di Valle Giulia e altri stavano a Firenze ma con il cuore a Parigi, dove ormai c’era il Maggio, e dove loro si recavano nel fine settimana.

Altri ancora nelle sale della nuova sede di Firenze, si facevano beffe di autori famosi e registi, improvvisando balli nelle aule. Autori e registi che se ne tornavano a viale Mazzini sconcertati e arrabbiati. Pensate al povero Bernabei. Fu per lui quel concorso uno schiaffo in pieno viso?

Io, che per la verità ero seria e studiavo per fare la magistrata, sarei stata dalla parte sua, se non fosse che… Se non fosse che Lui , Ettore, se ne venne subito dopo Aldo Moro (che aveva inaugurato la sede) a salutarci e lì per lì se ne uscì con una frase a dir poco imprudente:

Vedo troppe ragazze. Avevo dato l’ordine di non assumerne nessuna: Questo non è un mestiere per donne”.

Noi ragazze eravamo 11, i maschi 48.

Anni dopo nell’ambito del movimento per la Riforma (che errore quella riforma!) fui prescelta per donargli un mazzo di tromboni: dite che non mi ricordai di quella frase nel donargli con irrisione quei fiori?

Bernabei fu un grande, grandissimo capo della Rai che era un’azienda moderna e straordinaria. Come il suo mentore Amintore Fanfani capì in forte anticipo una nuova politica, quella che sarebbe stata chiamata del “compromesso storico”: molti dirigenti importanti, benché cattolici, venivano dall’entourage del Partito Comunista.

Rinnovò la programmazione. Si devono alla sua gestione le intuizioni più felici. Come il suo mentore Fanfani, che appoggiò il referendum contro il divorzio e perse tutto, non capì i tempi nuovi della società italiana.  Insomma, secondo loro, se la politica poteva, anzi doveva, essere rinnovata, il costume doveva restare qual era.

Ma, mi chiedo, non entrò Ettore in contraddizione con sé stesso?

Che c’entravano allora Mina e le sorelle Kessler con la sua idea di società? Peggio: e se fosse che… se fosse che era stata proprio la sua televisione a contribuire in modo non irrilevante ai cambiamenti non desiderati?