La riflessione

Democrazia Futura. Serve davvero all’Italia il Trattato del Quirinale? (Parte Seconda)

di Giulio Ferlazzo Ciano, dottore di ricerca in storia contemporanea |

La tentazione neo bonapartista di Macron ostile ad un accordo triangolare con la Germania. Prosegue la riflessione di Giulio Ferlazzo Ciano, dottore di ricerca in storia contemporanea, con la seconda parte del saggio dedicato alla cooperazione tra Italia e Francia inserita nel Trattato del Quirinale firmato a novembre 2021.

Prosegue l’analisi di Giulio Ferlazzo Ciano sul Trattato del Quirinale con una lunga disamina storica di quelli che polemicamente definisce i “Soprusi francesi a danno dell’Italia” dall’invasione dei Franchi e la caduta dell’Impero romano d’occidente sino al nostro Risorgimento.

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1. Soprusi francesi a danno dell’Italia in età medievale

1.1 Invasione e lungo dominio dei Franchi. Il fallimento dei due primi tentativi di costruire una monarchia su base nazionale da parte dei Longobardi

Fu quello il periodo di incubazione di gran parte delle moderne famiglie nazionali europee, senz’altro di tutte quelle nazioni di origine mista romano-germanica. La nazione francese, emersa dall’occupazione della Gallia romana da parte di diversi popoli germanici, iniziò a distinguersi già a partire dalla fine del V secolo grazie alle conquiste del re Clodoveo, appartenente alla dinastia dei Merovingi e alla popolazione dei Franchi. Il regno franco si sarebbe esteso nei secoli successivi, non senza difficoltà e arretramenti, sull’area occupata approssimativamente dall’attuale Francia.

In Italia la transizione fu più complicata: a una prima fase unitaria sotto Odoacre e, soprattutto, sotto i Goti guidati dall’illuminato Teodorico, seguì una trentennale guerra sanguinosa che determinò per un breve periodo il passaggio dell’Italia sotto le insegne di Bisanzio.

Durò poco perché, già a metà del VI secolo, l’invasione della parte centro-settentrionale della Penisola da parte della popolazione germanica dei Longobardi costrinse i bizantini ad arroccarsi a sud e lungo alcune zone costiere dell’Italia, mentre nel corso dei secoli successivi i Longobardi riuscirono con fatica a costituire una sorta di confederazione di piccoli stati alleati che riconoscevano un unico re residente a Pavia. Poteva essere per noi questo l’inizio del processo di costruzione di uno stato dinastico su base approssimativamente nazionale, esattamente come per la Francia. Ma proprio in questo periodo emerse la difficile e contrastata esistenza fra le due nazioni vicine, separate dalle Alpi, barriera mai abbastanza alta per impedire le invasioni.

Si sa come andò: il papato, reso inquieto dalla morsa longobarda, strinse un’alleanza strategica con i Franchi, che non aspettavano altro se non un pretesto per invadere l’Italia e impossessarsene. Come in tutti i patti scellerati c’era anche in questo caso un piatto di lenticchie da pagare al questuante di Roma, in cambio del suo simbolico assenso all’invasione. Si trattava, secondo il dettato della cosiddetta Promissio Carisiaca, della cessione al Papato di un territorio che avrebbe dovuto comprendere l’Etruria, l’Umbria, il Piceno, la Romagna, parte dell’Emilia e la Corsica, oltre alle aree appenniniche centro-meridionali occupate dai Longobardi.

Anche in questo caso si sa come andò: nel 774 i Franchi scalzarono i Longobardi dal centro-nord Italia, segnando in negativo il destino della Penisola per i secoli successivi e tuttavia non diedero interamente al papa quanto gli era stato promesso. In più non andarono oltre Spoleto, lasciando che fra gli Abruzzi e la Campania sopravvivessero dei piccoli ma agguerriti principati longobardi. Il barattiere aveva ottenuto la sua degna paga, ma in ogni caso ciò segnava il fallimento della seconda occasione offerta dal destino per costruire una monarchia unitaria su base nazionale.

Lo sfaldamento del potere franco nella parte centro-settentrionale della Penisola avvenne per gradi, molto lentamente, nel corso dei secoli successivi, ma anche se i Liberi Comuni, sorti gradualmente a partire dall’XI secolo, riuscirono a sottrarre ai feudatari del contado di origine franca il controllo dei principali mercati e delle piazze commerciali, allo stesso tempo una pesante eredità derivata dalla conquista dell’Italia da parte dei Franchi avrebbe segnato ancora per molto tempo il destino della Penisola.

L’eredità dell’imperatore Carlo Magno era stata infatti dispersa fra tre dei suoi nipoti e l’Italia centro-settentrionale era ricaduta sotto il controllo di Lotario. La Lotaringia subì in seguito a sua volta ulteriori suddivisioni e ripartizioni e, infine, la valle Padana, il Triveneto, la Liguria e la Toscana rimasero sotto l’autorità e il controllo di un Sacro Romano Imperatore con base in Germania (sia pure con corte itinerante).

A un giogo se ne sostituì un altro e per un po’ di secoli i francesi, anche perché alle prese a loro volta con un processo di parziale sfaldamento dell’unità iniziale del regno, lasciarono l’Italia alle prese con le sue beghe interne e le sue lotte per l’emancipazione dei Liberi Comuni dall’autorità degli imperatori germanici.

1.2 Il patto scellerato fra il papa e il re di Francia e l’imposizione della casata angioina sul trono napoletano. Dopo la morte di Federico II l’Italia diventa riserva di caccia e terra di conquista

Passarono i secoli, la Francia ritrovò una sua stabilità e unità sotto la dinastia dei Capetingi, mentre questa volta ad attirare le mire della nostra storica “amica” d’oltralpe non furono le regioni del centro-nord (formalmente ancora sotto la sovranità dell’impero germanico), ma quelle del sud della Penisola. In particolare lo splendido Regno di Sicilia, con capitale a Palermo e territorio esteso sull’omonima isola e sul Mezzogiorno continentale, fino agli Abruzzi e alla Terra di Lavoro. Era questa, almeno a quei tempi, una delle regioni più ricche d’Italia, oltre ad essersi dimostrato un regno di dimensioni abbastanza considerevoli da insidiare le ambizioni francesi nel Mediterraneo. Peggio ancora, almeno dal punto di vista francese, l’ultimo effettivo re di Sicilia, Federico II di Svevia, deteneva anche la corona di Sacro Romano Imperatore e puntava a unificare i domini meridionali della Penisola con le ricche città padano-venete.

Si trattava della terza opportunità per vedere nascere in Italia una monarchia unitaria su base nazionale. Una mossa ben compresa dai pontefici di quel tempo e da loro assai temuta. Il rischio per i domini papali era quello di finire nella morsa del re-imperatore svevo e per il papa di essere di fatto ostaggio di un futuro monarca italiano con velleità imperiali.

E così per la seconda volta, alla morte di Federico II (1250), per tarpare le ali ai suoi successori e, in particolare, all’ambizioso re Manfredi, capo del partito ghibellino fu stipulato un ennesimo patto scellerato fra il papa e il re di Francia. Si trattava di trovare un sostituto alla dinastia sveva, che dominava sulla Sicilia e sull’intero Mezzogiorno d’Italia, che garantisse la sopravvivenza del papato sulla base degli equilibri già in vigore nella Penisola.

Il re capetingio trovò il sostituto di Manfredi in un esponente di una fra le più nobili casate di Francia, quella degli Angiò, e lo inviò con un seguito imponente di cavalieri, appoggiati ben poco opportunamente dagli alleati italiani di parte guelfa, a scacciare gli Svevi dal Mezzogiorno e dalla Sicilia. Ci riuscirono, naturalmente.

E così all’ambizione egemonica nella Penisola della casata sveva, si sostituì un regno angioino con capitale a Napoli che riconosceva formalmente il papa quale signore feudale e che guardava alla Francia come nazione di riferimento politico e militare (1266).

Fu una corte munifica quella di Napoli, ma i suoi sovrani furono sempre più legati ai destini della Francia di quanto non lo fossero a quelli d’Italia, almeno nella prima fase della loro storia. Tale conquista peraltro provocò, per reazione allo squilibrio delle potenze a livello europeo, l’occupazione aragonese della Sicilia seguita alla rivolta del Vespro e più tardi, sempre da parte del Regno d’Aragona, della Sardegna.

Sempre lo squilibrio a livello europeo prodotto dal travaso di cavalieri e nobili francesi calati nel Mezzogiorno d’Italia avrebbe determinato sul lungo periodo il rischio che l’Italia fosse vista come riserva di caccia e terra di conquista da parte dei nostri potenti vicini. Si iniziava così a intravedere il destino di cattività straniera che ci attendeva.

Altro effetto indesiderato della conquista francese del Regno di Napoli fu il rafforzarsi delle pretese del partito guelfo italiano che trovò in Carlo d’Angiò e nei suoi successori dei formidabili protettori, fomentando così ancor più la rivalità fra città e signori locali schierati su opposti fronti.

D’altra parte si tratta di una delle più vecchie e rodate tattiche per mantenere il potere: divide et impera; e in Italia la storia aveva prodotto un terreno fra i più fertili per seminare discordia.

Eppure questa egemonia francese non era sempre approvata da quegli stessi pontefici che indirettamente la avevano provocata.

Tanto fu fastidiosa la loro protesta, almeno in un caso, quello celebre del tanto biasimato Bonifacio VIII, che i francesi, colmi di superbia, pensarono bene, oltre ad assestargli un umiliante schiaffo (in verità lo schiaffo a Bonifacio VIII lo assestò un nobile romano loro alleato, ma gli schiaffi dai francesi li riceviamo sempre noi), di trasferire l’intera sede papale in Francia, ad Avignone.

Cattività avignonese che durò fino al 1376.

A quel tempo, complice il carisma di una celebre santa mistica senese, in grado di riportare il pontefice a Roma, e lo scoppio della cosiddetta guerra dei Cent’anni, che infuriava tra francesi, inglesi e borgognoni, la Francia, passata sotto il controllo della dinastia dei Valois, per un po’ parve estraniarsi dai destini della Penisola e condusse una lotta senza quartiere per la sua stessa sopravvivenza.

Inutile dire che per molti decenni da quella parte delle Alpi non avemmo più noie.

1.3 Calata in Italia di Carlo VIII

Le noie, assieme alla ripresa delle sempre “amichevoli” relazioni franco-italiane, ricominciarono alla fine della summenzionata guerra d’indipendenza francese, nel 1453.

Simbolicamente l’anno prima della stipula della cosiddetta pace di Lodi e della Lega Italica, che impegnavano i più importanti signori italiani (i duchi di Milano e di Firenze, in seguito lo stesso re di Napoli, questa volta della dinastia aragonese) e la Repubblica di Venezia a non farsi più la guerra e a prestarsi mutua assistenza in caso di occupazione da parte straniera. Tale accordo rappresentava la quarta occasione offerta dal destino per tentare un processo di unificazione nazionale italiana, questa volta attraverso un patto federativo fra le principali compagini statuali esistenti al tempo nella Penisola. Per ovvie ragioni rappresentava anche uno dei tentativi più complessi e impegnativi volto a tale scopo.

Sfortunatamente, in questo caso per responsabilità esclusivamente nostre, le mai sopite rivalità fra gli Stati della Penisola finirono per vanificare la pace faticosamente raggiunta a Lodi e la stessa Lega Italica dimostrò ben presto di essere quasi del tutto priva di efficacia.

Ancora una volta ne approfittarono i francesi, dopo che ebbero osservato da lontano i conflitti interni alla Lega Italica.

Nel 1493 il re di Francia Carlo VIII decise di invadere l’Italia per assicurare alla monarchia francese il controllo di quel Regno di Napoli che era stato sottratto da un re aragonese e dai suoi discendenti all’ultimo pretendente della casa d’Angiò.

L’eredità angioina, nei piani di Carlo VIII, questa volta sarebbe dovuta toccare interamente alla Francia. Conquistata Napoli dai francesi nel 1495, gli italiani sembrarono accorgersi tardivamente degli errori compiuti e vi posero rimedio costituendo fra di loro una Lega antifrancese, a cui si aggiunsero l’imperatore germanico e la Spagna. Questa mossa rappresentava a sua volta un errore di portata storica, giacché autorizzava di fatto altri sovrani stranieri a interessarsi degli affari interni italiani.

Carlo VIII si trovo così incalzato dai collegati antifrancesi i quali lo affrontarono a Fornovo, in una grande battaglia campale dall’esito incerto, che per un po’ parve tuttavia galvanizzare gli italiani, visto che il re di Francia di fatto fu costretto a lasciare la Penisola e abbandonare Napoli ai precedenti sovrani illegittimamente spodestati.

Ma questo era solo il primo assaggio.

2. Soprusi francesi a danno dell’Italia in età moderna. Prima parte

2.1 Campagna di conquista di Luigi XII e inizio delle Guerre d’Italia

Il secondo tentativo di invadere la Penisola avvenne pochi anni più tardi per mano di Luigi XII. A fornire il pretesto dell’intervento, sempre amichevole, ai danni dell’Italia era l’ambizione di far valere i diritti di successione di un principe d’Orleans nel ducato di Milano, oltre che per impossessarsi ancora di Napoli.

Per pararsi da un eventuale intervento spagnolo a sostegno dell’indipendenza del regno napoletano, nel 1500 fu stipulato un accordo spartitorio fra Francia e Spagna. A quel punto l’avventura francese in Italia poteva cominciare e questa volta non ci sarebbe stata alcuna Lega in grado di fermare l’imponente esercito francese d’occupazione. Si dava così inizio alla danza macabra delle cosiddette Guerre d’Italia, una lunga e pluridecennale sequenza di conflitti fra le più potenti monarchie europee, la cui posta in gioco era il controllo della Penisola. Naturalmente l’egemonia francese in Italia finiva per essere mal tollerata sia dalla Spagna che dall’imperatore germanico. Persino gli svizzeri pensarono di trarre vantaggio dallo scontro fra titani per ricavarne un loro posto al sole nella pianura lombarda e ancora oggi l’esistenza del Canton Ticino testimonia quel tentativo parzialmente riuscito.

Non è inutile considerare che fu l’ingordigia francese e la volontà dei suoi sovrani di annettere gran parte d’Italia ai domini del Regno di Francia che provocò l’inizio del conflitto e la fine di qualsiasi speranza di federazione fra gli Stati italiani. Peggio ancora, segnava per l’Italia l’inizio della lunga cattività straniera che sarebbe durata più di tre secoli.

Si potrebbe azzardare a ipotizzare che tale iniziativa fosse stata presa per spirito d’amicizia della Francia nei confronti dell’Italia, però, se così fosse, sarebbe interessante conoscere quale valore i francesi diano all’amicizia. Per farla breve, fra continui mutamenti di alleanze, momenti di assestamento e poi ancora nuove intensificazioni del conflitto, il tutto condito da occupazioni, soprusi e saccheggi, ciò che importa notare è che tanto appetito (o amicizia) francese non produsse nemmeno i risultati auspicati da Luigi XII e dal suo successore Francesco I. Quest’ultimo, battuto dagli spagnoli a Pavia nel 1525 e fatto da loro prigioniero, dovette infine cedere definitivamente il controllo dell’Italia alla Spagna. Tanta fatica e amicizia per niente.

2.2 Tentativi di conquista del ducato sabaudo attraverso il controllo delle Alpi occidentali

Ma non era ancora finita, perché un premio di consolazione la Francia lo pretendeva ancora, naturalmente una volta di più ai nostri danni. E cosa poteva esserci di meglio se non annettersi la porzione nord-occidentale dell’Italia che confinava direttamente con la Francia? Fu così che nel 1536 Francesco I si volse ad occupare il Ducato di Savoia e con esso i territori piemontesi e nizzardi.

Con gran fatica e a prezzo di un’impegnativa alleanza con la Spagna, lo spodestato duca sabaudo, il celebre Emanuele Filiberto “Testa di Ferro”, dopo aver battuto più volte i francesi sul fronte delle Fiandre, riebbe dalla Spagna il suo Stato, che dovette però riconquistare alla Francia pezzo per pezzo a partire dal 1559.

Da questo momento furono le Alpi occidentali la fascia di attrito permanente tra la Francia e la Penisola. Tra i pochi stati italiani sopravvissuti alla conquista spagnola brillava, per la tenacia dei suoi sovrani, proprio il Ducato di Savoia, che si impegnò a far sloggiare i francesi dalle ultime città e vallate nelle quali di erano barricati, temendo di abbandonare definitivamente il suolo italiano. E fu proprio in quegli anni che i duchi di Savoia spostarono il baricentro dei loro domini nella valle Padana. Perno del controllo francese in Piemonte era la città fortificata di Pinerolo, infine riconquistata dallo stesso Emanuele Filiberto (1574), sebbene non definitivamente. Il successore di quest’ultimo, Carlo Emanuele I, si impegnò a sua volta in un’ambiziosissima e delicata partita per recuperare le residue terre piemontesi ancora in mano alla Francia e per tentare di destare nei rimanenti stati indipendenti della Penisola (soprattutto presso la Repubblica di Venezia) un sentimento di rivincita a danno degli stranieri, fossero essi spagnoli o francesi, che tenevano sotto scacco l’Italia. Ma il piccolo ducato non era abbastanza forte e, malgrado episodi militari di valore e la spregiudicatezza diplomatica del duca, la resa dei conti tra la Francia e il Ducato di Savoia avvenne nel contesto della cosiddetta guerra dei Trent’anni. Sfortunatamente si può ben immaginare quale dei due, in questo conteso bellico, rappresentasse il vaso di coccio.

2.3 Le guerre, gli assedi e le rappresaglie di Luigi XIV in terra italiana

Il successore di Carlo Emanuele dovette pertanto firmare nel 1631 l’umiliante trattato di Cherasco, che legava la Savoia alla politica estera francese e faceva recuperare alla Francia la munita piazzaforte di Pinerolo; ancora una volta.

Ulteriore triste corollario al trattato di Cherasco era il passaggio del Marchesato del Monferrato, piccolo ma strategico dominio a cavallo fra Piemonte e Lombardia, ai Gonzaga-Nevers, ramo francese dell’estinta famiglia regnante su Mantova. Il dominio indiretto francese sul Monferrato si sarebbe trasformato in effettivo nel 1681, stringendo di fatto il ducato sabaudo in una morsa. Un affettuoso e amichevole abbraccio, suppongo, stando al punto di vista francese.

Tuttavia con i Savoia la Francia aveva trovato pane per i suoi denti e nel duca Vittorio Amedeo II un degno avversario che non avrebbe ulteriormente tollerato l’amichevole abbraccio.

Non mancarono le occasioni per tentare la riscossa e il duca giocò le sue carte coraggiosamente, impegnandosi dapprima nella guerra della Lega d’Augusta, assieme ad altri alleati europei, contro la Francia di Luigi XIV. Il maresciallo francese Nicolas Catinat de la Fauconnière prese allora a devastare borghi e castelli piemontesi e il duca convenne di accettare una pace separata in cambio però della restituzione di Pinerolo (1696).

Tanti erano i nemici della Francia in quel contesto bellico che l’accordo, vantaggioso anche per la parte italiana, dovette apparire come il male minore per il sovrano francese.

Ma una vera e propria sconfitta francese sul campo avvenne qualche anno dopo, nel corso della cosiddetta guerra di successione spagnola.

Protagonista sempre il duca Vittorio Amedeo II. Per una volta l’avventura francese in Italia si ritorse contro la Francia stessa per mano esclusiva di italiani.

Nel lungo assedio di Torino (ottobre 1705-settembre 1706) le forze congiunte del duca Vittorio Amedeo II e del principe Eugenio di Savoia, assieme ad atti di puro eroismo da parte dei soldati sabaudi (l’episodio di Pietro Micca), riuscirono ad avere ragione delle forze transalpine, in modo netto e definitivo.

Costretti i francesi ad abbandonare il Piemonte e Nizza, avendo subito perdite notevoli, pur non vollero mancare, per spirito di amicizia, di fare un regalo al duca di Savoia: nel 1706 fu così ordinato da Luigi XIV di far saltare con l’esplosivo il Trofeo delle Alpi, possente monumento romano celebrativo della conquista dei popoli alpini fatto erigere dall’imperatore Augusto sulle rupi a ridosso del promontorio monegasco.

Con la conclusione del conflitto (1713) la Francia dovette sgomberare definitivamente gli ultimi lembi di territorio italiano sotto il suo controllo, dal Monferrato alle valli di Susa e del Chisone (passati al Piemonte sabaudo).

Da quel momento e per poco meno di un secolo il Regno di Sardegna (il nome ufficiale dello Stato sabaudo pochi anni dopo la vittoria nella guerra di successione spagnola) avrebbe rappresentato il bastione alpino per la difesa dei confini nordoccidentali italiani, riuscendo in altre occasioni a fermare le “amichevoli” sortite francesi in Italia (battaglia del colle dell’Assietta, 1747).

Soprusi francesi a danno dell’Italia in età moderna. Seconda parte

2.4 Alleanza turco-francese per terrorizzare e razziare le coste italiane

A corollario di questo elenco di atti amichevoli compiuti in età moderna dalla Francia in Italia andrebbero aggiunti almeno altri tre episodi degni di nota. 

Per il primo dei tre bisogna però tornare indietro al momento del conflitto che opponeva la Francia alla Spagna nel corso del Cinquecento. In quel frangente la Francia decise di allearsi con l’Impero Ottomano in funzione antispagnola e il fronte di questo conflitto divenne, per motivi geografici, la penisola Italiana e, particolarmente, le sue coste.

Protagonista di saccheggi, massacri, riduzioni in schiavitù e spoliazioni fu il ben noto corsaro turco-algerino Khair ad-Din, detto il Barbarossa, che da quel momento, forte dell’alleanza stipulata con il re di Francia, intensificò i suoi attacchi a borghi, isole e città costiere appartenenti prevalentemente al Regno di Napoli e alla Sicilia.

Per onestà va aggiunto che tali attacchi erano il proseguimento di una strategia iniziata dagli ottomani già diversi anni prima, tuttavia fa più male pensare che dal 1543 la flotta del corsaro Barbarossa potesse contare sull’appoggio di navi francesi al servizio di Francesco I e che gli assedi, le deportazioni e la riduzione in schiavitù sui mercati del nord Africa di italiani razziati nel corso di queste operazioni portassero indirettamente anche il marchio della Francia, storica “amica” dell’Italia.

2.5 Messina sedotta e poi abbandonata alla vendetta degli spagnoli; il bombardamento di Genova del 1684

Altro evento ben poco edificante per le relazioni italo-francesi riguardò la sollevazione antispagnola di Messina nel 1674. Luigi XIV, che allora stava muovendo una guerra contro l’Olanda a cui si era alleata la Spagna, ne approfittò per offrire appoggio ai messinesi in rivolta e inviò in Sicilia una flotta per occupare la città. Il sostegno, tutto in chiave antispagnola, si rivelò per i messinesi privo di un reale beneficio perché, al di là dei contrasti e delle angherie subite dalla popolazione locale da parte delle soldatesche francesi, tali da provocare rivolte e tumulti, i transalpini mostrarono di avere come unico interesse quello di poter servirsi del porto della città per offrire riparo alla flotta dell’ammiraglio Abraham Duquesne e, una volta che fu firmata la pace tra la Francia e gli ispano-olandesi, il Re Sole abbandonò nel 1678 la città e i suoi abitanti alla vendetta della Spagna.

Ancora più umiliante fu il trattamento che lo stesso Luigi XIV inflisse a Genova, colpevole ai suoi occhi di non obbedire alle sue reiterate e perentorie richieste di porre fine a rifornire di navi, equipaggi e provviste gli arcinemici iberici, dei quali peraltro Genova era leale e fidata alleata fin dai tempi della reggenza dell’ammiraglio Andrea Doria. All’ennesimo diniego del senato genovese corrispose, nel maggio 1684, un rovinoso bombardamento dal mare sulla città da parte della flotta francese, durato cinque giorni; di fronte a rinnovate minacce, arrivando a evocare lo sterminio, il senato dovette infine piegarsi, accettando di obbedire alle richieste francesi e umiliandosi a tal punto da inviare il doge a Versailles a scusarsi personalmente col re. C’è chi la chiama amicizia.

2.6 Il furto della Corsica

Tornando invece al Settecento, questo secolo apparentemente distinto da un pur momentaneo allontanamento della Francia dall’Italia grazie agli sforzi della monarchia sabauda, fu però segnato da una conquista territoriale francese di notevole importanza compiuta ai danni di una regione storicamente, culturalmente e geograficamente italiana. Generalmente mal amministrata e sfruttata a fini fiscali, la Corsica apparteneva alla Repubblica di Genova dal 1284 e nel 1729 i suoi abitanti si ribellarono all’autorità ligure, impegnando i genovesi in un lungo, dispendioso e sfibrante conflitto. Se nel 1744 il re di Sardegna Carlo Emanuele III tentò senza successo di approfittare dello stato di guerra in Corsica per allargare i suoi domini tirrenici, potendo così unire idealmente la Sardegna al porto di Nizza attraverso quest’isola, furono invece i francesi a trarre maggior vantaggio dalla guerra che vi imperversava. Genova intanto aveva compiuto un passo fatale quando, nel 1737, aveva accettato l’offerta della Francia (evidentemente una di quelle tipiche offerte francesi che non si possono rifiutare) di inviare in Corsica forze militari per sostenere lo sforzo repressivo genovese; da quel momento i francesi iniziarono a mettere piede nell’isola giostrando abilmente genovesi e corsi gli uni contro gli altri e stabilendo una rete di relazioni con le principali famiglie di maggiorenti locali. Sventato il summenzionato tentativo piemontese (con l’appoggio austriaco e inglese) di impossessarsi dell’isola, i francesi strinsero sempre più nella morsa Genova, costringendola a moltiplicare le somme sborsate per sostenere le ingenti spese di guerra, mentre fingevano di aiutarla e appoggiavano nei fatti le rivendicazioni dei ribelli.

Nel 1756 il primo trattato di Compiègne, firmato tra la Francia e la Repubblica di Genova, prevedeva l’occupazione francese di alcune cittadine e piazzeforti costiere, formalmente per contrastare i ribelli corsi, in realtà per assicurarsi il controllo delle coste dell’isola in funzione antibritannica; proprio quell’anno, infatti, la Francia era scesa in guerra contro il Regno Unito. Ormai Genova ballava al ritmo di musica transalpino.

Nel 1764 un secondo trattato firmato a Compiègne impegnava Genova a lasciare che le principali fortezze e città dell’isola fossero controllate dalle truppe francesi, che avrebbero provato a negoziare con i corsi in nome di Genova.

Infine, anche a causa del conto finanziariamente salatissimo presentato dalla Francia al governo genovese, la piccola repubblica ligure nel 1768 firmò un trattato a Versailles col quale riconosceva la sovranità francese sulla Corsica in cambio di una sforbiciata alla quota di debito da versare al re di Francia. In linea teorica quel trattato prevedeva (art.4) la possibilità che Genova tornasse a prendere possesso dell’isola rimborsando integralmente alla Francia le spese da essa sostenute. Naturalmente si trattava, anche in questo caso, di un trattato fortemente sbilanciato fra una superpotenza europea e una piccola e debole repubblica in piena crisi economica e politica. Genova non poté né volle mai rimborsare il debito contratto con la Francia e dal 1768 la Corsica fu definitivamente e forse anche irreversibilmente francese.

Ad appena 240 chilometri da Roma e 90 da Livorno, permettendo così alla Francia di possedere ancora oggi un affaccio diretto su quel mar Tirreno che sarebbe potuto diventare anche l’unico mare interno integralmente italiano. Sarebbe … se non fosse stato per la consueta amicizia francese nei nostri confronti.

3. Soprusi francesi a danno dell’Italia alla fine dell’età moderna

3.1 Napoleone Bonaparte umilia l’Italia, la saccheggia e la asservisce alla Francia

L’anno successivo al passaggio della Corsica alla Francia nasceva ad Aiaccio un tal Napoleone Bonaparte. Anche gli Dei, evidentemente, contro di noi. Quello stesso Bonaparte, di sangue italiano ma per l’appunto francese di diritto, avrebbe assestato all’Italia altri simbolici schiaffi umilianti.

Scoppiata in Francia la Rivoluzione del 1789, terminata la stagione del Terrore giacobino, passato il governo di quel Paese dalla Convenzione al Direttorio, gli occhi della Francia tornarono ad appuntarsi sull’Italia. Sulle ragioni che portarono il Direttorio ad ordinare al giovane generale Napoleone Bonaparte di intraprendere la campagna d’Italia, diretta alla conquista delle regioni settentrionali della Penisola, si è molto discusso in ambito storiografico e ancora oggi non è chiaro se furono motivi legati ad una strategia geopolitica volta ad estorcere all’Austria e al Regno Unito il consenso ad accettare, obtorto collo, l’annessione alla Francia delle regioni occupate sulla riva sinistra del Reno e del Belgio, grazie a un colpo di mano in Italia, oppure se si trattò di una nuova fase del cosiddetto “espansionismo rivoluzionario”, perseguito fin dai tempi di Robespierre e senz’altro desiderato ancora a quel tempo da personaggi del calibro dell’abate Sieyès o di Lazare Carnot. Altri ipotizzarono che si trattasse, al contrario, della volontà, molto più prosaica, di fare un gran bottino sfruttando la ricchezza d’Italia per ripagare le spese di guerra sostenute dalla Francia e rimpolpare così l’erario pubblico.

Si potrebbe aggiungere un’altra ipotesi, alla stregua di quanto enunciato in quel capolavoro che è l’incipit del preambolo del trattato del Quirinale: forse i francesi, dal 1796 in poi, invasero, saccheggiarono, confiscarono, rapinarono, incarcerarono e fucilarono, suddividendo il territorio italiano in un nugolo di Stati fantoccio al loro esclusivo servizio, per dimostrarci la loro amicizia. È un’ipotesi che non può essere scartata a priori.

Il Direttorio peraltro imponeva all’armata conquistatrice dell’Italia di vivere a spese del Paese conquistato. E così fu e lo fu sempre, da quel fatidico anno 1796 a quando le ultime truppe napoleoniche lasciarono la Penisola, nel 1814.

Si sa che il Bonaparte fu uno scrupoloso e diligente esecutore di tali direttive. Inutile rievocare dettagliatamente le tappe della conquista, del saccheggio e, più in generale, della sottomissione dell’Italia alla Francia, fra alterne fortune, rovesci, arretramenti e riconquiste.

Si potrebbe soltanto rievocare l’umiliazione subita da Venezia nel vano tentativo di preservare la sua indipendenza. Una delle prede più ambite dell’armata d’Italia era la vecchia signora della Laguna, che da più di mille anni vegliava sull’angolo nordorientale della Penisola e sull’Adriatico. Ma a quell’epoca la Serenissima era ormai provata dal declino economico e soprattutto politico-militare. In altri tempi si sarebbe senz’altro opposta agli invasori francesi, ma nel 1796 era disposta a tutto pur di non essere invischiata in una guerra devastante, tanto più che la Repubblica si era sempre astenuta da prendere parte all’alleanza europea antifrancese, mantenendosi neutrale. Così i veneziani pensarono di rabbonire l’armata d’Italia concedendo ad essa, quando lo richiese, di stazionare nelle città di terraferma che, a partire dal maggio di quell’anno, venivano via via raggiunte.

I francesi si servirono di un misto di lusinghe e minacce per costringere Venezia a fare sempre maggiori concessioni all’armata, mentre, a partire dall’inverno del 1797, iniziavano a fomentare i primi moti rivoluzionari giacobini a Bergamo e Brescia, città che erano parte del territorio veneziano. Ormai deciso a liquidarla, Napoleone inviò in aprile a Venezia il generale Jean-Andoche

Junot duca di Abrantès, a parlare in senato, minacciando il governo veneziano di terribili conseguenze se non avesse posto fine a fantomatiche manovre antifrancesi che, stando a Napoleone, Venezia orchestrava subdolamente. Junot, detto La tempesta, minacciò di portare guerra fin dentro Venezia e raccontò in seguito di aver dovuto trattenere le risate osservando il terrore che le sue parole suscitavano in quegli anziani governanti agghindati in fogge fuori dal tempo.

Fu con questo stesso spirito che, repressi nel sangue i moti antifrancesi a Verona (le Pasque veronesi) e occupata l’intera terraferma veneta, alla Repubblica di Venezia non rimase più altra via d’uscita che accettare la sua stessa fine secondo un cronoprogramma deciso da Bonaparte. Qualcuno allora credette che fosse l’inizio di un nuovo corso che avrebbe infine arriso ai destini della Penisola, grazie al vittorioso generale Bonaparte, che si sapeva essere legato all’Italia da vincoli familiari e culturali, e grazie alla Francia, che si riteneva essere una nazione amica della libertà e dell’indipendenza dell’Italia. Invece il 17 ottobre fu firmato il trattato di Campoformio, secondo i cui dettati Francia e Austria si spartivano le spoglie di Venezia, e così tutto fu più chiaro: l’Italia per la Francia era nulla di più di una terra di scorrerie e conquiste.

Anche gli ultimi rimasti a sognare aprirono gli occhi. Si può senz’altro dire che gran parte d’Italia uscì dall’esperienza francese con le ossa rotte e notevoli problemi di ordine pubblico: nelle regioni più meridionali l’occupazione francese del Regno di Napoli (1806-1815) significò l’intensificarsi di fenomeni di violenza endemica prodotti dall’emergere di sempre più numerose bande di briganti, sostenute e incoraggiate dal clero locale, dai Borbone napoletani asserragliati in Sicilia e dai loro protettori inglesi, tali da provocare durissime e sanguinose repressioni delle truppe franco-napoletane, dando avvio a un circolo vizioso che sprofondò per anni la Calabria, parte della Lucania e del Cilento in una condizione di guerra civile permanente.

Infine, contro le speranze dei patrioti italiani, la Francia napoleonica volle la Penisola divisa in tre parti, con un piano iniziato a realizzarsi nel 1801 e completato nel 1806: un terzo del suo territorio fu direttamente annesso all’Impero Francese (Piemonte, Liguria, Parma e Piacenza, Toscana, Umbria, Lazio). Se è pur vero che il dominio francese in Italia fece conoscere alla Penisola alcune forme di avanzamento sul fronte dell’organizzazione giudiziaria, amministrativa e burocratica, oltre che in ambito militare, d’altra parte è anche vero che tale macchina organizzativa statale funzionò a vantaggio quasi esclusivo della Francia e delle sue guerre per l’egemonia in Europa, consentendo un pesante prelievo fiscale a sostegno delle truppe di occupazione e attingendo uomini destinati a combattere in quelle stesse guerre di conquista nelle quali molti di loro sacrificarono invano la vita.

Altri italiani trassero dall’esperienza una maggiore consapevolezza patriottica, oltre all’acquisizione di competenze militari da porre in futuro al servizio della causa nazionale. In fondo c’è sempre un lato positivo in ogni tragedia, sebbene non si possa far passare questo unico aspetto per il tutto, così da far dimenticare la tragedia stessa. Non certamente lontanamente paragonabile, in quanto a sangue versato, soprattutto dalla popolazione civile, alle tragedie del ‘900, tuttavia pur sempre una tragedia se parametrata al contesto dell’Europa del tempo.

L’eredità migliore dell’occupazione francese fu proprio l’aver fatto maturare una consapevolezza più diffusa fra gli italiani di ciò che l’Italia doveva tornare ad essere, compiendo con ritardo l’ormai improcrastinabile sforzo di unificazione che per troppe volte, al prezzo di troppe invasioni straniere, era stato rimandato.

Se in base al secondo trattato di pace di Parigi (ottobre 1815) venivano ristabiliti i confini precedenti all’invasione francese dell’Italia, nel caso specifico quelli di terra tra la Francia e il Regno di Sardegna, ancor più di prima della stessa invasione si andava però rafforzando il controllo austriaco sulla Penisola. Scomparsa nel 1797 la Repubblica di Venezia, uno degli ultimi Stati indipendenti italiani sopravvissuti alle guerre del Cinquecento, le sue spoglie sulla terraferma erano passate interamente all’impero degli Asburgo, che così controllava lo spazio padano-veneto, oltre a dominare l’Adriatico grazie agli affacci su Trieste e sulla Dalmazia.

Gli altri Stati della Penisola, in mancanza di validi contrappesi all’influenza straniera, erano ridotti ad essere dei meri esecutori degli ordini provenienti dalla corte di Vienna, tanto più che alcuni di questi Stati erano da tempo già dominati da case dinastiche strettamente imparentate con gli Asburgo d’Austria.

4. Soprusi francesi a danno dell’Italia agli albori dell’unificazione nazionale

4.1 La pugnalata alla schiena della Repubblica Romana

In una tale situazione bloccata, anche in base alle clausole della Santa Alleanza, volta a garantire il mantenimento dello status quo in Europa, che impedivano di prevedere per l’Italia un futuro diverso da quello del controllo diretto o indiretto dell’Austria su di essa, la Francia non poteva che tornare prima o poi a giocare un ruolo preponderante e decisivo.

Anche in questo caso, tuttavia, il ruolo da lei giocato non fu sempre a noi favorevole. Lo scoprimmo con amarezza anni dopo, nel 1849, allorché, mentre si infrangevano a Novara le speranze suscitate dalla nostra prima guerra d’indipendenza sotto le insegne sabaude, nella Roma rivoltatasi contro il dominio papale e dove era stata instaurata a febbraio una repubblica di ispirazione mazziniana, giungeva come fulmine a ciel sereno la notizia che il neo presidente della restaurata Repubblica Francese, Luigi Napoleone Bonaparte (dal 1853 imperatore di Francia col nome di Napoleone III), aveva deciso di inviare una spedizione armata a Roma per abbattere la repubblica e restaurare il papa. La decisione francese, per di più assunta da un regime repubblicano, fu vissuta come l’ennesimo tradimento della Francia ai danni dei patrioti italiani. Effettuato lo sbarco del contingente francese a Civitavecchia, il 30 aprile iniziarono i combattimenti fra i difensori della Repubblica Romana e le truppe francesi. Nei mesi successivi da parte degli assediati furono scritte pagine di memorabile eroismo, ma la resistenza e il sangue versato alla fine si rivelarono vani e il 3 luglio i primi soldati francesi iniziarono a fare il loro ingresso in città.

Il secondo tradimento delle speranze degli italiani da parte della Francia si era compiuto. E, anche in questo caso, si poteva intravedere nell’amichevole azione francese l’intenzione di tarpare le ali a qualsiasi progetto e iniziativa di unificazione nazionale.

Evidentemente l’unico modo per far accettare alla Francia l’unificazione della Penisola era quella di lasciare che fosse Parigi a stabilirne l’eventuale possibilità di realizzazione, nei tempi e nei modi da lei voluti. Qualcosa di simile a quanto enunciato nell’odierno trattato per una cooperazione bilaterale rafforzata (art.1, paragrafo 1): «…le Parti si impegnano a sviluppare il loro coordinamento e a favorire la sinergia tra le rispettive azioni a livello internazionale. Esse si consultano regolarmente con l’obiettivo di stabilire posizioni comuni e di agire congiuntamente su tutte le decisioni che tocchino i loro interessi comuni…».

Nella fattispecie, in quell’ormai lontano 1849, la parte debole di un simile accordo sarebbe stata sostenuta dal Regno di Sardegna, che si apprestava ad essere governato da un brillante Primo Ministro, il conte Camillo Benso di Cavour.

4.2 Plombières, ovvero il piano per sostituire all’egemonia austriaca in Italia quella francese

Cavour comprese che per aspirare all’unificazione nazionale italiana sarebbe stato necessario creare una rete di alleanze e sostegni internazionali in funzione antiaustriaca, in particolare appoggiandosi al Regno Unito e, inevitabilmente, alla Francia. Qualsiasi altra ipotesi che non prevedesse il coinvolgimento francese si sarebbe rivelata senz’altro fallimentare, come l’esperienza nel biennio 1848-49 aveva dimostrato. E non fu senz’altro a cuor leggero che, dopo aver fatto partecipare il piccolo Piemonte ad una guerra voluta anche dalla Francia nella lontana Crimea, sfruttando l’interessata (e non sincera, come la repressione della Repubblica Romana aveva dimostrato) simpatia di Napoleone III per la causa italiana, il nostro giunse a stipulare con la potente nazione d’oltralpe a Plombières il ben noto accordo fra le due parti, suggellato nel corso di colloqui nel luglio 1858. L’accordo prevedeva, come si sa, l’appoggio diplomatico e l’aiuto militare da parte della Francia al Regno di Sardegna in un eventuale conflitto con l’Austria. Ciò che spesso si dimentica di aggiungere è che, all’egemonia austriaca in Italia, Napoleone III sperava di sostituire quella francese.

In tale modo:

la Francia avrebbe sostenuto la costituzione di un Regno dell’Alta Italia retto dai Savoia ed esteso, oltre che sul Piemonte e la Liguria, già posseduti, anche sulla Lombardia, sul Veneto, sui ducati emiliani e sulla Romagna. Toscana, Umbria e Marche avrebbero fatto parte di un Regno dell’Italia centrale, probabilmente retto da un Borbone di Parma (famiglia imparentata con i Bonaparte), mentre Roma e il Lazio sarebbero rimaste al Papa. Il Regno delle Due Sicilie avrebbe visto rovesciare la casa regnante borbonica a vantaggio di un discendente di Gioacchino Murat.

L’intera Penisola infine sarebbe stata trasformata in una confederazione sotto la presidenza del pontefice. Ciò era quanto di più si poteva sperare di ottenere e il prezzo da pagare per tale disegno prevedeva peraltro la cessione alla Francia, da parte del Regno di Sardegna, della Savoia e del Nizzardo. Se la prima regione era in effetti, da un punto di vista geografico e linguistico-culturale, prettamente francese, ancorché la culla della dinastia sabauda, il secondo territorio era senz’altro culturalmente italiano, sebbene vi si parlasse comunemente un dialetto ibrido fra il ligure e il provenzale, e anche da un punto di vista geografico non potevano esserci dubbi sulla sua appartenenza, se si considerasse il fiume Varo come confine naturale occidentale d’Italia, così come peraltro citato da Dante Alighieri (Paradiso, VI, 58) e da Giuseppe Mazzini (Dei doveri dell’uomo, capitolo V). Dunque Nizza, la città natale di Giuseppe Garibaldi e di numerosi patrioti di sentimenti italianissimi, sarebbe dovuta passare alla Francia. Anche questo, evidentemente, era il prezzo della storica e disinteressata amicizia.

4.3 Il tradimento di Villafranca

E se, in cambio della cessione di Savoia e Nizza alla Francia, si poteva però contare sulla liberazione della Lombardia e del Veneto dal dominio austriaco, questo fatto poteva in qualche misura lenire il dolore per il distacco. Se non che, mossa guerra all’Austria dagli eserciti congiunti, nel luglio 1859 avvenne il voltafaccia francese di Villafranca. Napoleone III si accordò con l’imperatore austriaco Francesco Giuseppe per cedere la sola Lombardia (esclusa anche Mantova) al Piemonte sabaudo, così come di permettere l’annessione al medesimo di Parma e Piacenza, ma accettando di mantenere sul trono il duca di Modena, di consentire al papa di conservare la Romagna, mentre il Veneto, che si sperava di unire, sarebbe dovuto rimanere stabilmente sotto il dominio austriaco.

Una clausola, inoltre, prevedeva che Cavour dovesse lasciare la guida del governo piemontese.

Era l’ennesimo tradimento delle speranze italiane, con l’unica differenza che per questo capolavoro di doppiezza si doveva pagare alla Francia persino il biglietto. Cavour, pur dimettendosi, non senza aver vanamente tentato di mandare all’aria l’accordo, rinfacciando aspramente a Napoleone III il mancato rispetto degli impegni, rimase solo apparentemente in disparte, riprendendo solo qualche mese più tardi la guida del governo. Intanto, d’accordo con i patrioti emiliani, si predisponevano le manovre per il passaggio a Torino anche del ducato modenese, così come della Romagna, mentre in Toscana si costituiva un governo provvisorio favorevole all’unità nazionale.

Il piano della Francia inizialmente pensato per imbrigliare l’Italia sotto il suo controllo stava sfuggendo di mano al suo stesso ideatore, quel Napoleone III che assisteva impotente all’evoluzione spontanea degli eventi. Non volle, forse anche per questa ragione, essere coerente con gli impegni presi con il governo di Torino e, sebbene il Veneto fosse stato escluso dal paniere delle annessioni, pretese pur sempre che l’aiuto francese fosse pagato sia con la Savoia che con Nizza. Fu così che nell’aprile 1860 Cavour dovette accettare il passaggio alla Francia della Savoia (senz’altro corretto, stando ai patti, in cambio della Lombardia), ma anche di Nizza (non dovuto, stando al voltafaccia di Villafranca che impedì di annettere il Veneto), così da accontentare Napoleone III e sperare che egli accettasse la costituzione, sempre più concretamente realizzabile, di uno Stato unitario esteso anche all’intera Emilia, la Romagna e la Toscana. Tuttavia si può ben sostenere che la cessione di Nizza alla Francia rappresentò un ulteriore tassello mancante al disegno dell’Italia unita. Assieme alla Corsica, già sottratta al destino dell’unificazione italiana nel 1768, anche Nizza e la sua provincia non sarebbero mai più state considerate parte d’Italia. Al saccheggio materiale perpetrato dall’armata d’Italia del giovane Napoleone Bonaparte, si aggiungeva ora anche il saccheggio territoriale.

4.4 Fu vera amicizia e può essere definita “ancorata nella storia”? Ai lettori l’ardua sentenza

L’Italia, alla fine di quella fase storica, riuscì fortunatamente a unificarsi dalle Alpi alla Sicilia, contrariamente ai piani di Napoleone III, ad accezione delle Venezie, rimaste austriache, e del Lazio, rimasto al papa, protetto dai soldati francesi fino allo scoppio della guerra franco-prussiana.

Anche in questo caso si deve alla Francia e alla sua storica amicizia nei nostri confronti il ritardo col quale si riuscì infine a riunire all’Italia la sua simbolicamente irrinunciabile capitale. A quella data, il 20 settembre 1870, erano trascorsi 1096 anni dalla prima invasione giunta dalla Francia, la prima delle tante che sarebbero seguite e il primo dei tanti soprusi ai danni dell’Italia da parte di quella nazione, dei suoi re, membri del direttorio, imperatori o presidenti che fossero.

Eravamo arrivati in estremo ritardo al nostro appuntamento con l’unificazione nazionale rispetto a gran parte delle nazioni d’Europa (Germania esclusa, sebbene essa si fosse trovata fino alla guerra dei Trent’anni parzialmente tutelata dalla cornice del Sacro Romano Impero) e se ciò era avvenuto lo dovevamo senz’altro alla discordia interna, aggravata dalla presenza di un papato dimostratosi molto spesso irresponsabile, ma una parte del nostro ritardo lo dovevamo anche a chi, in ben più di un’occasione, aveva impedito al corso degli eventi di compiersi spontaneamente. Nel 774 così come nel 1266, nel 1495, nel 1500 e negli anni successivi fino al 1525. E poi ancora, senza soluzione di continuità, dal 1796 al 1806 e, infine, nel 1849. Quale altra nazione, di fronte a queste continue intromissioni, avrebbe mai potuto vedersi unita sotto un’unica autorità?

Si può avere l’impudenza di definire tutto questo un’amicizia «ancorata nella storia»? Sappiamo anche che il contrasto francese alle ambizioni dell’Italia, spesso in nessun modo contrastanti con quelle francesi (ed è questo che rende il quadro del tutto inspiegabile), non terminò nel 1870, ma continuò per tutta la parte rimanente dell’Ottocento, nel corso del Novecento (con l’unica eccezione della nostra dissennata discesa in guerra a fianco della Germania, nel 1940) e ancora oggi, malgrado gli appelli all’unità europea, le belle parole sull’amicizia, sulla reciproca stima e mutua assistenza.

Basta vedere cosa è avvenuto in Libia dal 2011.

Basta vedere gli sconfinamenti della gendarmeria francese a Claviere e a Bardonecchia per abbandonare sul versante italiano qualche povero migrante.

Basta vedere la campagna di acquisizioni di imprese strategiche a danno dell’Italia e di come la Francia si impegni costantemente a impedire la medesima strategia, in formato ridotto, da parte italiana (il caso Fincantieri-Stx).

O, ancora, la ridicola disputa (ma non definiamola ridicola di fronte alle guide alpine valdostane) sull’appartenenza della cima del Monte Bianco, che i francesi si sono unilateralmente annessi sulle loro carte militari.

Ebbene sì, c’è qualcosa di malsano e patologico nello storico contrasto all’Italia da parte della Francia. Non si capisce come non se ne siano accorti alla Farnesina. Una volta di più rischierà l’intero Paese di farne le spese; rimane soltanto da stabilire fino a quando.

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