La riflessione

Democrazia Futura. Prima che sia troppo tardi, due nodi da sciogliere: il rapporto Stato/Regioni e le fake news

di Carlo Rognoni, giornalista, ex vicepresidente del Senato, già consigliere di amministrazione della Rai |

Tra i tantissimi guasti prodotti dal Covid-19 - oltre ai danni economici e sociali – c’è un conflitto aperto tra Stato centrale e Regioni e c’è l’uso selvaggio e spregiudicato dell’informazione, che diventa infodemia e poi manipolazione della stessa.

Nel suo articolo per Democrazia futura Carlo Rognoni sottolinea “Prima che sia troppo tardi, due nodi da sciogliere”, il primo tornato di strettissima attualità di fronte alla cattiva gestione e ai ritardi nell’erogazione dei vaccini. Di fronte al persistente conflitto fra Stato centrale e Regioni, dopo aver esaminato i casi di Lombardia e Veneto alle prese con modelli diversi di cura della pandemia, Rognoni invita da un lato a favorire incentivi a favore di un fondo vincolato all’assistenza domiciliare. Il secondo grande nodo che Rognoni invita a sciogliere, è quello dall’altro, di individuare “come proteggersi dall’infodemia e garantire il diritto ad un’informazione corretta”. Mentre governi democratici usano divieti e restrizioni per fermare l’avanzata del virus, ci sono democrazie illiberali e regimi autoritari che usano la pandemia per zittire gli oppositori. E questo sta accadendo anche in Europa (vedi Ungheria e Polonia). L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha messo in guardia vari paesi a non usare il pretesto della pandemia per violare i diritti umani“.

Carlo Rognoni

Il primo nodo da sciogliere. Il conflitto fra Stato e Regioni

Il Covid-19  non ha invaso solo il mondo sanitario ma anche quello della politica e dell’informazione.

La stessa struttura istituzionale italiana è stata messa a dura prova nella gestione della pandemia: in particolare i rapporti fra Stato e Regioni si sono rivelati uno snodo fondamentale e come tali sono stati – e lo saranno anche negli anni a venire – soggetti a un forte stress. Da molti si è invocato addirittura un ripensamento del modo di essere del nostro regionalismo: ha senso allora parlare e proporre un’ulteriore riforma del titolo V della Costituzione? E’ possibile ipotizzare una semplificazione del rapporto Stato/Regioni? O è un’idea illusoria? Ecco un primo grande nodo da sciogliere.

Negli Stati a sicura struttura federale – si pensi agli Stati Uniti oppure alla Svizzera – questi rapporti risentono di problematiche del tutto analoghe, frequentemente foriere di forti tensioni fra centro e periferia. Ha scritto Giuseppe Pericu, ex sindaco di Genova e riconosciuto esperto professore di diritto amministrativo: “I contrasti, le rivendicazioni di competenze in assetti decentrati sono fisiologiche, naturalmente se non danno origine a manifestazioni di piazza, a comportamenti eversivi. Anche la richiesta della mediazione della magistratura amministrativa o costituzionale rientra nello spazio naturale di una più esatta definizione dei rispettivi ruoli”. Né d’altronde deve stupire – ha aggiunto Pericu in uno scritto recente – “che ciascun centro di potere tenti di salvaguardare il proprio spazio ed eventualmente allargarne i confini”.

Sempre secondo Pericu “forse viviamo in modo più drammatico quelle che appaiono come possibili situazioni conflittuali perché non fa parte della nostra cultura amministrativa l’accettazione di diversità di discipline giuridiche nelle diverse parti del territorio nazionale”. Dall’unificazione del Regno d’Italia, infatti, non dimentichiamo che si è scelto di dar vita a uno Stato fortemente accentrato.

Quanto pesano queste considerazioni legate al quadro istituzionale sulla realtà di oggi, sul come, per esempio, è stata affrontata la pandemia – che ci rovina perfino le vacanze di Natale – vuoi dallo Stato vuoi dalle Regioni? E’ indubbio che vi siano state carenze gravi: perché non è stato proposto e attuato un piano nazionale di riassetto del sistema sanitario; perché non si è provveduto a potenziare e aggiornare la medicina territoriale; perché si è arrivati all’inizio dell’anno scolastico del tutto impreparati. E tanti altri sono i perché ai quali occorre dare una risposta.

Si tratta di accertare le responsabilità politiche – ci auguriamo non giudiziarie – di chi ci ha governato in momenti così difficili e complessi con i metodi propri di un regime democratico.

In queste ultime settimane sono impazzate le discussioni sulla differenza fra “il modello veneto” e “il modello lombardo”. Veneto e Lombardia sono regioni governate da circa trent’anni dallo stesso colore politico, sono economicamente forti e anche per l’erogazione dei servizi sanitari sono state sempre considerate al top nel nostro paese. Hanno però fatto scelte – negli ultimi anni – completamente diverse sulla erogazione dei servizi sanitari.

La Lombardia ha teorizzato e messo in pratica un modello con una forte presenza dei servizi sanitari privati/convenzionati da affiancare al servizio pubblico (ospedali di buona qualità con alcune punte di assoluta eccellenza) con “gli ospedali al centro” e il Veneto con un modello più tradizionale con presenza forte del servizio pubblico nelle strutture ospedaliere e una maggiore capillarità dei servizi sul territorio.

Due visioni non solo differenti ma sostanzialmente opposte che hanno portato a risultati diversi. In una situazione come quella di emergenza che stiamo vivendo i medici di famiglia, i pediatri, i farmacisti sono – con ruoli diversi – “l’argine” per aiutare a individuare chi è infetto, per impedire che vada in ospedale quando non è necessario, per aiutare i malati cronici, rari, le persone immunodepresse a essere curate a casa perché sono quelle più a rischio.

Il Veneto nella prima fase, con tutte le difficoltà nell’affrontare una situazione inedita, con il proprio modello ha fronteggiato e gestito la situazione mentre la Lombardia ha dimostrato gli enormi limiti delle proprie scelte soprattutto con servizi territoriali rarefatti, con enormi difficoltà come spesso denunciato in questi giorni dei medici di famiglia e con un modello “basato sulle strutture” che ha affrontato il disastro delle residenze sanitarie per anziani vedendo morire le persone senza avere una vera alternativa, come può e deve essere in queste situazioni poter curare a casa.

Diversa la storia della seconda fase della pandemia, quando è stato il Veneto a soffrire di più. E il presidente Luca Zaia – in questa circostanza – ha accusato il governo per aver lasciato che la regione restasse in zona gialla e quindi meno controllata.

I casi di queste due regioni sono comunque emblematici anche se – non dimentichiamolo – non sono isolati. Negli ultimi venti anni si è investito poco – troppo poco – sul territorio. In molte regioni i medici di famiglia sono diminuiti perché andati in pensione e non sostituiti, idem per i pediatri, l’assistenza domiciliare non ha standard e spesso è inesistente, i servizi di prevenzione territoriali si sono ridotti per mancanza di risorse economiche e umane disponibili causa blocco del turn-over.

Chi soffre di più sono le persone che abitano nelle cosiddette “aree interne”, zone di collina e montagna dove abitano circa undici milioni di italiani che comunemente identifichiamo con i “borghi” tanto decantati come meta per i weekend quanto dimenticati nelle politiche pubbliche nel resto della settimana.

Siamo condannati al disastro? No che non lo siamo. Dipende da noi, dalle scelte che faremo, dalle priorità che ci daremo. Prendersi cura, personalizzare le cure, vuol dire adattare i modelli ai bisogni delle persone e non vice versa. Fare un serio piano di investimenti sia tecnologici (vedi alla voce telemedicina che in Italia non si usa perché da 20 anni non si è attivata la modalità tecnica per la codifica burocratica della prestazione…) ma anche infrastrutturali (perché se non hai una banda larga seria tutta una serie di servizi sanitari ad alta tecnologia non li puoi usare).

Investire sui professionisti che vivono e operano sul territorio responsabilizzandoli. Nell’ultima legge di stabilità sono stati fatti dei primi passi dotando medici di famiglia e pediatri di prime apparecchiature di diagnostica. Passi giusti nella giusta direzione ma non bastano. Bisogna fare di più.

C’è, per esempio, una proposta di emendamento al “Cura Italia” proposto da Cittadinanzattiva e da oltre settanta organizzazioni del mondo civico, medico, delle professioni sanitarie, delle imprese e raccolto da un gruppo di senatori (prima firma Tommaso Nannicini ma con senatori di Pd, M5S, Leu, IV, Forza Italia e gruppo misto) che ha l’obiettivo di creare un fondo vincolato di 1,2 miliardi di euro divisi su tre anni che sia dedicato all’assistenza domiciliare.

Se approvata questa norma avrebbe tre meriti, il primo in quanto fondo vincolato sapremmo che sarebbe speso solo per questa finalità evitando che si “perda per strada” nei rivoli delle risorse pubbliche destinate alle regioni, il secondo che permetterebbe concretamente di aiutare ad assistere le persone a casa con i servizi realizzati dalle tante competenze che già ci sono e che in questo settore operano sia pubbliche che private che no profit, il terzo e forse più importante merito sarebbe quello di fare una prima scelta strategica sul “futuro che vogliamo” con servizi che si adattino ai bisogni delle persone e ne rispettino il diritto alla cura.

Magari scopriremmo che #iorestoacasa e #primalepersone non sono solo hashtag ma sono una occasione per ripensare le priorità del nostro stato sociale.

Il secondo grande nodo. Come proteggersi dall’infodemia e garantire il diritto ad un’informazione corretta

Al di là della drammatica crisi sanitaria, c’è un’altra crisi di cui si parla poco. Fra gli altri tantissimi guasti prodotti dal Covid-19, infatti, – oltre ai danni economici e sociali – c’è l’uso selvaggio e spregiudicato dell’informazione. L’OMS, l’organizzazione mondiale della Sanità, è addirittura arrivata a inventarsi un neologismo, l’infodemia, ovvero la valanga di informazioni, alcune accurate e altre no, che rendono difficile per le persone normali trovare fonti affidabili quando ne hanno bisogno.

La paura-paranoia del contagio si è andata diffondendo oltre ogni ragionevole limite, al punto che la stessa OMS sostiene che più del Coronavirus la vera malattia di cui dovremmo preoccuparci sarebbe proprio la sovrabbondanza di notizie sul virus. E al centro di questa montagna di news spaventano le tante, tantissime fake news, le bufale a cui sapientemente e giustamente il ministero della Sanità ha dedicato una particolare attenzione. Ne sono citate più di novanta nel sito del ministero. E vanno dal “Fare gargarismi con la candeggina, assumere acido acetico o steroidi, utilizzare oli essenziali e acqua salata protegge dall’infezione da nuovo coronavirus” fino al “Tagliarsi la barba evita il contagio”.

Altro falso “il coronavirus rende sterili, soprattutto gli uomini”. Non si salvano neppure gli animali eppure “non esiste evidenza scientifica che gli animali domestici, quali cani e gatti, possano contrarre il nuovo coronavirus e trasmetterlo all’uomo”. Chi desidera approfondire vada direttamente al sito del Ministero della Salute.
http://www.salute.gov.it/portale/nuovocoronavirus/archivioFakeNewsNuovoCoronavirus.jsp?lingua=italiano.

Un altro studio ci racconta della devastante influenza delle fake news in Africa, il continente che sarebbe il più esposto all’influenza intossicante delle bufale. Qui persino capi di stato, uomini politici, responsabili amministrativi, partecipano allo stupido gioco di diffondere notizie che non hanno senso.

E’ capitato in Tanzania dove il presidente John Pomb Magufuli ha invitato i suoi connazionali a inalare vapore acqueo per uccidere il virus. Oppure in Madagascar dove il presidente Andry Rajoelin proclama che sulla Grande Isola c’è un’erba il cui decotto o tisana può curare il virus o comunque proteggerci dall’infezione. Il governatore di Nairobi, accogliendo l’invito dell’OMS a lavarsi frequentemente le mani con prodotti a base di alcol, ha consigliato ai suoi concittadini una via più diretta: bevete direttamente alcolici per combattere il virus dal di dentro. Se poi uno si ubriaca, pazienza! Dico io.

Altri esempi di fake news africane per combattere il virus sono molto popolari: mangiare aglio e miele, bere urina di vacca, la clorochina ecc. A causa di questo flusso di notizie false paesi come il Senegal, il Sudafrica, il Kenya, l’Algeria, il Marocco, la Tunisia hanno creato leggi contro la propagazione di false notizie con sanzioni penali fino all’arresto.

Dal controllo delle fake news alla censura del dissenso o delle opposizioni politiche, l’esperienza ci dice che il passo è breve. L’allarme lanciato dall’ultimo rapporto di Articolo 19, un’organizzazione che a livello globale si occupa della difesa delle libertà democratiche (come quelle di opinione e di espressione), è a dir poco inquietante: mentre governi democratici usano divieti e restrizioni per fermare l’avanzata del virus, ci sono democrazie illiberali e regimi autoritari che usano la pandemia per zittire gli oppositori. E questo sta accadendo anche in Europa (vedi Ungheria e Polonia).

L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha messo in guardia vari paesi a non usare il pretesto della pandemia per violare i diritti umani. “L’emergenza non dev’essere un’arma dei governi per reprimere il dissenso, controllare la popolazione e difendere i poteri acquisiti”.

Durante la pandemia in gioco non c’è solo la salute e la sicurezza, ma anche il diritto a una informazione corretta, giusta, credibile, controllata. Sempre Articolo 19 sottolinea come “le informazioni rese pubbliche dai governi devono seguire standard precisi, come la regolarità e l’accessibilità a tutti”. Per diversi governi garantire alla popolazione e ai media l’accesso a informazione e dati non è visto come prioritario. Per altri, la segretezza viene imposta per limitare le critiche nei confronti dei processi decisionali o per celare il tentativo di instaurare vere e proprie dittature. Insomma non solo dobbiamo difenderci dal Covid-19 ma è diventato altrettanto importante pretendere trasparenza e responsabilità nei confronti dei cittadini che dovremmo cercare di proteggere. E l’informazione è figlia di una politica seria e partecipata.

Il conflitto con il GAFAM (Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft) non è risolto e vista la strategica importanza dell’informazione, visto il peso enorme che i social hanno sulla politica, non c’è proprio tempo da perdere.