La storia

Democrazia Futura. Origini e conseguenze della crisi afghana

di Bruno Somalvico, storico ed esperto dei media |

La débâcle di un Occidente privo di pragmatismo e prigioniero dei suoi valori “politicamente corretti” e del “perfezionismo democratico”. Un quadro interno incerto per il nuovo Emirato islamico.

Bruno Somalvico

Segue su Democrazia futura un’analisi di Bruno Somalvico sulle “Origini e conseguenze della crisi afghana” per spiegare quella che intitola “La débâcle di un Occidente privo di pragmatismo e prigioniero dei suoi valori ‘politicamente corretti’ e del ‘perfezionismo democratico’”. Lo storico ed esperto dei media e del loro ruolo nella società contemporanea ripercorre nella prima parte “Vent’anni di occupazione militare occidentale finiti anche questa volta con una disfatta” dopo quella subita dall’Unione sovietica e quella che definisce la “feroce dittatura islamista di fine secolo dell’Emirato islamico dell’Afghanistan (1996-2001)”. Somalvico osserva come “Ventidue anni dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979 […], l’operazione Enduring Freedom lanciata il 7 ottobre 2001, avviava una serie di azioni militari – questa volta per iniziativa degli Stati Uniti – che si ponevano come obiettivo la fine del regime dei talebani e la distruzione dei campi di addestramento e della rete di al-Qāʿida […]. L’uccisione dieci anni dopo di Osama Ben Laden nel 2011 e otto anni dopo la fine nel marzo 2019 del Califfato a capo del sedicente Stato Islamico dell’Iraq e della Siria […] anche in questo caso sembravano testimoniare il superamento di un grave pericolo per gli equilibri geopolitici planetari, mentre le primavere arabe lasciavano presagire un nuovo 48 dei popoli anche orientali. Eppure finché l’Afghanistan aveva rappresentato una minaccia, quella più seria mai avvenuta nella storia, contro l’espansionismo sovietico, una certa parte dell’Occidente, seguendo irrazionalmente l’assunto che “i nemici dei miei nemici sono miei amici” aveva cavalcato la rivolta talebana in buona compagnia con quella sinistra sciocca che aveva contemporaneamente salutato la conquista dell’Iran sciita da parte degli ayatollah. Due illusioni miopi” secondo Somalvico: “Ancora nel luglio 2021 – aggiunge – nessuno faceva troppo affidamento sulla tenuta del regime né avrebbe scommesso sulle capacità di resistenza ai Talebani da parte dell’esercito regolare afghano, ma nessun membro dell’Alleanza Atlantica, a cominciare dagli Stati Uniti di Joe Biden che annunciavano il disimpegno occidentale entro l’11 settembre 2021 – poi anticipato vista la piega degli eventi al 31 agosto – avrebbe ipotizzato una sua così rapida dissoluzione che – diciamolo pure – ha colto tutti di sorpresa […]. Ne deriva quello che Somalvico nella seconda parte definisce come “Un quadro interno incerto per il nuovo Emirato islamico in un complesso risiko diplomatico dove si accresce l’influenza regionale della Turchia neo-ottomana di Erdogan”. Un quadro che richiede secondo Somalvico un soprassalto dell’Occidente auspicato nel terzo paragrafo “Per una diplomazia attiva dell’Europa e una difesa comune ispirata alla realpolitik per far fronte al rafforzamento della Cina pronta ad assumere un ruolo di arbitro nei teatri di guerra” che lo portano a ritenere “che lo scacco subito a Kabul possa avere degli effetti anche nel medio-lungo termine simili a quelli subiti a Kabul dall’Unione Sovietica, segnando la fine dell’egemonia degli Stati Uniti come guardiano degli interessi dell’Occidente e quindi ponendo serie ipoteche sul futuro della Nato e rilanciando l’idea di una grande politica europea di difesa e di politica estera comune […] Per poi magari andare a trattare su nuove basi con Cina e Russia magari dando vita ad un G9, ovvero allargando l’attuale G7 ad un organismo chiamato a dirimere sulle grandi opzioni da prendere non solo sul piano militare per il futuro del nostro pianeta”. Decisivi saranno due fattori: il primo certamente le modalità in cui si muoverà sul fronte diplomatico il Vecchio continente ovvero “Come reagirà l’Europa a questo grave scacco e alla crescita dell’influenza regionale della Turchia” ma  anche quello che rimane de “Il potere dei media e degli opinionisti in quella che definisce l’ora più buia’ dopo la  disfatta dell’Occidente a Kabul”: “I media – oltre ad informare meglio e più tempestivamente le proprie platee su questi temi che non possono essere più percepiti come lontani […] devono evitare di cavalcare antichi vezzi e nella fattispecie i ridicoli quanto velleitari tentativi di esportazione dei propri valori e stili di vita percepiti come ennesime espressioni di arroganza da parte delle vecchie potenze colonizzatrici, in ogni caso come azioni improprie destinate ad assumere un effetto – boomerang su questi popoli […] tese ad esaltare un unico modello di stile di vita e di comportamenti in nome dell’ideologia “democraticistica” e del “politicamente corretto”. Sapendo invece “contemperare – come osservato da Angelo Panebianco –  Realpolitik e vincoli democratici” ovvero perseguire la  ricerca di “compromessi fra gli interessi (sia economici e di sicurezza) e certi vincoli, per esempio in tema di rispetto dei diritti umani, che i regimi autoritari non hanno”.


Vent’anni di occupazione militare occidentale finiti anche questa volta con una disfatta

La feroce dittatura islamista di fine secolo dell’Emirato islamico dell’Afghanistan (1996-2001) sembrava appartenere ad una stagione novecentesca quella che faceva seguito ai nuovi equilibri generati dalla crisi e dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica e della sua area di influenza nella regione. L’attacco dell’11 settembre 2001 alle Twin Towers aveva inaugurato una nuova fase ancora più sofisticata della guerra islamista contro il resto dell’umanità. Ventidue anni dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979, conclusasi nel febbraio 1989 con il ritiro totale delle truppe sovietiche e la vittoria dei mujaheddin afghani, l’operazione Enduring Freedom lanciata il 7 ottobre 2001, avviava una serie di azioni militari – questa volta per iniziativa degli Stati Uniti – che si ponevano come obiettivo la fine del regime dei talebani e la distruzione dei campi di addestramento e della rete di al-Qāʿida, primo atto della guerra al terrorismo lanciata dal Presidente George Walker Bush dopo l’11 settembre.

L’uccisione dieci anni dopo di Osama Ben Laden nel 2011 e otto anni dopo la fine nel marzo 2019 del Califfato a capo del sedicente  Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (detto anche Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) di cui sino al 2019 l’Isis, una organizzazione jihadista salafita controllava militarmente un ampio territorio, anche in questo caso sembravano testimoniare il superamento di un grave pericolo per gli equilibri geopolitici planetari, mentre le primavere arabe lasciavano presagire un nuovo 48 dei popoli anche orientali.

Eppure finché l’Afghanistan aveva rappresentato una minaccia, quella più seria mai avvenuta nella storia, contro l’espansionismo sovietico, una certa parte dell’Occidente, seguendo irrazionalmente l’assunto che “i nemici dei miei nemici sono miei amici” aveva cavalcato la rivolta talebana in buona compagnia con quella sinistra sciocca che aveva contemporaneamente salutato la conquista dell’Iran sciita da parte degli ayatollah. Due illusioni miopi.

Nessuno nel 2001 avrebbe pensato che l’operazione si sarebbe conclusa in un secondo Vietnam per gli statunitensi trentadue anni dopo quello che taluni avevano già definito un Vietnam sovietico. Un fatto è certo: tredici anni di presidenza Karzai dal 2001 al 2014  sette anni di governo Ghani sino al tragico Ferragosto 2021 non hanno impedito ai Talebani di superare l’endemica instabilità politica dell’Afghanistan e il radicamento degli stessi Talebani nel sud-est del Paese al confine con il Pakistan, mentre i costi dell’occupazione militare ventennale americana stimati dal Corriere della Sera del 31 agosto in ben 2313 miliardi di dollari (senza contare quelli presi in carico dai suoi partner) diventavano sempre più insostenibili e solo le esitazioni altalenanti di Donald Trump, dopo i ripetuti annunci di disimpegno del suo predecessore Barack Obama sin dal 2009, hanno consentito alla Repubblica Islamica dell’Afghanistan e al successore di Hamid Karzai, Mohammad Ashraf Ghani Ahmadzai di sopravvivere sino al Ferragosto di questo 2021.

Ancora nel luglio 2021 nessuno faceva troppo affidamento sulla tenuta del regime né avrebbe scommesso sulle capacità di resistenza ai Talebani da parte dell’esercito regolare afghano, ma nessun membro dell’Alleanza Atlantica, a cominciare dagli Stati Uniti di Joe Biden che annunciavano il disimpegno occidentale entro l’11 settembre 2021 – poi anticipato vista la piega degli eventi al 31 agosto – avrebbe ipotizzato una sua cosi rapida dissoluzione che – diciamolo pure – ha colto tutti di sorpresa rendendo necessario l’attuale drammatico ponte aereo (che ricorda la ritirata strategica delle truppe britanniche da Dunkerque durante l’occupazione tedesca di tutta la Francia settentrionale nel 1940) per assicurare la fuoriuscita di migliaia di profughi che avevano collaborato con il governo e le forze di occupazione occidentali, funestato dai due attentati dell’Isis – K, (dl nome dell’antica regione persiana del Khorasan) tornato anch’essa improvvisamente sulla scena internazionale in questo tragico agosto 2021.

Un quadro interno incerto per il nuovo Emirato islamico in un complesso risiko diplomatico dove si accresce l’influenza regionale della Turchia neo-ottomana di Erdogan

Venti anni dopo rinasce l’Emirato islamico dell’Afghanistan con una nuova generazione di Talebani al potere che potrebbero modificare non solo i loro comportamenti sul piano internazionale ricercando alleanze diplomatiche piuttosto che sponde con le formazioni terroristiche rimaste decimate dalla fine dello Stato Islamico. Falliti i negoziati intavolati dai Talebani con Karzai e gli altri “padroni della guerra” per la formazione del nuovo governo, non è dato sapere chi prevarrà in seno al governo bicefalo né quale sarà il supporto che riceveranno dal vicino Pakistan per sconfiggere la minaccia dell’Isis-K e la probabile ripresa della resistenza interna al Paese dopo l’annunciata presa di controllo della provincia del Panjshir terra natale del celebre capo tagiko Aḥmad Shāh Masʿūd che resistette alle offensive sovietiche nei primi anni Ottanta del secolo scorso.

Tutt’oggi rimane difficile prevedere se la loro conquista di Kabul darà vita ad una guerra civile anche strisciante o se l’Emirato islamico riuscirà a consolidarsi come entità statuale, beneficiando del sostegno di grandi e medie potenze e comunque spostando gli equilibri geopolitici non solo sul piano regionale attraverso un complesso risiko diplomatico apertosi con gli accordi di Doha del 29 febbraio 2020 resi possibili attraverso la mediazione del Quatar, “un gigante economico ma un nano militare che proprio per questo ha siglato un’unica alleanza strategica: con la Turchia” come ricorda il direttore de La Repubblica Maurizio Molinari secondo il quale Recep Tayyip Erdogan sarebbe oggi “il primo e inequivocabile vincitore del cambiamento in atto a Kabul” beneficiando di un’apertura di credito persoino da quegli Emiorati Arabi Uniti che finora avevano guidato con grande determinazione il fronte anti-Turchia e anti-Quatar accusati entrambi per il loro presunto sostegno ai Fratelli Musulmani

Per una diplomazia attiva dell’Europa e una difesa comune ispirata alla realpolitik per far fronte al rafforzamento della Cina pronta ad assumere un ruolo di arbitro nei teatri di guerra

La sconfitta sovietica dopo l’invasione del 1979 segnava l’inizio di un processo che avrebbe portato all’agonia e poi alla fine dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Non sappiamo ancora che impatto avrà questa débâcle dell’Occidente, una sconfitta annunciata che taluni hanno paragonato – giova ripeterlo – alla lunga agonia subita dagli Stati Uniti in Vietnam e alla vittoria comunista a Saigon. Una cosa è certa. La Cina rafforza la sua area di influenza e punta ad assumere un ruolo di arbitro in teatri di guerra tradizionalmente contesi fra Stati Uniti e Unione Sovietica. E alla luce dell’apertura sia cinese sia russa nei confronti del nuovo regime afghano fa bene Mario Draghi ad insistere su un confronto in seno al G20 non solo con le due superpotenze, ma anche associando vicini come il Pakistan oltre alle potenze regionali medio-orientali. Una concertazione limitata al G7 – come evidenziato dai risultati della riunione straordinaria di quelle che Il Manifesto ha definito le “impotenze occidentali” -rischierebbe di isolare l’intero Occidente.

Non basta infatti l’uccisione attraverso un Drone da parte degli Stati Uniti di uno degli ispiratori dei due attentati perpetrati dall’Isis-K nell’area dell’aeroporto di Kabul per compensare il gravissimo senso di sgomento e di impotenza nell’opinione pubblica statunitense dopo l’uccisione di svariate decine di giovani militari regolari e arruolati dal Pentagono in procinto di lasciare l’inferno afghano. La sensazione è che lo scacco subito a Kabul possa avere degli effetti anche nel medio-lungo termine simili a quelli subiti a Kabul dall’Unione Sovietica, segnando la fine dell’egemonia degli Stati Uniti come guardiano degli interessi dell’Occidente e quindi ponendo serie ipoteche sul futuro della Nato e rilanciando l’idea di una grande politica europea di difesa e di politica estera comune costringendo il Regno Unito, fuoriuscito dall’Unione, a ricercare almeno su questo terreno strategico decisivi per gli equilibri geostrategici a ricercare nuove intese al di qua della Manica. Per poi magari andare a trattare su nuove basi con Cina e Russia magari dando vita ad un G9, ovvero allargando l’attuale G7 ad un organismo chiamato a dirimere sulle grandi opzioni da prendere non solo sul piano militare per il futuro del nostro pianeta

A sinistra c’è chi ancora gioisce come nel 1975 a Saigon nel 1979 a Teheran nel vedere gli Stati Uniti sconfitti. Certo la “sinistra talebana” rappresenta solo una piccola minoranza, ma è la punta dell’iceberg di un sentimento populista di indifferenza rispetto a quanto sta accadendo a Kabul e fa da contraltare al timore – espresso da una destra nostrana altrettanto fondamentalista dietro alla difesa dell’identità e della tradizione interne – di un’immigrazione massiccia da quel Paese senza preoccuparsi del ruolo crescente e del potere di ricatto sull’Occidente che potrà rivestire un regime in grado di favorire o contrastare il flusso migratorio, decidendo a seconda delle opportunità di attivare o chiuderne il rubinetto. Un dialogo con i Talebani come quello proposto molto incautamente dall’ex premier Giuseppe Conte neoleader grillino è oggi improponibile e i Talebani dovranno sentire tutta la pressione dell’opinione pubblica mondiale (e non solo occidentale) e degli organismi internazionali per tutelare e proteggere le donne e il rispetto dei diritti umani. Una pressione forte, pragmatica e non ideologica.

Come reagirà l’Europa a questo grave scacco e alla crescita dell’influenza regionale della Turchia

Ultimata rapidamente l’evacuazione da Kabul a Roma, come a Parigi, Berlino, Madrid e Londra, compito dell’Occidente – in questo delicato autunno 2021 che ci apprestiamo a vivere e in cui non saremo purtroppo ancora usciti dalla pandemia – è non solo di favorire una ripresa della concertazione atlantica con gli Stati Uniti ma anche innanzitutto con Mosca come evocato lucidamente da Emmanuel Macron e praticato da Mario Draghi incontrando a Roma il ministro degli esteri Sergej Lavrov per evitare una nuova guerra civile afghana con conseguenze incalcolabili negli equilibri regionali.

Ma non solo. Occorre altresì pensare a come sia possibile tornare ad esercitare – con il realismo della diplomazia e non solo con la forza delle armi – un’influenza in quell’area da parte dell’Europa nel suo insieme, Regno Unito compreso, dopo il reiterato disimpegno di Joe Biden coerente con la politica estera dei democratici statunitensi. Prima che un possibile asse sino-russo costituisca il più serio antidoto a probabili nuove scintille islamiste estremiste nella regione, rincuorate dalla restaurazione dell’Emirato islamico e dal rafforzamento dell’influenza della Turchia, che, pur facendo parte della Nato “è anche ormai ostile all’Occidente, come osservato da Angelo Panebianco sul Corriere della Sera dopo che Erdogan aveva “trasformato – come già avevano fatto gli ottomani dopo la conquista di Costantinopoli nel 1453 – l’antica Basilica di Santa Sofia (diventata un museo ai tempi di Ataturk) in una Moschea” e “mandato un inequivocabile segnale di inimicizia a tutti noi”.  

Il potere dei media e degli opinionisti nell’”ora più buia” dopo la  disfatta dell’Occidente a Kabul

In questo suo editoriale del 7 settembre, il politologo bolognese sottolineava come per l’Europa la difesa comune è una esigenza politica […]. Un’Europa che scelga la coesione (militare e non) in materia di sicurezza sarebbe più attrezzata per fronteggiare le insidie, di qualunque genere siano”.

Forse questa volta ciò che rimane di quello che un tempo veniva chiamato il quarto potere dei media potrà avere a questo riguardo un ruolo significativo di sensibilizzazione sui gravi compiti che attendono il Vecchio Continente dopo il disimpegno americano, e quindi anche dei costi che si dovranno sobbarcare se vorranno continuare ad avere una voce in capitolo in quest’area così strategica per le sorti degli equilibri globali, favorendo una presa di coscienza dell’opinione pubblica europea. Assumendosi responsabilità che le classi politiche dirigenti stentano a prendere temendo di essere sconfitte da forze populiste e sovraniste che continuano a beneficiare del sostegno di consistenti strati delle proprie opinioni interne.

I media – oltre ad informare meglio e più tempestivamente le proprie platee su questi temi che non possono essere più percepiti come lontani, essendo decisivi per gli equilibri planetari che richiedono nuovi assetti a quasi ottant’anni dagli accordi di Yalta e a 32 anni dalla caduta del Muro di Berlino – devono evitare di cavalcare antichi vezzi e nella fattispecie i ridicoli quanto velleitari tentativi di esportazione dei propri valori e stili di vita percepiti come ennesime espressioni di arroganza da parte delle vecchie potenze colonizzatrici, in ogni caso come azioni improprie destinate ad assumere un effetto – boomerang su questi popoli, alimentate anche dalle fiction trasmesse su scala mondiale da emittenti come Netflix tese ad esaltare un unico modello di stile di vita e di comportamenti in nome dell’ideologia “democraticistica” e del “politicamente corretto”. Comportamenti e modelli non dissimili da quel che Giovanni Sartori chiamava il “perfezionismo democratico”, come ricordato a fine agosto sul Corriere della Sera dallo stesso Angelo Panebianco, che sottolineava la necessità di “contemperare Realpolitik e vincoli democratici” ovvero perseguire la  ricerca di “compromessi fra gli interessi (sia economici e di sicurezza) e certi vincoli, per esempio in tema di rispetto dei diritti umani, che i regimi autoritari non hanno”.

All’Europa alla ricerca sempre di una propria fisionomia politica unitaria, in quella che nelle tragiche giornate agostane del ponte aereo con Kabul è stata definita su un quotidiano italiano “L’ora più buia”, spetta a nostro parere un compito decisivo in questa fase storica. Quello di ricercare un proprio grande leader capace, di rappresentarne gli interessi (o perlomeno ricomporli) dall’Atlantico agli Urali – ovvero dalle coste delle Isole britanniche sino alla Russia – in una sorta di diplomazia post gollista, capace al contempo di risollevare la propria opinione pubblica come fece Winston Churchill dopo Dunkerque e di negoziare senza complessi reverenziali né verso Iosif Stalin ma nemmeno verso l’alleato occidentale Franklin Delano Roosevelt a ripartizione delle rispettive sfere di influenza a Yalta, ma anche di avviare nuovi confronti e dialoghi guardando anche oltre l’Atlantico verso il sempre più importante e strategico Pacifico come fece negli anni Settanta un diplomatico cinico quanto abile come fu Henry Kissinger nei confronti della Cina aprendo un secondo fronte di disgelo in Oriente dopo quello avviato per favorire la fine della guerra fredda in Occidente. Mezzo secolo dopo l’Europa trovi una propria via diplomatica unitaria cinese in risposta alla sfida lanciata da Pechino con la nuova Via della Seta e sappia curare i propri interessi non solo nel Mediterraneo e Oriente ma nel nuovo concerto globale.