Domande e risposte

Democrazia Futura. Dibattito sulla Grande trasformazione digitale con Carlo Rognoni, Mario Sai e Michele Sorice

a cura di Bruno Somalvico, storico ed esperto dei media |

Sette domande a docenti universitari, giornalisti ed esperti di settore.

Nel quarto blocco di risposte a queste stesse “Sette domande a proposito della Grande trasformazione digitale” intervengono Carlo Rognoni, giornalista già vice presidente del Senato, Mario Sai, sindacalista direttore Ufficio Studi CGIL, direttore scientifico Scuola Alta Formazione della Camera del Lavoro metropolitana di Milano e Michele Sorice, ordinario di Innovazione Democratica, Political Sociology e Sociologia della comunicazione alla LUISS di Roma. Un quadro composito certamente non omogeneo viene fuori dalle loro risposte.

Michele Sorice

Da sociologo, Michele Sorice invita a “valutare […] la portata dell’impatto culturale della trasformazione digitale. Credo tuttavia che il problema che dovremmo porci non è se la trasformazione digitale sia anche culturale (cosa, come dicevo, strutturale di qualunque fenomeno trasformativo) ma come essa si colloca all’interno del sistema economico. Credo, infatti, che qualunque riflessione sul ruolo della trasformazione digitale non possa non considerare le sue relazioni col capitalismo e, nella fattispecie, col cosiddetto capitalismo digitale. Si tratta di una trasformazione di sistema che sarebbe utile, a mio parere, tenere in conto” aggiungendo più avanti: “Siamo all’interno di una logica capitalista molto chiara, in cui il controllo sui big data è uno strumento essenziale per la creazione di monopoli e per la marginalizzazione del lavoro “materiale” nei media: un lavoro che è ancora essenziale e sui viene esercitato uno sfruttamento sistematico e selvaggio (si pensi ai lavoratori che estraggono le “terre rare”, fondamentali per l’esistenza stessa di un mondo digitale)”.

Carlo Rognoni

Carlo Rognoni pur consapevole degli effetti prodotti dalle bolle e dai filtri digitali nella restrizione degli spazi pubblici, ritiene “che siamo obbligati a tentare di essere ottimisti sul futuro che ci aspetta, sono personalmente convinto che sia possibile rilanciare l’idea di una società della conoscenza aperta e condivisa. Solo gli ottimisti cambiano il mondo. I pessimisti non inventano nulla di nuovo e non fanno rivoluzioni. Come scrive Alec Ross ne I furiosi Anni Venti dovremmo prendere ispirazione dalle parole di Roosevelt: “E’ meglio osare gesta possenti, vincere gloriosi trionfi anche se intervallati dai fallimenti, piuttosto che unirsi ai poveri di spirito che non amano molto né soffrono molto perché vivono in un crepuscolo grigio che non conosce vittorie né sconfitte”.

Mario Sai

Per Mario Sai infine “Il controllo della gestione dei big data è davvero lo strumento di una nuova forma di dominio di un capitalismo digitale che esercita una stretta sorveglianza su tutta l’attività di un mondo globalizzato”. Non è accettabile a parere del sindacalista della CGIL “l’idea, che sta alla base della narrazione che circonda i capitalisti dei big tech, di un potere buono a cui non si può fare altro che conformarsi. La questione non è allora fake news contro buona informazione, ma il diritto in una società democratica a un dibattito aperto e informato”, prima di concludere: “Perché la politica e la democrazia riconquistino campo nel disegno del futuro la condizione è non solo il diritto al dissenso e al conflitto, ma la capacità di progettare alternative alle tendenze in atto. Questo a cominciare dai luoghi di lavoro. Senza una critica al capitalismo non ci può essere critica al capitalismo digitale. Dietro la narrazione dell’immateriale per troppo tempo si è occultato il fatto che la grande trasformazione digitale è fatta di minerali rari e di minatori; di acciaio e plastica e quindi di operai; di software houses e di tecnici spesso precari e poco pagati“.

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IV. Le risposte di Carlo Rognoni, Mario Sai, e Michele Sorice

1) La grande trasformazione digitale è interpretabile come “una grande trasformazione culturale”? O è più semplicemente una nuova modalità tecnologica (numerica) di produzione e distribuzione di creazioni ed oggetti culturali e della loro diffusione/divulgazione?

Carlo Rognoni
E’ sicuramente – e a proposito non ho dubbi – una grandissima trasformazione culturale, sociale, politica.

Mario Sai
Il processo di digitalizzazione, con la sua potenza di calcolo e velocità di comunicazione, costituisce un salto tecnologico che  può essere parte di una grande trasformazione culturale se, alla sua base, c’è una impostazione che supera ogni determinismo tecnologico e organizzativo, se fuoriesce dalla cosiddetta one best way tayloristica.

Michele Sorice
Non esistono trasformazioni tecnologiche che non abbiano anche un impatto culturale e/o sui comportamenti d’uso. Che poi producano anche un cambiamento “antropologico”, come spesso si sente dire, è invece un altro discorso. Ciò che bisognerebbe, eventualmente, valutare è la portata dell’impatto culturale della trasformazione digitale. Credo tuttavia che il problema che dovremmo porci non è se la trasformazione digitale sia anche culturale (cosa, come dicevo, strutturale di qualunque fenomeno trasformativo) ma come essa si colloca all’interno del sistema economico. Credo, infatti, che qualunque riflessione sul ruolo della trasformazione digitale non possa non considerare le sue relazioni col capitalismo e, nella fattispecie, col cosiddetto capitalismo digitale. Si tratta di una trasformazione di sistema che sarebbe utile, a mio parere, tenere in conto.

2) II digitale è davvero un “ordine che cambia radicalmente l’economia, la politica, la società, la storia e muta radicalmente i modi di apprendere, lavorare, relazionarsi, fare impresa, amministrare la cosa pubblica” o è più semplicemente un aggettivo che caratterizza l’attuale fase dello sviluppo tecnologico, come fu per la meccanica, l’elettronica, eccetera?

Carlo Rognoni
Non è affatto un semplice aggettivo. E’ una rivoluzione.

Mario Sai
Il digitale si è innervato potentemente nei cambiamenti dei modi di apprendere, lavorare, relazionarsi, fare impresa, amministrare la cosa pubblica. Coloro che più hanno, ne hanno guadagnato, sono quei ceti medi “colti e connessi”, a cui Paul Mason affidava il compito di guidarci nel futuro del postcapitalismo[1].

Michele Sorice
Il digitale non è solo un aggettivo e sicuramente contribuisce a un cambiamento radicale del lavoro, del modo di studiare e così via. Attenzione, però, a non ripetere l’errore dei tecno-ottimismi acritici di fine anni Novanta che, individuando il potenziale trasformativo del digitale, gli attribuivano un ruolo egalitario e democratizzante che non ha mai avuto (e che non poteva avere, peraltro). Un altro limite analitico è quella specie di “mediacentrismo” che finisce, peraltro, con anestetizzare il ruolo e il significato sociale della comunicazione; che è importantissima perché sta in una cornice sociale. Il digitale va comunque collocato nelle dinamiche di sviluppo del neoliberismo, anzi nella nuova “razionalità neoliberista”, per dirla con Pierre Dardot e Christian Laval[2].

3) Per quali ragioni la promessa di “un universo digitale libero, aperto, trasparente, di conoscenza condivisa, di benessere” si è trasformata in una realtà di “disinformazione, polarizzazione settaria, sfiducia risentita, forti diseguaglianze”? È possibile che la straordinaria utopia del World Wide Web possa essere riutilizzata per consentire un dibattito pubblico informato, consapevole e partecipato?

Carlo Rognoni
Senza il World Wide Web oggi non sarebbe possibile un dibattito pubblico informato, consapevole e partecipato. E tuttavia se dobbiamo vedercela con “disinformazione, polarizzazione settaria, sfiducia risentita, forti diseguaglianze” è perché la rivoluzione digitale – come tutte le rivoluzioni – porta con sé molti punti, molti aspetti controversi e discutibili.

Mario Sai
La crescita del ruolo delle città e al loro interno dei questi nuovi ceti medi ha dato valore alla narrazione di un universo digitale libero, aperto, trasparente, di conoscenza condivisa, di benessere, alla cui base doveva stare la nuova etica hacker descritta da Pekka Himanen[3]. Sconfitta la fase eroica e anarchica della Rete come luogo della disintermediazione dai poteri, del mondo orizzontale dell’uno vale uno, è restata una idea di società dove la piccola borghesia, che monopolizza politica e cultura, per dirla alla Paul Nizanguarda con timore e alterigia i quartieri operai e con invidia e desiderio le ville della grande borghesia”. E’ cominciata l’era degli Steve Jobs, che hanno colonizzato la rete costruendovi walled garden, dove solo comunità di pari si collegano e si incontrano escludendo i diversi.

Michele Sorice
I meccanismi di polarizzazione sono funzionali alla dimensione estrattiva della rete; il dato dell’intimità (che è un bene economico di alto valore) assume significato dentro una prospettiva politica polarizzata. Al tempo stesso, tale polarizzazione è funzionale ai fenomeni di frammentazione della sfera pubblica: tanto più essa si frammenta, infatti, tanto più diventa impossibile un legame coesivo fra esperienze alternative o di contro potere e così emerge una sorta di pensiero unico – che non è unificante ma solo egemonico. Aggiungerei, poi, che l’idea del web come spazio di condivisione apparteneva alla ricerca e ad alcuni studiosi visionari; per i più, il web era spazio di emersione dell’individualità. E, in effetti, quest’ultima tendenza si è affermata e con essa quella dell’accumulazione (basti pensare alla logica del successo misurato in numero di followers o alle strategie di “news engagement” per legittimare posizioni politiche). Anche i social – fatta salva la prima fase “aurorale” di emersione del fenomeno, dove la dimensione comunitaria era rappresentata dall’appartenenza etnico-culturale – si sono subito evoluti come spazi di emersione e affermazione dell’individualismo, non certo di quel sogno di soggettività comunitaria che aveva contraddistinto le speranze di molti.

4) Per quali ragioni si sono affermati monopoli di fatto di poche piattaforme egemoni fondate su sistemi proprietari e in che modo queste potrebbero essere diversamente regolate e responsabilizzate in un’economia di mercato più aperta?

Carlo Rognoni
La politica è in ritardo rispetto alla rivoluzione digitale. E tuttavia, personalmente, voglio credere che sarà possibile regolare lo strapotere – oggi evidente – di poche piattaforme fondate su sistemi proprietari. Deve crescere il diffondersi della consapevolezza del profondo cambiamento in atto.

Mario Sai
Doveva essere il controllo sociale dei cittadini e quello democratico degli Stati sulla Rete a impedire che si affermassero monopoli di fatto di poche piattaforme egemoni. Ciò che si è realizzato è, invece,  il loro dominio pervasivo. I big tech nel loro opporsi a una economia di mercato “aperta” trovano il consenso di miliardi di consumatori per i quali i loro servizi sono ormai considerati condizione necessaria del buon vivere

Michele Sorice
Esattamente perché tale è la logica dell’economia di mercato. Il meccanismo di “piattaformizzazione” sociale è strettamente connesso con l’affermazione di nuove tendenze del neoliberismo (quello autoritario da una parte e quello di “senso comune” dall’altra, e quest’ultimo forse con maggiore peso). Ripensare a un impegno “comune” – capace di andare cioè oltre l’antinomia pubblico-privato – nell’ambito della comunicazione digitale poteva essere importante. Ma mi sembra che su questa dimensione – tranne poche voci isolate – non ci sia stata una vera riflessione e quando c’è stata essa si è collocata in una logica vecchia, capace persino di produrre potenzialmente nuovi danni (come quelli provenienti dal controllo diretto dello Stato, che in alcuni paesi – e ne vediamo comunque gli esiti – significa controllo totalitario). Esplorare una diversa prospettiva è possibile e doveroso. In tale prospettiva, tante studiose e studiosi parlano oggi di una prospettiva “socialista” per il sistema della comunicazione globale. E non è un caso che l’espressione “digital socialism” sia diventata importante nel dibattito accademico.

5) Il controllo della gestione dei big data è davvero lo strumento di una nuova forma di dominio di un capitalismo digitale che esercita una stretta sorveglianza su tutta l’attività in un mondo globalizzato e come tale è destinato ad essere il motore di un nuovo profitto per un lungo periodo dell’umanità o siamo solo in una prima fase di accumulazione primitiva cui seguirà una fase di assestamento e di ridistribuzione delle ricchezze grazie alla ripresa del controllo o comunque dell’indirizzo esercitato da entità statuali o sovra-statuali di fronte alle nuove sfide e ai nuovi rischi globali: sanitari, climatici, ambientali?

Carlo Rognoni
Mi piace pensare che di fronte alle nuove sfide e ai nuovi rischi globali (sanitari, climatici, ambientali) la politica possa tornare a essere consapevole del ruolo determinante che le spetta. Senza l’ottimismo non si va da nessuna parte, si subisce e basta lo strapotere della rivoluzione digitale.

Mario Sai
Tutto questo è prodotto non dalla potenza delle tecnologie, ma dal modo di strutturarsi della produzione e della società. La rivoluzione toyotista ha rovesciato il modello fordista fatto di concentrazione di uomini e macchine e lo ha fatto diventare reti di produzione sparse nel mondo globale, di cui il digitale costituisce connessione e sistema nervoso. Ha modificato il comando gerarchico in partecipazione per pochi e precarietà per molti. Taiichi Ohno sta alla base di quelle  trasformazioni non solo produttive, ma culturali, centrate sulle comunità aziendali, sul conformismo di gruppo, sulla competizione di tutti contro tutti, che troviamo  riverberate nella struttura dei social. Più del comando diretto contano il consenso e una nuova forma di controllo, a cui è essenziale l’appropriazione dei dati. Il controllo della gestione dei big data è davvero lo strumento di una nuova forma di dominio di un capitalismo digitale che esercita una stretta sorveglianza su tutta l’attività di un mondo globalizzato.

Michele Sorice
Il controllo dei big data è una questione strategica che riguarda sia gli apparati statali sia le organizzazioni sovranazionali. Non sono un complottista (anche perché i complottismi, alla fine, sono funzionali alle forze più conservatrici) e quindi non guardo ai big data come un terreno di conquista da parte del capitale per esercitare un dominio globale. Credo, invece, che il controllo dei big data rientri in quella dinamica di sfruttamento di cui dicevo nelle risposte precedenti. Siamo all’interno di una logica capitalista molto chiara, in cui il controllo sui big data è uno strumento essenziale per la creazione di monopoli e per la marginalizzazione del lavoro “materiale” nei media: un lavoro che è ancora essenziale e sui viene esercitato uno sfruttamento sistematico e selvaggio (si pensi ai lavoratori che estraggono le “terre rare”, fondamentali per l’esistenza stessa di un mondo digitale). Il clima è un bell’esempio e ti ringrazio per questo: è un ambito su cui si gioca una partita molto importante perché non riguarda solo il tema della riconversione o – peggio – le dinamiche di greenwashing sempre presenti nel tessuto culturale “neoliberal”. La partita sul clima riguarda i modelli di sviluppo, l’adozione di una prospettiva della “cura” e non è solo un depuratore in più. Non è un caso che sul clima esista una vasta letteratura (e tanti movimenti) nell’ambito delle prospettive ecofemministe ed ecosocialiste.

6) “Le bolle e i filtri digitali costruiti attorno gli utenti dalle piattaforme restringono gli spazi pubblici, frammentando e polarizzando le opinioni, anziché favorire come la stampa e i mezzi di comunicazione nelle società aperte la formazione di un’opinione pubblica informata e conoscenze aperte e verificate”. Si tratta di un fenomeno irreversibile di riduzione e frammentazione della sfera pubblica destinato a segnare la storia nei prossimi decenni o è ancora possibile governare la rete e rilanciare quella società della conoscenza aperta e condivisa a cui aspiravano i fondatori del Web?

Carlo Rognoni
Consapevole che siamo obbligati a tentare di essere ottimisti sul futuro che ci aspetta, sono personalmente convinto che sia possibile rilanciare l’idea di una società della conoscenza aperta e condivisa. Solo gli ottimisti cambiano il mondo. I pessimisti non inventano nulla di nuovo e non fanno rivoluzioni. Come scrive Alec Ross ne I furiosi Anni Venti dovremmo prendere ispirazione dalle parole di Roosevelt: “E’ meglio osare gesta possenti, vincere gloriosi trionfi anche se intervallati dai fallimenti, piuttosto che unirsi ai poveri di spirito che non amano molto né soffrono molto perché vivono in un crepuscolo grigio che non conosce vittorie né sconfitte” [4].

Mario Sai
Le bolle e i filtri digitali costruiti attorno agli utenti delle piattaforme realizzano quel modello sociale fatto di “isole nella rete“, come era nella distopia di Bruce Sterling. Le città del lockdown queste sono state: non più articolazione di quartieri e comunità urbane, ma reti di “appartamenti”, da cui chi poteva costruiva socialità solo attraverso la mediazione digitale. Il modo come è stata gestita la pandemia (il confinamento, la chiusura delle scuole, il lavoro a distanza, il lasciapassare digitale obbligatorio non solo nella vita di relazione ma per poter essere abilitato al lavoro) ha costituito una lunga educazione di massa alla condivisione dell’idea, che sta alla base della narrazione che circonda i capitalisti dei big tech, di un potere buono a cui non si può fare altro che conformarsi.  La questione non è allora fake news contro buona informazione, ma il diritto in una società democratica a un dibattito aperto e informato. Senza di questo, nella riduzione e frammentazione della sfera pubblica, senza una possibilità di verifica delle scelte politiche presentate sempre come necessarie e poste in capo a “uomini della necessità”, la reazione è stata rabbia, paura, aggressività; spazio aperto ai novax e alla narrazione sul complotto vaccinale; riconquistata visibilità delle formazioni neo-fasciste e della loro violenza. La potenza del digitale a questo è servita.

Michele Sorice
La frammentazione, come dicevo prima, produce l’affermazione di un pensiero unico neoliberista e non è sinonimo di pluralità, né di esperienze né di informazione. Non so se il fenomeno è irreversibile, di certo è a uno stadio molto avanzato. Colin Crouch scriveva recentemente (2020)[5] che la visione “pessimistica” del suo lavoro sulla postdemocrazia (2003)[6] era sbagliata perché troppo … “ottimistica”! Come dire, che la situazione reale è ancora peggiore delle analisi scientifiche. La società della conoscenza è un’utopia possibile ma prima c’è bisogno di un impegno concreto per la conoscenza, e peraltro per una conoscenza meno conformista e “sgomitante” e, al contrario, più critica e solidale. Non mi sembra di vedere questa prospettiva al momento. Una prova di questo risiede anche nella standardizzazione della cultura accademica e nel tentativo di marginalizzare qualunque approccio critico. Il punto vero è che una società della conoscenza – per sua natura aperta, inclusiva e solidale – non esiste al di fuori delle logiche economiche e politiche; essa è possibile realisticamente solo in una cornice diversa da quella del mercato, in un quadro sociale ecosocialista e umanista.

7) La politica e la democrazia potranno riconquistare campo nel disegno del futuro e nella ricerca del bene comune o il tecno-capitalismo dei dati e della sorveglianza è destinato ad egemonizzare il governo delle prossime generazioni, segnando il tratto caratteristico di società tecnocratiche, autocratiche, post-democratiche?     

Carlo Rognoni
Voglio pensare che ci sia “un modello italiano”, “un modello europeo” da contrapporre ai modelli americano e cinese. In Italia e in Europa c’è un modello di contratto sociale che dovrebbe garantire – molto più che in America o in Cina o in Russia – l’equilibrio fra aziende, governo e cittadini. “Pensate a un fruttivendolo”. In quasi tutti i paesi sviluppati questo tipo di negozio non esiste più. Eppure che vita sarebbe senza più il nostro fruttivendolo sotto casa? Dal piccolo al grande: per aiutare una nuova generazione a crescere, ad affermarsi, a farsi carico delle più spaventose contraddizioni dovute alla globalizzazione e alla rivoluzione digitale, abbiamo bisogno delle donne, di dare più potere alle donne, che vuole anche dire maggiori livelli di intelligenza emotiva.

Mario Sai
Perché la politica e la democrazia riconquistino campo nel disegno del futuro la condizione è non solo il diritto al dissenso e al conflitto, ma la capacità di progettare alternative alle tendenze in atto. Questo a cominciare dai luoghi di lavoro. Senza una critica al capitalismo non ci può essere critica al capitalismo digitale. Dietro la narrazione dell’immateriale per troppo tempo si è occultato il fatto che la grande trasformazione digitale è fatta di minerali rari e di minatori; di acciaio e plastica e quindi di operai; di software houses e di tecnici spesso precari e poco pagati. Il blocco delle reti, il silenzio di Whatsapp, l’obbligo dei tecnici di correre di persona alla sede centrale per sistemare le macchine come la crisi dei chip o gli scioperi nella logistica, dimostrano che il tecno-capitalismo è un gigante dai piedi di argilla se la sua contestazione non è fatta solo di critica al controllo dei flussi dei dati,  ma al dominio  sul lavoro. E’ la politica dei ceti medi “colti e connessi”, che guidano i partiti, il punto critico: o si volge al  riconoscimento del ruolo centrale del lavoro e della necessità che i lavoratori partecipino alla direzione del Paese oppure continuerà la decadenza democratica, di cui l’astensionismo è un segnale forte, e la frantumazione sociale, di cui la digitalizzazione sarà catastrofico moltiplicatore

Michele Sorice
Per rispondere a questa domanda bisognerebbe avere una capacità di preveggenza che purtroppo non ho. La cultura del comune – o del bene comune – è l’unico spazio “rivoluzionario” praticabile e costituisce un orizzonte ideale. Non è un caso che i movimenti eco-socialisti, le nuove generazioni del femminismo marxista e la galassia di realtà che si batte per una nuova “società della cura” riconoscano la centralità strategica degli ecosistemi comunicativi digitali. Non so se queste realtà politiche – spesso giovani – prevarranno. Di certo, il capitalismo della sorveglianza sembra essere oggi funzionale alla “razionalità neoliberista” e, per molti versi, vincente. Il mio cuore, però, continua a stare con chi lotta per affermare il paradigma della cura. Che è poi l’unico modo per affermare il valore universale della democrazia.


[1]Paul Mason, PostCapitalism. A Guide to our Future, London, Allan Lane, 2015, 368 p. Traduzione italiana di Fabio Galimberti: Post capitalismo. Una guida al nostro futuro, Milano, Il Saggiatore, 2016, 382 p.

[2] Pierre Dardot, Christian Laval, La nouvelle raison du monde. Essai sur la société néolibérale, Paris, La Découverte, 2009, 498 p. Traduzione italiana di Riccardo Antoniucci e Marco Lapenna, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista. Prefazione di Paolo Napoli, Roma DerivApprodi, 2019 433 p.

[3]Pekka Himanen, The hacker ethic and the spirit of the information age, Prologue Linus Torvalds; epilogue Manuel Castells, London-New York, Secker & Warburg – Random House, 2001, XVII-232 p. Traduzione italiana di Fabio Zucchella: L’etica hacker e lo spirito dell’età dell’informazione; prologo di Linus Torvalds; epilogo di Manuel Castells, Milano, Feltrinelli, 2001, 172 p.

[4] Alec Ross, The Raging 2020s. Companies, Countries, People and the Fight for Our Future, New York, Henry Holt & Co 2021, 320 p. Traduzione italiana: I furiosi anni venti. La guerra fra Stati, aziende e persone per un nuovo contratto sociale, Milano, Feltrinelli, 2021, 304 p.

[5] Colin Crouch, Combattere la post-democrazia, traduzione di Marco Cupellaro, Bari-Roma, Laterza, 2020, 196 p. Poi in lingua originale: Postdemocracy. After the Crises, Cam- bridge Medford Massachusetts, Polity Press, 2020, 187 p.

[6] Colin Crouch, Postdemocrazia, edizione italiana a cura di Cristiana Paternò, Roma-Bari, Laterza, 2004, 148 p. Poi in lingua originale: Post-democracy, Malden Massachusetts, Polity Press, 2004, XI-135 p.