Domande e risposte

Democrazia Futura. Dibattito sulla Grande trasformazione digitale con Cecilia Clementel-Jones, Massimo De Angelis, e Angelo Luvison

a cura di Bruno Somalvico, storico ed esperto dei media |

Sette domande a docenti universitari, giornalisti ed esperti di settore.

Cecilia Clementel-Jones

Sulla base delle considerazioni di Pieraugusto Pozzi (1) Bruno Somalvico nel numero estivo di Democrazia futura aveva posto “Sette domande a proposito della Grande trasformazione digitale” ad accademici giornalisti ed esperti, raccogliendole in quattro blocchi usciti in quel fascicolo. Il dibattito prosegue in questo quarto numero con un quinto blocco in cui  Cecilia Clementel-Jones, psichiatra e psicoterapeuta, Massimo De Angelis, scrittore e giornalista e Angelo Luvison ingegnere elettronico, ex dirigente CSELT-TIM, già docente di Teoria dell’Informazione all’Università di Torino, con accenti diversi analizzano le problematiche evidenziate negli interrogativi loro sottoposti condividendo le riflessioni dell’introduzione del Piccolo dizionario della Grande Trasformazione digitale ma esprimendo punti di vista specifici approdando a considerazioni e soluzioni diverse.  Per Cecilia Clementel-Jones “Ogni svolta tecnologica tende a magnificarsi, se cambiamento sociale storicamente rilevante si verificherà si vedrà a posteriori (pensiamo alle ferrovie) e io penso che la direzione del cambiamento non è predeterminata dalla tecnologia ma dalla risposta sociale e culturale che essa evoca, diversa in classi diverse e in regioni geografiche culturalmente omogenee (per intenderci: la reazione della Cina ai social media si sta differenziando da quella occidentale). E’ possibile che una svolta epocale sia determinata da altre cause che metteranno l’informatica in secondo piano”.

Massimo De Angelis

Per Massimo De Angelis “quella del digitale più che una promessa è una ideologia. Che nasconde non solo volontà di potenza ma di comando. È intrinsecamente autoritaria. Ci ordina di essere tutti uguali, tutti corretti, tutti transessuali o disponibili ad esserlo […]  l’ideologia di Google, Facebook &Co. detesta il conflitto e pretende armonia, inclusione e quant’altro. In tal senso più che una grande utopia mi sembra una grande distopia. Stiamo però assistendo, forse, a una prima frattura. Con l’espulsione di Donald Trump dal consorzio digitale è cominciata l’epoca del ban, del bandire. Prevedo che si svilupperà. Crescerà il numero di coloro che penseranno e diranno che come solo certe vite sono degne di essere vissute, così solo certi individui sono degni di essere digitalmente sociali. Gli altri dovranno essere considerati non persone. Ecco che allora il postmoderno rischia di assomigliare molto all’antico: a una separazione dell’umanità tra signori (relativamente pochi, come vagheggiava Adolf Hitler) e servi (la moltitudine di cui parla anche Toni Negri).

Angelo Luvison

A quel punto, come in tanti film distopici, la civiltà farà fatica a riconoscersi e qualcosa di grandioso avverrà comunque. In materia di educazione per Angelo Luvison “le contaminazioni tra le cosiddette liberal arts o humanities (scienze umanistiche), proprie degli studi di matrice filosofico-letteraria, e gli insegnamenti basati su discipline scientifiche di ambito STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics) sono aumentate: si pensi, per esempio, alle reti. Esse costituiscono in concreto un attualissimo esempio di tema interdisciplinare; infatti, a seconda della tipologia, possono essere classificate in: elettriche, di trasporto, di telecomunicazioni, relazionali e sociali, biologiche, neurali, epidemiologiche, ecc. Questo discorso focalizza l’intersezione tra discipline STEM e discipline umanistiche. Purtroppo il settore STEM, benché (o forse proprio per questo) produttore di conoscenze concrete, utili e reali, è ancora considerato un sapere “minore” da una parte influente dell’élite culturale italiana. Viceversa, solo ponti fra le due culture – tecnoscienza e humanities – possono consentire di superare la frammentarietà, soprattutto italiana, che finora le ha caratterizzate”.

Nota al testo

(1) https://www.key4biz.it/democrazia-futura-la-grande-trasformazione-digitale-in-un-piccolo-dizionario/376465/

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1) La grande trasformazione digitale è interpretabile come “una grande trasformazione culturale”? O è più semplicemente una nuova modalità tecnologica (numerica) di produzione e distribuzione di creazioni ed oggetti culturali e della loro diffusione/divulgazione?

Cecilia Clementel-Jones
La tecnologia informatica si potrebbe paragonare alle tavolette di terracotta sumere, che comportavano un maggior potere della classe che le compilava e una riorganizzazione sociale, registrando dati e misure precedentemente disponibili oralmente.

Massimo De Angelis
È fondamentalmente una gigantesca trasformazione tecnologica che aumenta funzioni, rapidità delle operazioni degli individui e della comunità umana. Aumenta la loro potenza. Ma non aumenta granché la loro capacità di dominare gli effetti. Tanto meno credo che si possa parlare di trasformazione culturale. Per parlare di ciò dovrebbe esserci l’accrescimento della consapevolezza e di quello che Romano Guardini definiva il potere sul potere tecnico. Questo non c’è. Le persone sono rimpinzate di strumenti e consumi tecnologici che per lo più vivono come magici. In più vi è l’ideologia del digitale. Quella promossa dai grandi gruppi che parlano di inclusione, armonia resilienza a ogni piè sospinto per nascondere e spegnere i conflitti che pure ci sono e giungere a una umanità sedata. Al grande gregge. Studiando alcuni pionieri del digitale, come di recente Shoshana Zuboff ha messo in mostra, si capisce che tali esiti erano stati non solo previsti ma progettati.

Angelo Luvison (1)
Già oggi viviamo nel pieno della società dell’informazione, se non della conoscenza, originata dai pionieristici studi tecno-scientifici di Claude Shannon (telecomunicazioni), Alan Turing (informatica teorica) e John von Neumann (computer science). Le sue dinamiche di trasformazione sono state e continueranno a essere generate dall’Information and Communications Technology (ICT), in generale, e dalle applicazioni del sistema 5G (poi 6G), in particolare. Così come verranno dall’intelligenza Artificiale (AI) e dalla robotica che sono fondamentalmente prodotti e innovazioni dell’ICT. Gli effetti culturali si vedono nell’ecosistema digitale, nell’infosfera (termine coniato da Alvin Toffler e ripreso da Luciano Floridi) e nell’umanesimo digitale. Siamo dunque nel pieno di “una grande trasformazione culturale”: sta a noi saperla pilotare e governarne gli effetti. A questo proposito, non bisogna mai scordare le sempreverdi leggi di Melvin Kranzberg sulla tecnologia, di cui la prima e più importante è: “Technology is neither good nor bad; nor is it neutral”.

2) II digitale è davvero un “ordine che cambia radicalmente l’economia, la politica, la società, la storia e muta radicalmente i modi di apprendere, lavorare, relazionarsi, fare impresa, amministrare la cosa pubblica” o è più semplicemente un aggettivo che caratterizza l’attuale fase dello sviluppo tecnologico, come fu per la meccanica, l’elettronica, eccetera?

Cecilia Clementel-Jones
Ogni svolta tecnologica tende a magnificarsi, se cambiamento sociale storicamente rilevante si verificherà si vedrà a posteriori (pensiamo alle ferrovie) e io penso che la direzione del cambiamento non è predeterminata dalla tecnologia ma dalla risposta sociale e culturale che essa evoca, diversa in classi diverse e in regioni geografiche culturalmente omogenee (per intenderci: la reazione della Cina ai social media si sta differenziando da quella occidentale). E’ possibile che una svolta epocale sia determinata da altre cause che metteranno l’informatica in secondo piano.

Massimo De Angelis
L’ordine mi pare indubbio. Anche il cambiamento mi pare indubbio ed è sotto gli occhi di tutti. La domanda è sulla qualità e gli effetti di tale cambiamento. L’economia cresce, fare business è più facile e più rapido, ma il mondo dell’economia è più precario e il lavoro umano cresce in potenza ma si svalorizza, la politica (democratica) perde impatto che è riservato ai sacerdoti delle tecniche, l’apprendimento cresce potenzialmente in modo impressionante ma insieme si immiserisce e non parliamo del relazionarsi umano. Le relazioni umane on line, quando non perverse, sono comunque assai limitate e limitanti.

Angelo Luvison
La mia riposta in senso affermativo alla prima opzione è contenuta implicitamente nella precedente domanda. Qui potrei aggiungere che per molti di noi, la vita, nel bene e nel male, sta inesorabilmente passando da offline a online. Pensiamo alle reti e alle nuove forme di relazione o comunicazione, al telelavoro, alla didattica a distanza, al trading online, alle valute virtuali: la tecnoscienza non può non trasformare radicalmente economia, cultura, società, relazioni internazionali (sì, mettiamoci pure, benché obtorto collo, le guerre eccetera),  nelle forme già note o esistenti, e crearne di affatto nuove, al momento imprevedibili, benché governabili.

3) Per quali ragioni la promessa di “un universo digitale libero, aperto, trasparente, di conoscenza condivisa, di benessere” si è trasformata in una realtà di “disinformazione, polarizzazione settaria, sfiducia risentita, forti diseguaglianze”? È possibile che la straordinaria utopia del World Wide Web possa essere riutilizzata per consentire un dibattito pubblico informato, consapevole e partecipato?

Cecilia Clementel-Jones
In parte l’utopia del www è creata da una generazione a ideologia hippie e libertaria che si è dissipata, in parte costituisce una versione mediatica, uno storytelling di una attività commerciale che fa soldi con la pubblicità e la vendita di dati. Con un coltello si fanno molte cose diverse, gli open source, wikipedia e una mole di conoscenza condivisa permetterebbero di andare verso il sogno iniziale. Altre forze, politiche e istituzionali, con gli stessi strumenti hanno spinto disinformazione, polarizzazione settaria e pornografia, che certamente rendono di più. Sarà interessante vedere se governi ‘autoritari’ riusciranno a controllare il web e per quali scopi, e se i paesi OCSE riusciranno a regolamentare e a tassare i monopoli informatici.

Massimo De Angelis
Come ho già detto, quella del digitale più che una promessa è una ideologia. Che nasconde non solo volontà di potenza ma di comando. È intrinsecamente autoritaria. Ci ordina di essere tutti uguali, tutti corretti, tutti transessuali o disponibili ad esserlo. Gli anni di pandemia, gli anni della Grande sedazione, stabiliscono in tal senso uno spartiacque. Naturalmente l’ideologia di Google, Facebook &co. detesta il conflitto e pretende armonia, inclusione e quant’altro. In tal senso più che una grande utopia mi sembra una grande distopia. Stiamo però assistendo, forse, a una prima frattura. Con l’espulsione di Donald Trump dal consorzio digitale è cominciata l’epoca del ban, del bandire. Prevedo che si svilupperà. Crescerà il numero di coloro che penseranno e diranno che come solo certe vite sono degne di essere vissute, così solo certi individui sono degni di essere digitalmente sociali. Gli altri dovranno essere considerati non persone. Ecco che allora il postmoderno rischia di assomigliare molto all’antico: a una separazione dell’umanità tra signori (relativamente pochi, come vagheggiava Adolf Hitler) e servi (la moltitudine di cui parla anche Toni Negri). A quel punto, come in tanti film distopici, la civiltà farà fatica a riconoscersi e qualcosa di grandioso avverrà comunque. Temo qualcosa di grandioso ma non di umanamente bello.

Angelo Luvison
Prima considerazione: parto da un detto di Jonathan Swift: “Un uomo [una persona] non verrà mai indotto con il ragionamento a correggere un’opinione errata che non ha acquisito ragionando”.
Ecco la base cognitiva dell’irrazionalità dilagante (effetto: echo chamber) dai social network ai mercati finanziari. Senza contare i bias cognitivi, i gap emotivi, i disturbi da rumore di cui scrivono diffusamente lo psicologo Daniel Kahneman e soci. La ormai celebre distinzione di Kahneman tra pensieri lenti e veloci suggerisce una chiave interpretativa delle reazioni dei prosumer del Web sulla base di ragione e logica, oppure di emotività e impulsività. I pensieri veloci, detti intuitivi o del sistema 1, sono quelli istintivi e veloci che portano ad azioni automatiche. I pensieri lenti, che possono essere definiti analitici o riflessivi del sistema 2, richiedono invece consapevolezza e attenzione a ciò che si sta pensando. Purtroppo, il principio di Swift sembrerebbe porre un limite invalicabile tra i due sistemi.
Seconda considerazione: il sociologo Zygmunt Bauman aveva proposto il neologismo “retrotopia” per indicare l’atteggiamento di coloro, e sono molti, che in un’epoca di incertezze preferiscono guardare al passato anziché a un futuro migliore. Non stupiamoci più di tanto se, in questo humus tecnofobo e misoneista, nascono, crescono e prosperano i movimenti no mask, no vax, no green pass, no 5G, no AI…, no tutto. Questi appartengono a gruppi di persone che dimostrano di essere anche “no brain”, quindi “no futuro”. Così si comprende anche perché: “I social media danno diritto di parola [e scrittura] a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar […], senza danneggiare gli altri. […] È l’invasione degli imbecilli”, diceva Umberto Eco in una delle tante gemme memorabili.
Il conduttore Enrico Mentana coniò anche l’epiteto di “webeti”, ebeti del web – o cybercitrulli secondo altri. In definitiva, a quanto esemplificato possono essere attribuiti i vincoli cognitivi e comportamentali che rendono tuttora difficile “un dibattito pubblico informato, consapevole e partecipato”, vincoli non imputabili al Web di per sé. La mia proposta alla fine di questo documento di “formazione come strumento di base per guidare la transizione” vorrebbe sintetizzare uno degli strumenti necessari per realizzare “un universo digitale libero, aperto, trasparente, di conoscenza condivisa, di benessere”.

4) Per quali ragioni si sono affermati monopoli di fatto di poche piattaforme egemoni fondate su sistemi proprietari e in che modo queste potrebbero essere diversamente regolate e responsabilizzate in un’economia di mercato più aperta?

Cecilia Clementel-Jones
The action is in USA e negli Stati Uniti le robuste leggi antitrust sono state neutralizzate. Credo che il passaggio da un’economia di produzione ad una economia finanziarizzata abbia dato il colpo di grazia, rendendo quasi impossibile per le start up avere finanziamenti senza esser vincolati alla logica dominante. Comunque una start up che ha successo viene messa all’incanto. Pensare all’interno di questo sistema economico non mi interessa: esso non è compatibile con la sopravvivenza del nostro mondo.

Massimo De Angelis
Questa è davvero una bella domanda. Sul perché i giganti digitali Agfa&co, essendosi trovati foreste vergini inaudite da sfruttare lo abbiano voluto fare il più possibile in proprio, non credo ci sia molto da dire. Che cosa avrebbe fatto chiunque altro? Sul perché il potere democratico non abbia provveduto pure c’è poco da dire: debolezza, corruzione , forse soprattutto difficoltà a comprendere un fenomeno così rapido e tumultuoso. E poi la politica democratica è più lenta. Il potere cinese ha capito assai prima e assai meglio piegando le tecnologie ai suoi interessi. Per rimanere in corsa il potere democratico rischia sempre più di perdere sé stesso finendo per assomigliare ai sistemi non-democratici. Però questa è la vera gara contro il tempo. Il potere digitale di per sé spinge a una soluzione apparentemente libertaria ma nella sostanza autoritaria e può convergere con gli altri poteri totalitari del pianeta. A quel punto anche le altre grandi questioni globali (ambiente e immigrazione) potranno essere affrontate o a partire dal locale, dal territorio, dalle persone o dall’alto in modo autoritario. La volontà democratica che ancora serpeggia nel pianeta ha poco tempo per svegliarsi. Credo che sarà quasi inevitabile la via che si imboccherà. Ho sostenuto che l’Afghanistan ha segnalato l’esaurimento della spinta propulsiva della liberal democrazia occidentale. Forse i prossimi dieci anni di digitale potranno edificarne la tomba.

Angelo Luvison
Le reti di comunicazione non sono solo un insieme di apparati elettronici; esse esistono e si sviluppano grazie ad un ecosistema mondiale estremamente complesso e articolato, che include soggetti e aziende diversificate (operatori di rete, fornitori di servizi, società Over-The-Top – OTT, come Google/Facebook/Amazon/Netflix, costruttori di apparati, costruttori di terminali, sviluppatori di applicazioni, utilizzatori finali), ciascuna delle quali ha un chiaro ruolo nella catena del valore delle telecomunicazioni. Le storie recenti di successo più evidenti dei giganti del web sono nel retail e nel commercio mondiale (Amazon), nella ricerca delle informazioni su scala globale (Google), nella conoscenza online (Wikipedia), nell’intrattenimento (Netflix) e nei social media (Facebook), successo dovuto, almeno in parte, ai ricavi pubblicitari e allo storage dei dati online (I-Cloud). In aggiunta, si deve considerare il ruolo giocato da facilitatori delle applicazioni di massa (come Microsoft, Apple, ecc.). Le dinamiche dello scenario competitivo internazionale hanno permesso al gruppetto di OTT citati di diventare rapidamente leader mondiali nelle applicazioni da noi utilizzate quotidianamente nel cyberspazio (in modo, spesso solo apparentemente, gratuito). In definitiva i colossi delle piattaforme, i cosiddetti FAANG, ovvero Facebook, Amazon, Apple, Netflix, Google, pur essendo pochi, sono straordinariamente ricchi. Ciò è potuto essere grazie al pensiero finora dominante (o mainstream) dell’economia globale e globalizzata legato al paradigma neoliberista – in certi casi, iperliberista – e alla sua spinta deregolatrice. Le conseguenze di questa scelta sono stati limiti sistemici e congiunturali nei confronti di crescita economica, disuguaglianze, clima e ambiente. Il ritorno a oculate politiche keynesiane, che privilegino crescita e sviluppo insieme con la ricerca e la formazione tecnico-scientifica, può essere strumento efficace per superare le conseguenze nefaste della più che decennale crisi economica – soprattutto nel nostro Paese – e della pandemia. Dopo lo scoppio della bolla finanziaria (2007-2008), le politiche keynesiane hanno dimostrato di poter funzionare: Paesi – come ad esempio l’Australia – che hanno avviato per tempo programmi di stimolo dell’economia e ad ampio raggio, sono usciti dalla crisi più in fretta. Anche sull’opzione keynesiana, il nostro Paese sembra, ora, di essere in grado di superare i troppi vincoli da cui era gravato fino a non troppo tempo fa. Questo punto non può essere considerato indipendente dal problema della disuguaglianza economica. Esistono ragioni fisiche-matematiche (endogene) per cui la ricchezza, oltre a distribuirsi in maniera non uniforme, tende naturalmente e inevitabilmente a concentrarsi, in assenza di provvedimenti politici adeguati – pur partendo dalla condizione di uguaglianza assoluta e con regole del gioco uguali per tutti i partecipanti. Alla fine la ricchezza si condensa nelle mani di pochi partecipanti (regime di oligarchia), al limite di uno solo. Queste ragioni “matematiche”, che ovviamente da sole non solo non possono fornire indicazioni politiche o etiche, possono essere utili per stimolare misure e provvedimenti idonei – ma le élite al governo devono fidarsi del modello e, soprattutto, comprenderne le implicazioni.

5) Il controllo della gestione dei big data è davvero lo strumento di una nuova forma di dominio di un capitalismo digitale che esercita una stretta sorveglianza su tutta l’attività in un mondo globalizzato e come tale è destinato ad essere il motore di un nuovo profitto per un lungo periodo dell’umanità o siamo solo in una prima fase di accumulazione primitiva cui seguirà una fase di assestamento e di ridistribuzione delle ricchezze grazie alla ripresa del controllo o comunque dell’indirizzo esercitato da entità statuali o sovra-statuali di fronte alle nuove sfide e ai nuovi rischi globali: sanitari, climatici, ambientali?

Cecilia Clementel-Jones
La domanda contiene una risposta suggerita nella seconda parte. Il controllo e lo spionaggio informatici (di grande successo negli ultimi venti anni) non hanno previsto o impedito una grave crisi finanziaria e il prossimo sorpasso militare della Cina (che ha la buona abitudine culturale di non vantarsi). Mano a mano che le competenze saranno acquisite da altri attori (della serie: usiamo anche noi la polvere da sparo) verranno utilizzate per hackeraggi o anche sviluppi positivi imprevisti. Non mi pare ci si renda conto dell’energia reale richiesta dal mondo informatico e della paurosa fragilità delle sue strutture (cavi sottomarini, centri dati) che richiedono costantemente energia elettrica.

Massimo De Angelis
Credo di aver già risposto rispondendo alla domanda precedente. L’alternativa è tra un capitalismo molto dirigistico, tendenzialmente autoritario anche se magari libertario sul piano di alcuni comportamenti individuali (sesso, droga, eutanasia come un tempo panem et circenses); e in questo caso il modello è quello del capitalismo cinese oppure una sfida liberaldemocratica che però vedo difficile. Perché la tecnologia digitale e la sua ideologia hanno in fondo già scelto qual è per loro il modello migliore. Poi, chissà, potrebbe giungere una generazione nel mondo che pensa che la libertà, la libertà vera, sia il più grande valore. Chissà, la storia reca sempre sorprese!

Angelo Luvison
Il termine big data risulta alquanto inflazionato e per l’elaborazione di dati così caratterizzati sono sufficienti strumenti di statistica matematica noti e assestati – inclusi algoritmi di machine learning – insieme a capacità di calcolo che l’HPC (High Performance Computing) già oggi è in grado di fornire. Da ciò nasce un’opportunità per i soggetti ed enti istituzionali qualificati di rientrare in gioco e fornire alla autorità nazionali soggetti variabili, indici (sintetici) e indicatori per il governo dell’economia, della società e della cultura. Il PIL è la stella polare per le politiche economiche della maggior parte dei Paesi. D’altro canto, il Nobel Joseph Stiglitz argomenta che l’ossessione per il PIL, esclusivamente un indice di prosperità economica, ha peggiorato la salute delle persone, la felicità e l’ambiente. In altre parole, il PIL non è niente di più che una misura delle attività del mercato, dunque è ben lungi dall’essere l’agognato indice perfetto, che forse neppure esiste. Infatti, come ben sapeva il suo ideatore Simon Kuznets, il PIL non è in grado di misurare, in particolare, la sostenibilità sociale o ambientale. Per andare oltre al PIL – per esempio, con il BES (Benessere Equo e Solidale) – occorrono analisi approfondite su come catturare la complessità del mondo in cui viviamo sulla base di dati ufficiali più pertinenti e affidabili. Lo scopo è di aiutare i responsabili politici, le organizzazioni o i cittadini a prendere decisioni bene informate a favore di una società migliore. Non secondariamente, fornire anche un aiuto metodologico ad esercitare la democrazia e i suoi valori. Entità statali o sovra-statuali potranno individuare indici che tengano conto di “rischi globali: sanitari, climatici, ambientali” e, anche in questo modo, con questi strumenti potranno riprendere le funzioni di indirizzo e controllo che compete loro di fronte a questi rischi.

6) “Le bolle e i filtri digitali costruiti attorno gli utenti dalle piattaforme restringono gli spazi pubblici, frammentando e polarizzando le opinioni, anziché favorire come la stampa e i mezzi di comunicazione nelle società aperte la formazione di un’opinione pubblica informata e conoscenze aperte e verificate”. Si tratta di un fenomeno irreversibile di riduzione e frammentazione della sfera pubblica destinato a segnare la storia nei prossimi decenni o è ancora possibile governare la rete e rilanciare quella società della conoscenza aperta e condivisa a cui aspiravano i fondatori del Web?

Cecilia Clementel-Jones
Come dicevo la costruzione di una conoscenza aperta e condivisa (specialmente negli ambiti accademici, con gruppi di società civile come citizen labs e con le ONG) è attualmente in corso. Per la stampa, che potrebbe riacquistare indipendenza grazie agli abbonamenti internet, vi sono alcuni risvolti positivi ma in negativo la professione giornalistica ha subito spoliazione e soppressione. La borghesia ha costituito la leadership alternativa che ha guidato le rivoluzioni ottocentesche. Non so se questo sia al momento proponibile.

Massimo De Angelis
Mi pare che negli ultimi anni stampa e televisioni occidentali (ovviamente non considero nemmeno quelli della gran parte del pianeta) abbiano dato pessima prova di sé: hanno alimentato conformismo e ossequio alla propaganda del potere e hanno dato la disdetta alla libertà. Esattamente il contrario di quello per cui erano nati. Nessuna nostalgia dunque: che i morti seppelliscano i loro morti!

Angelo Luvison
Espongo un punto di vista da semplice fruitore dei mezzi di comunicazione, vecchi e nuovi. In primis, sono e saranno sempre i contenuti a caratterizzare tali mezzi (vedi Marshall McLuhan e Derrick de Kerckhove). Le trasformazioni nei modi in cui le notizie vengono raccolte, filtrate e distribuite rendono incerta l’identità professionale di tutti gli operatori dell’informazione, che devono capire come le innovazioni del proprio ecosistema si coniughino con tecno scienza. In concreto, i mezzi di informazione tradizionali dovrebbero imparare a fare buona comunicazione buona informazione e buona divulgazione tecno scientifica, cioè tutto l’opposto di quanto avvenuto con l’infodemia che ha caratterizzato il Covid-19, in cui è stata data voce non solo a persone ma anche a istituzioni senza alcuna qualificazione e autorevolezza ufficiale. Parafrasando l’EBM (Evidence Based Medicine) per il settore sanitario, mi auguro – ribadendo che non sono esperto in questo settore – l’emergere di un Evidence Based Journalism (oppure giornalismo basato sul metodo scientifico) in grado di svolgere, questa volta sì, una propria funzione sociale con valore aggiunto positivo. Credo che, almeno nei Paesi anglosassoni, molti ci stiano già pensando, magari utilizzando termini differenti. Un altro, ma non secondario aspetto, è che non solo i dati, ma anche grafici, tabelle e diagrammi “possono mentire” (Alberto Cairo). Infatti, per varie ragioni e in modi diversi, sono in grado di influenzare in negativo o in positivo la nostra percezione delle informazioni da essi rappresentate.
“Per me l’uomo colto non è colui che sa quando è nato Napoleone, ma quello che sa dove andare a cercare l’informazione nell’unico momento della sua vita in cui gli serve [al momento giusto], e in due minuti”, diceva ancora Umberto Eco.
Wikipedia, Google, in tal senso, sono perfetti (se sei sufficientemente “colto”). Non è discutibile la centralità assunta da motori di ricerca e social media, nonostante siano inevitabili la dispersione dell’attenzione e un proliferare di fonti di scarso valore sul Web. In sintesi, non mi pare che i media tradizionali possano vantare molti meriti superiori nella “costruzione della società della conoscenza aperta e condivisa”. Peraltro, come il solito, i processi vanno costantemente indirizzati, governati e controllati, altrimenti diventano casuali – per non dire stocastici.

7) La politica e la democrazia potranno riconquistare campo nel disegno del futuro e nella ricerca del bene comune o il tecno-capitalismo dei dati e della sorveglianza è destinato ad egemonizzare il governo delle prossime generazioni, segnando il tratto caratteristico di società tecnocratiche, autocratiche, post-democratiche?

Cecilia Clementel-Jones
Devo dire che non capisco cosa sia la democrazia. Qualsiasi governo che sia in ascolto dei bisogni e delle richieste del suo popolo e cerchi nella misura del possibile di realizzarli mi va bene. Ritengo che nuove forme di cinghia di trasmissione politica si stiano formando, anche in situazioni di conflitto militare poco propizie all’immaginario politico e alle sperimentazioni. Le costituzioni e le istituzioni non reggono la velocità del cambiamento economico e tecnologico.

Massimo De Angelis
Come ho già detto mi pare che tutto lasci pensare che a vincere saranno regimi tecnocratici, autoritari, post e anti democratici. Poi la storia lascia sempre spazio all’imprevedibile che può essere o qualche grande evento catastrofico e/o la riscoperta da parte di una nuova generazione che la libertà spirituale vale più di una enorme quantità di idoli tecnici. Chissà …

Angelo Luvison
Primi elementi di risposta sono contenuti al punto 4), in particolare, dove mi riferisco a OTT, FAANG e ragioni endogene della disuguaglianza, auspicando, nel contempo, il ritorno a politiche “più keynesiane”. Altri elementi di risposta sono contenuti nella seconda parte delle considerazioni presentate al punto 5). Dove, infatti, sottolineo la necessita di un’agenda “oltre il PIL”, che tenga conto cioè, insieme a fattori economici, anche di valori che quantifichino, benessere, felicità, tempo libero, ecc. Posso ancora aggiungere che i giovani si stanno mobilitando per responsabilizzare gli “anziani” a prendere le giuste decisioni per il bene del pianeta; perché, se non ci attiviamo tutti ora restando nell’indifferenza, rischiamo di non poter più chiamare questo pianeta “casa”. Questo è certamente un segnale di democrazia che parte dal basso, oltre a essere un richiamo a una maggiore consapevolezza e assunzione di responsabilità (accountability).
Consentite ancora una considerazione personale sulla formazione come strumento di base per guidare la transizione. Vorrei concludere con un cenno a una questione fondamentale, anche se non esplicitamente sollevata dalle sette domande. Mi riferisco alla necessità di una formazione (intesa, a seconda dei casi, come educazione, istruzione, preparazione, acculturazione, curriculum, ecc.) a tutto campo, tanto specialistica e approfondita nei settori di competenza quanto trasversale, per operare in un mondo sempre più complesso e interconnesso. La difficoltà sta proprio nel conseguire un punto di equilibrio tra orizzontalità e verticalità. È da notare che nello scenario nordamericano, e più recentemente anche in quello italiano, le contaminazioni tra le cosiddette liberal arts o humanities (scienze umanistiche), proprie degli studi di matrice filosofico-letteraria, e gli insegnamenti basati su discipline scientifiche di ambito STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics) sono aumentate: si pensi, per esempio, alle reti. Esse costituiscono in concreto un attualissimo esempio di tema interdisciplinare; infatti, a seconda della tipologia, possono essere classificate in: elettriche, di trasporto, di telecomunicazioni, relazionali e sociali, biologiche, neurali, epidemiologiche, ecc. Questo discorso focalizza l’intersezione tra discipline STEM e discipline umanistiche. Purtroppo il settore STEM, benché (o forse proprio per questo) produttore di conoscenze concrete, utili e reali, è ancora considerato un sapere “minore” da una parte influente dell’élite culturale italiana. Viceversa, solo ponti fra le due culture – tecnoscienza e humanities – possono consentire di superare la frammentarietà, soprattutto italiana, che finora le ha caratterizzate. Poiché viviamo in un mondo che cambia vorticosamente, per operare efficacemente nella nuova realtà globale è indispensabile che una preparazione aperta e flessibile sia tanto profonda in verticale (in senso specialistico) quanto estesa in orizzontale (in senso relazionale), cioè “a forma di T”. Negli Stati Uniti, le facoltà nel settore STEM più all’avanguardia propongono dunque questo modello di istruzione e formazione (new education), non più vincolato a professionalità, know-how ed esperienze esclusivamente settoriali. Istruzione, conoscenza e competenza costituiscono il punto di partenza, non d’arrivo, di un processo che deve portare ad apprendere ininterrottamente per tutta la vita e nel quale esperienza e professionalità aumentano progressivamente il loro peso. Sembra ormai finita l’era delle carriere continue e strutturate basate su una unica expertise specifica. Per riassumere, l’educazione a T deve mirare a fornire una visione allargata (o d’insieme), compiuta e articolata, ma non superficiale o generalista. Un esperto qualificato, oltre a essere specialista in un settore di riconosciuta competenza, dovrebbe anche essere portatore di una visione di insieme (olistica), che significa comprendere la rilevanza di altri settori complementari per sfruttare al meglio le sinergie derivanti dall’interdisciplinarità. In altre parole, un valido professionista è tale se possiede conoscenze, competenze e skill tanto trasversali (orizzontali e manageriali) quanto verticali (in profondità). Nel concreto, la tecnologia digitale ha modificato il modo in cui operano i consumatori, le aziende e le imprese. Molte organizzazioni hanno iniziato a formare la forza lavoro esistente per soddisfare le nuove esigenze della trasformazione organizzativa e culturale che ne consegue. Poiché il digitale continua ad avanzare inevitabilmente, è fondamentale che professionisti e tecnici comprendano le sfide e le soluzioni che comporta per la loro organizzazione e per i consumatori. Ancor più in generale, la formazione – in ogni sua accezione – è un prerequisito necessario, benché non sufficiente, per realizzare in maniera costruttiva e concretamente la concezione sottesa alla visione dell’umanesimo digitale.

Nota al testo

(1) Le mie risposte sono riformulazioni, rielaborazioni e rifusioni di concetti espressi in modo più articolato in miei precedenti lavori, in particolare:

  • Angelo Luvison, “La società e l’ecosistema digitale”, in Pieraugusto Pozzi (a cura di), Immagini del digitale. Dopo il Bit Bang. Studi in onore di Giorgio Pacifici per i suoi ottant’anni, vol. 3, Nemapress Edizioni, 2019, pp. 11-47.
  • Daniele Roffinella, Silvio Alovisio, Angelo Luvison, “Insegnare le reti a Scienze della Comunicazione”, AEIT, vol. 108, n. 3-4, marzo-aprile 2021, pp. 34-43. (https://www.aeit.it/aeit/edicola/aeit/aeit2021/aeit2021_02_cisa/aeit2021_02_riv.pdf).
  • Pino Colombi, Filippo Gronda, Angelo Luvison, Pierpaolo Marchese, Renato Valentini, “L’etica delle responsabilità: riflessioni su PIL FIL, disuguaglianze”, AEIT, vol. 108, n. 11-12, novembre-dicembre 2021, in corso di pubblicazione