L'analisi

Democrazia Futura. L’inferno afghano tra Risiko diplomatico ed eterno Grande Gioco dell’oca

di Giampiero Gramaglia, giornalista, direttore di Democrazia Futura e presidente dell’Associazione Infocivica-Gruppo di Amalfi |

La nuova cartina geopolitico-militare dopo la caporetto dell’Occidente: “tutto sarà come prima”?

GIAMPIERO GRAMAGLIA

Riprendiamo dopo la pausa estiva le pubblicazioni del terzo fascicolo di Democrazia futura – la rivista trimestrale pubblicata dall’Associazione Infocivica Gruppo di Amalfi. Nel saggio di apertura della prima sezione dedicata al tema in Primo Piano, intitolata “L’Europa e gli Stati Uniti dopo lo scacco di Kabul e la prudenza di Cina e Russia di fronte alla maledizione afghana”,il direttore di Democrazia futura Giampiero Gramaglia dedica una lunga analisi a quello che intitola ’“L’inferno afghano tra Risiko diplomatico ed eterno Grande Gioco dell’oca” osservando come la riconquista talebana di Kabul completata a Ferragosto 2021 disegni una “nuova cartina geopolitico-militare dopo la caporetto dell’Occidente” e chiedendosi se alla fine di questo gioco “tutto sarà come prima?”. Dopo aver osservato come “la Cina continua ad aumentare la propria influenza, non solo economico-commerciale, ma anche politico-militare; e la Russia torna a essere protagonista, con Vladimir Putin che si ritaglia un ruolo da grande saggio – “Guardate che cosa succede a voler imporre ad altri i propri modelli” -; gli Stati Uniti vedono ridimensionato il proprio ruolo, ma riducono anche le proprie ambizioni di Super-Potenza globale; alcuni attori regionali, come la Turchia, il Pakistan, sgomitano per farsi vedere, come già facevano, tra Golfo e Medio Oriente, Iran e Arabia Saudita”, mentre in Europa “non si vedono progressi verso una politica estera e della difesa comune, senza le quali l’Unione europea potrà magari continuare a essere un gigante economico-commerciale, ma non sarà un’entità rilevante sulla scena internazionale e della sicurezza”, Gramaglia chiarisce perché “La sconfitta della guerra più lunga e della retorica del ‘nulla sarà più come prima’”, esaminando “La ritirata da Kabul vista da Washington” e la reazione di Joe Biden che dichiara che “Una guerra non è per sempre”. “Missione compiuta? A metà, forse” a parere di Gramaglia per il quale, dopo “Il ritorno in Afghanistan di Amin-ul-Haq e la rotta disordinata denunciata dalla stampa liberal americana” è giunta l’ora degli esami di coscienza”. A cominciare dalle “amnesie della politica”. Se da un lato paiono scontate in previsione del  voto di mid term le “richieste elettorali di dimissioni di Biden da parte dei Repubblicani”, più articolati sembrano dall’altro i pareri relativi all’atteggiamento da assumere di fronte alla “minaccia terroristica”, ivi comprese le critiche agli accordi di Doha di una figura come di MacMaster che non vede sostanziali differenze fra terroristi dell’Isis-K e talebani. Per Gramaglia “Il Grande Gioco dell’oca ritorna alla casella di partenza” “Nulla sarà più come prima”: il mantra che diffonde un alone di speranza intorno ai grandi drammi, l’11 Settembre, la crisi economica, la pandemia, trova dunque l’ennesima clamorosa smentita poco prima del ventesimo anniversario dell’attacco all’America condotto dai terroristi di al Qaida”. Ucciso Bin Laden è comunque fallito  totalmente l’altro obiettivo: “fare dell’Afghanistan un avamposto dell’Occidente, l’illusione di dargli una democrazia sostenibile”. Ciò spiega anche “l’atteggiamento di prudenza” dei cinesi che vogliono evitare di trovarsi “vittime della maledizione afghana che ha travolto l’uno dopo l’altro il Regno Unito, fittizia potenza coloniale per un secolo, poi l’Unione Sovietica, potenza occupante per un decennio, e infine gli Stati Uniti e tutto l’Occidente, presenze militari per vent’anni”. Con un grande vantaggio peraltro a loro favore: “Pechino affronta il Grande Gioco consapevole degli errori altrui: tanto per cominciare, zero presenza militare; solo ‘assistenza’ economica e commerciale e ‘consulenza’ diplomatica. La Cina ha già dimostrato in Africa e altrove che la corruzione e gli autoritarismi dei regimi con cui lavora non sono un suo problema; e non è mai stata condiscendente con il terrorismo”.


A vent’anni dall’11 Settembre 2001, la fine della guerra in Afghanistan, divenuta una caporetto dell’Occidente, contribuisce a ridisegnare la cartina geo-politica del XXI Secolo: la Cina continua ad aumentare la propria influenza, non solo economico-commerciale, ma anche politico-militare; e la Russia torna a essere protagonista, con Vladimir Putin che si ritaglia un ruolo da grande saggio – “Guardate che cosa succede a voler imporre ad altri i propri modelli” -; gli Stati Uniti vedono ridimensionato il proprio ruolo, ma riducono anche le proprie ambizioni di Super-Potenza globale; alcuni attori regionali, come la Turchia, il Pakistan, sgomitano per farsi vedere, come già facevano, tra Golfo e Medio Oriente, Iran e Arabia Saudita.

E l’Unione europea? Sul Corriere della Sera, Franco Venturini la descrive, con la consueta lucidità, al bivio tra autonomia strategica e irrilevanza globale; ma, in realtà, a parte discorsi e appelli retorici, come quelli del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, o del presidente francese Emmanuel Macron o del presidente del Consiglio europeo Charles Michel, non si vedono progressi verso una politica estera e della difesa comune, senza le quali l’Unione europea potrà magari continuare a essere un gigante economico-commerciale, ma non sarà un’entità rilevante sulla scena internazionale e della sicurezza.

Micragnosa e sovranista in molte sue componenti nazionali e politiche, l’Europa stenta a mostrare anche solo una volontà di solidarietà. Già uscita mortificata dalla crisi siriana, l’Unione europea rischia di esserlo pure da quella afghana: oggi siamo tutti afghani, come nel 2015 eravamo tutti siriani; ma poi ‘affittammo’ milioni di profughi alla Turchia e ora ci proviamo con il Pakistan o il Tagikistan, e ce ne laviamo le mani, pagando per non essere disturbati a casa nostra. Con tanti saluti ai diritti umani e alle radici cristiane, che proprio gli ostili alla solidarietà sbandierano con più vigore.

La sconfitta della guerra più lunga e della retorica del “nulla sarà più come prima

Il giorno che gli Stati Uniti hanno perso la guerra più lunga che abbiano mai combattuto, e la più costosa, ci sono state, specie nell’America più profonda – a Washington, sono ‘scafati’: sapevano che stava per andare a finire così -, momenti di sorpresa e di incredulità: come poteva succedere? come poteva essere successo?

Ma la domanda che gli statunitensi e i loro alleati dovevano porsi, fin dall’inizio, quando il conflitto appariva e forse era inevitabile, era l’opposto: poteva finire in un altro modo? Si partiva per reagire a un’aggressione, punirne gli organizzatori – Osama bin Laden e i terroristi di al Qaeda -, colpire chi li proteggeva – il regime dei talebani -; e, per farlo, si invadeva un Paese che s’era già dimostrato refrattario alle occupazioni straniere, cacciando prima i britannici e poi i sovietici.

Un’intera generazione di cittadini americani, e molti dei 13 marines uccisi negli attentati del 26 agosto all’aeroporto di Kabul, ragazzi di vent’anni, sono cresciuti nella retorica, riferita all’11 Settembre, del “nulla sarà più come prima”: un mantra che stende una patina di speranza sui grandi drammi, l’11 Settembre appunto di venti anni fa, la crisi economico-finanziaria del 2007-2008, oggi la pandemia. Troppo giovani per avere loro negli occhi le immagini degli attacchi terroristici al World Trade Center e al Pentagono e per portare nel cuore il tumulto di emozioni – incredulità, paura, desiderio di rivalsa – di quel giorno.

Ora, ci si trova a fare i conti con l’ennesima clamorosa smentita di quel mantra, proprio a ridosso del ventesimo anniversario dell’attacco all’America condotto dai terroristi di al Qaida. Vent’anni dopo, tutto è come prima: l’Afghanistan si ritrova alla casella di partenza, con i talebani al potere – le novità sono Rayban e social, oltre ad armi più letali; le costanti sono la Sharia e le barbe – e centinaia di migliaia d’afghani in fuga o intenti a eliminare i loro profili dalle piattaforme digitali, per stornare da sé i sospetti di collaborazione con gli invasori e cancellare le prove di abitudini o condiscendenze occidentali.

Il Mondo è sì cambiato, ma non l’Afghanistan: etnico, tribale, corrotto, cronicamente povero, legato a una tradizione islamico-fondamentalista che i talebani rendono vincente, per la seconda volta in un quarto di secolo. Gli Stati Uniti hanno perso potere e influenza, militare, politica, economica; la Cina ne ha acquisiti; la Russia non è più la Super-Potenza dei tempi dell’Urss, ma non è neppure un’entità regionale, come l’immaginava Barack Obama; l’Europa perde tutte le occasioni per parlare con una voce unica; l’Oceano di riferimento non è più l’Atlantico bensì il Pacifico; il Mediterraneo è divenuto un lago da cui la prudenza consiglia di tenersi alla larga.

E l’America è cambiata, più volte, non in modo rettilineo: nel 2008, elesse il primo presidente nero, Obama, un uomo capace di suscitare speranze che non riusciva poi a concretizzare; nel 2016, elesse Donald Trump, un magnate bugiardo e arrogante, isolazionista e con venature d’autoritarismo, illudendosi che fosse un messia della classe media; nel 2020, ha eletto Biden, ma quel che conta è che non ha rieletto Trump. Ed è stato pure questo un ritorno al passato, a Obama, di cui Biden era vice, o più indietro ancora, perché Biden è sulla scena dagli Anni Settanta.

La ritirata da Kabul vista da Washington: Biden, “Una guerra non è per sempre”

“Era ora di finire questa guerra… E’ il momento di guardare al futuro… Andarsene era la decisione giusta, la più saggia per l’America… C’è un mondo nuovo: la nostra strategia deve cambiare, dobbiamo difenderci da nuove minacce, affrontare le sfide del secolo e la competizione con Cina e Russia, continuando a combattere il terrorismo… Mi assumo la responsabilità di quanto fatto: non volevo continuare questa guerra per sempre”.

Concluse il 31 agosto le operazioni di evacuazione da Kabul, il presidente Usa Joe Biden ha difeso, in un discorso all’Unione, il suo operato, mentre i talebani esaltavano la riconquistata indipendenza del loro Paese. E’ stato il discorso di Biden più efficace, più convinto e più determinato, fra i tanti d’un agosto caotico. C’è pure un messaggio ai terroristi dell’Isis-K, branca afghana del Califfato: “Non dimenticheremo, non perdoneremo, vi braccheremo fino agli inferi e pagherete il fio”.

Eppure, la ritirata da Kabul è stata il principio di Murphy applicato all’ennesima (Super-)Potenza: tutto quello che poteva andare storto è andato storto. Vent’anni di occupazione militare non sono bastati a vincere la guerra, ma non sono neppure serviti a preparare una ordinata ritirata: lo certifica – ma i fatti erano già sotto gli occhi di tutti – il New York Times, mettendo insieme in gran numero documenti riservati ma non classificati. E’ l’ennesima scaramuccia nel conflitto velenoso tra Difesa e intelligence su chi porti li maggiori responsabilità della Beresina afghana: sull’aeroporto di Kabul venivano al pettine le inefficienze e le incongruenze dell’operazione ‘tutti a casa’.

Biden giudica l’intera operazione “uno straordinario successo”: è stata condotta nel modo migliore possibile – dice -, nonostante un centinaio di cittadini americani e migliaia di afghani in diritto d’essere sfollati lasciati indietro; ed esalta la dedizione e l’eroismo dei militari coinvolti – 13 di essi sono rimasti uccisi nell’attentato dell’Isis-K che, il 26 agosto, ha complessivamente fatto circa 180 vittime -.

In un reportage parallelo, il New York Times narra pure come la protezione delle donne afghane sia venuta meno nel giro di una notte, con l’ingresso dei talebani a Kabul: le case rifugio furono chiuse e il personale ricollocò le ospiti a casa loro, dove i parenti, genitori, fratelli o mariti, pro – talebani o rilasciati dalle prigioni dove erano stati rinchiusi per averle maltrattate, minacciavano di ucciderle.

In qualche misura, l’epilogo del conflitto in Afghanistan è stato analogo all’inizio, stando al libro The Afghanistan Papers del giornalista investigativo del Washington Post Craig Whitlock, pubblicato negli Usa a fine agosto (uscirà in Italia a fine settembre, col titolo: Dossier Afghanistan. La storia segreta della guerra[1]). A credere a Whitlock, gli esordi non furono meno approssimativi della fine: il presidente George W. Bush non conosceva il nome del suo comandante in Afghanistan e non trovava il tempo per incontrarlo; il capo del Pentagono Donald Rumsfeld non aveva, per sua stessa ammissione, “alcuna visione” di chi fossero “i cattivi“, forse perché si ricordava di essere stato lui, una quindicina di anni prima, ad armarli e incoraggiarli a puntare su Kabul, nello spirito anti-Urss della Guerra Fredda.

Buone e cattive notizie e memoria corta

La buona notizia è che la più lunga guerra mai combattuta dagli Stati Uniti è finita: vent’anni meno un mese, centinaia di migliaia di afghani uccisi – insorti, ma pure molti civili, donne, bambini -, oltre tre mila americani e loro alleati caduti – più delle vittime dell’11 Settembre -, almeno 2.300 miliardi di dollari spesi (un migliaio solo in spese militari). Per un’intera generazione di americani, il primo settembre 2021 è stato il primo giorno di pace, senza una guerra in corso.

La cattiva notizia è che questo capitolo della storia militare degli Stati Uniti d’America sarà probabilmente ricordato come “un colossale fallimento”, fatto di “promesse non mantenute” e chiuso in modo tragico, una rotta, non una ritirata: lo scrive l’Associated Press, la più grande agenzia di notizie al mondo, non un sito ‘trumpiano’ o ‘talebano’.

Subissato di critiche in patria, non per il fatto di venire via dall’Afghanistan, ma per come l’uscita è stata gestita – complice il crollo del castello di carte del regime e dell’esercito afghani -, Joe Biden ricorda i risultati del ponte aereo: oltre 100 mila afghani e circa 20 mila stranieri evacuati dai militari statunitensi e degli altri Paesi coinvolti, fra cui l’Italia; ricorda gli impegni presi dai talebani – “Abbiamo i mezzi per farli rispettare” –; ed evoca le responsabilità del suo predecessore.

Donald Trump, a fine febbraio 2020, firmò la resa ai talebani, senza coinvolgere nella decisione né il governo di Kabul né gli alleati della Nato:

“Di fronte all’avanzata dei talebani avevo due scelte, o seguire gli accordi di Trump o inviare altre migliaia di soldati in una escalation della guerra”.

Missione compiuta? A metà, forse. Il ritorno in Afghanistan di Amin-ul-Haq e la rotta disordinata denunciata dalla stampa liberal americana: l’ora degli esami di coscienza

C’è chi vede il bicchiere mezzo pieno: sul Washington Post. Michael Leiter, già direttore dal 2007 al 2011 del centro nazionale statunitense anti-terrorismo, sostiene, citando dati a suo dire “inconfutabili”, che il pericolo terroristico è stato ridimensionato dalla ‘lunga guerra’. Sarà vero. Ma non lascia tranquilli la ‘staffetta’ tra il generale Christopher Donahue, comandante la 82a Airborne Division, l’ultimo militare Usa a salire sull’ultimo C-17 al decollo da Kabul, e Amin-ul-Haq, ex responsabile della sicurezza di Osama bin Laden nel suo rifugio di Tora Bora, da cui fuggì in Pakistan in moto, rientrato quasi contemporaneamente in Afghanistan.

L’arrivo dell’esponente di spicco di Al Qaida nella sua provincia d’origine di Nangarhar, al confine con il Pakistan, viene mostrato in un video sul web, ripreso anche dalla Bbc. Amin-ul-Haq, a lungo tra i responsabili della fornitura di armi al gruppo jihadista, vi compare a bordo di un Suv, accolto con entusiasmo da abitanti del posto, che gli baciano la mano e si fanno fotografare con lui.

Quanto alla presenza dell’Isis in Afghanistan, la sequela di tragici eventi dell’ultima settimana ne è tragica conferma. Sul terreno ci sarebbero 2000 “irriducibili” miliziani del Califfato: una minaccia per l’Occidente, ma anche una spina nel fianco per i talebani, cui i terroristi contestano la trattativa con gli Stati Uniti.

Per i media americani, è l’ora degli esami di coscienza: sul Washington Post, Ishaan Tharoor osserva che la crisi afghana “mette in rilievo il mutare del ruolo – e pure del peso, ndr – degli Usa nel Mondo”; sul New York Times, Frank Bruni denuncia la “perdurante arroganza” della politica internazionale degli Stati Uniti. La stampa liberal è dura con l’Amministrazione Biden: non si contesta la decisione di ritirarsi dall’Afghanistan, ma come essa è stata realizzata – una rotta, non un’uscita di scena sicura per sé e per i propri alleati e ordinata -.

Fawaz A. Gerges, dal canto suo, così commenta sul Washington Post :

“Gli Usa devono resistere alla tentazione di sparare prima e fare domande dopo … Questa è stata la ricetta per il disastro in Vietnam, Iraq, Afghanistan e non solo … I nostri leader devono liberarsi di un impulso crociato e di un complesso di superiorità morale negli affari internazionali che ha fatto più male che bene alla Nazione” e che “ha alimentato il terrorismo che voleva distruggere”.

Secondo Gerges la nuova priorità è “l’obbligo morale” nei confronti di rifugiati afghani, che l’Europa, in realtà, al di là delle parole, fatica a sentire e a tradurre in pratica: ancora una volta, è più facile alzare muri – lo fanno Turchia e Grecia -, pur avendo contribuito a distruggere i ponti dietro alla gente in fuga.

In un editoriale, il Washington Post denuncia

“un disastro morale, attribuibile non al personale militare e diplomatico a Kabul, che è stato coraggioso e professionale di fronte a pericoli mortali, ma agli errori, strategici e tattici, di Biden e della sua Amministrazione”: la frettolosa e caotica ritirata da Kabul ha lasciato indietro “migliaia di persone, compresi ex interpreti e le loro famiglie e altri afghani ritenuti come ‘vulnerabili’, come personale delle Ong e attivisti dei diritti delle donne”.

Fra le persone abbandonate, elenca il quotidiano, “molti giornalisti locali che lavoravano per media sostenuti dagli Usa” e centinaia di docenti e studenti della American University of Afghanistan. C’è scetticismo sulle promesse dei talebani di lasciar uscire tutte le persone che lo desiderano: l’influente quotidiano della capitale federale degli Stati Uniti chiede al presidente, se davvero possiede le “leve significative” evocate dal segretario di Stato Antony Blinken, di “usarle inesorabilmente finché ogni afghano con una legittima rivendicazione non abbia trovato rifugio“.

Le amnesie della politica: le richieste elettorali di dimissioni di Biden da parte dei Repubblicani

Virulenti gli attacchi dei repubblicani, che ipotizzano iniziativa di impeachment contro il presidente o, in alternativa, contro Blinken, ignorando le responsabilità di Donald Trump.

Proprio il ‘bugiardo-in-capo’ guida la carica anti-Biden: “Deve dimettersi”, dice. E chiosa: “Non dovrebbe essere un problema, visto che non è mai stato legittimamente eletto” – la sua fissa delle elezioni truccate -. Un deputato, Mike Garcia, chiede le dimissioni del presidente. Nikki Haley, rappresentante degli Stati Uniti durante la Presidenza Trump all’Onu e potenziale candidata repubblicana a Usa 2024, è ironica: “Biden dovrebbe dimettersi, ma Kamala Harris – la sua vice, che diventerebbe presidente, ndrè dieci volte peggio” (insomma, dalla padella nella brace).

Ronna McDaniel, presidente del partito, definisce una “vergogna” avere lasciato oltre 100 cittadini Usa alla mercé dei talebani: il presidente ha “creato un disastro, abbandonando i nostri interessi … Questo prova che Biden è incapace di servire come comandante-in-capo, gli Stati Uniti e il mondo sono meno sicuri a causa sua“. Il leader dei repubblicani alla Camera Kevin McCarthy le va dietro. Il senatore della Florida Rick Scott dice: “Non possiamo condurre guerre senza fine, ma l’ampiezza e le conseguenze del fallimento di Biden sono stupefacenti“.

I repubblicani cavalcano lo scempio del ritiro dell’Afghanistan in funzione delle elezioni di midterm del novembre 2022 – mancano più di 14 mesi -: se l’opposizione riuscisse a riprendere il controllo di uno o di entrambi i rami del Congresso, le ipotesi di impeachment, del presidente, o del segretario di Stato Antony Blinken, o del segretario alla Difesa Lloyd Austin, avrebbero maggiore concretezza.

Secondo The Hill, il giornale degli insider della politica statunitense, si soppesano diverse opzioni: dalla messa in stato di accusa del presidente, cioè l’impeachment, alla rimozione ricorrendo al 25o emendamento della Costituzione, che stabilisce che il vice-presidente può assumere i poteri in caso di incapacità del presidente in carica – se n’era parlato per Trump, nella fase finale del suo mandato, quando il magnate farneticava di elezioni truccate e sobillava i suoi sostenitori contro il Congresso e le istituzioni -.

Il presidente è criticato anche dalle organizzazioni umanitarie, come Amnesty International, che chiede conto dei dieci civili, fra cui dei bambini, uccisi domenica intercettando dei terroristi che volevano attaccare l’aeroporto, e da quelle animaliste – decine di cani militari sarebbero stati lasciati a Kabul: circostanza seccamente smentita dal Pentagono, “non è vero” -.

La minaccia terroristica e le critiche di MacMaster agli accordi di Doha

Al di là delle chiacchiere strumentali dei repubblicani, probabilmente destinate a rimanere tali, resta la tragica gravità della situazione in Afghanistan e delle prospettive che ne discendono, alla vigilia del ventesimo anniversario dell’11 Settembre 2001. L’ex consigliere per la Sicurezza nazionale di Trump, il generale Herbert Raymond McMaster, che se ne andò in malo modo dalla Casa Bianca, non ha dubbi: sul fronte delle minacce agli Stati Uniti, l’attentato di Kabul del 25 agosto “è solo l’inizio” ed è ciò che “succede quando ti arrendi a un’organizzazione terroristica“.

McMaster, che fu in carica fra il 2017 e il 2018, critica Biden per le modalità del ritiro, ma critica pure Trump che “si fece giocare dai talebani” con l’accordo di Doha del 2020 – quella trattativa fu una delle ragioni della rottura tra il generale e il presidente, che in un mandato cambiò ben quattro consiglieri per la sicurezza nazionale -.

McMaster ha idee diverse da altri esperti d’intelligence: non vede sostanziali differenze fra terroristi dell’Isis-K e talebani:

“E’ tempo di smettere d’illudersi che questi gruppi siano separati […]. Bisogna, invece, riconoscere che sono interconnessi […]. Stiamo assistendo alla creazione di uno Stato terrorista e jihadista in Afghanistan e tutti noi dovremo affrontare come conseguenza un rischio molto maggiore”.

Il Grande Gioco dell’oca ritorna alla casella di partenza

Nulla sarà più come prima”: il mantra che diffonde un alone di speranza intorno ai grandi drammi, l’11 Settembre, la crisi economica, la pandemia, trova dunque l’ennesima clamorosa smentita poco prima del ventesimo anniversario dell’attacco all’America condotto dai terroristi di al Qaida.

Non è Saigon 1975”, afferma il segretario di Stato Blinken, nonostante le immagini dall’aeroporto di Kabul evochino l’ultimo drammatico atto della presenza degli Stati Uniti in Vietnam. Non è lo stesso, perché, sostiene Blinken, gli obiettivi dell’intervento in Afghanistan sono stati raggiunti, mentre quelli della guerra contro i vietcong non lo erano stati. Sarà. Ma l’impressione è che i talebani siano oggi i vincitori, così come lo furono allora i vietcong.

Invadendo l’Afghanistan e rovesciando il regime degli ‘studenti islamici’, gli Stati Uniti volevano distruggere i santuari di al Qaida e mettersi al riparo da ulteriori minacce. Questo obiettivo può forse considerarsi raggiunto, fatto salvo l’allarme per potenziali contraccolpi terroristici di quanto sta avvenendo e per eventuali tentazioni di qualche esaltato di ‘celebrare’ l’imminente anniversario. Ma in fondo lo era già nel 2004, al più tardi il 2 maggio 2011, quando Osama bin Laden venne scovato e ucciso ad Abbottabad, in Pakistan.

Il fatto è che quello non era l’unico obiettivo: c’era il calcolo di fare dell’Afghanistan un avamposto dell’Occidente, l’illusione di dargli una democrazia sostenibile. E, qui, il fallimento è stato totale. Noi ce ne andiamo, anzi scappiamo; e i talebani si riprendono il Paese, che è il loro, senza sparare un colpo: centinaia di migliaia vogliono sottrarsi alla sharia, milioni la considerano la loro legge.

Osservazioni finali. La prudenza cinese di fronte alla maledizione afghana

Era sbagliato andare in Afghanistan nel 2001? Forse. Ma era praticamente impossibile non farlo, almeno per gli americani, in quel clima: quando George W. Bush annunciò l’inizio delle operazioni, dallo Studio Ovale, domenica 7 ottobre 2001, a metà giornata, negli stadi dell’Unione dove si giocavano le partite del campionato di football, la gente, avvertita dagli altoparlanti, si alzò in piedi, cantò l’inno e scandì in coro ‘U-S-A, U-S-A’. Nessuno praticamente sapeva dove fosse, sul mappamondo, l’Afghanistan, ma tutti volevano andarci. Il clima di esasperato patriottismo durò ben oltre la Festa del Ringraziamento e il Natale del 2001: le decorazioni tradizionali sostituite da bandiere a stelle e strisce luminescenti davanti alle case; durò fino all’inutile, sbagliata e catastrofica invasione dell’Iraq nel 2003 e fino alla rielezione di George W. Bush nel 2004.

Abbiamo sbagliato a restarci vent’anni? Certo. Ma lo sapevamo, tutti: Barack Obama venne eletto e rieletto con un programma che prevedeva il ritiro dall’Afghanistan (e la chiusura di Guantanamo, che è ancora aperta); Donald Trump venne eletto contestando a Obama di non essersi ritirato e negoziò con i talebani senza coinvolgere né il governo né gli alleati perché voleva ‘portare i ragazzi a casa’ prima delle presidenziali 2020; Joe Biden lo ha fatto.

E’ stato fatto nel modo sbagliato, dando alla ritirata l’apparenza di una fuga? Si poteva fare meglio, provare a organizzare una transizione non traumatica. Era il momento sbagliato, per venire via? Non ci sarebbe stato un momento giusto: i militari, e pure i diplomatici e i politici, erano consci che il governo di Kabul, corrotto e inetto, impopolare e pusillanime, sarebbe crollato come un castello di carte. Abbiamo scelto come interlocutori uomini inadeguati: passi Ahmid Karzai, il primo presidente, uomo della Cia dotato di buon carisma e d’una fisicità ieratica; ma Ashraf Ghali, il ‘fuggitivo in capo’, era uno che – per vincerle – doveva truccare elezioni pur già addomesticate.

Cinicamente, adesso non resta che aspettare che anche i cinesi, i vincitori del momento, al tavolo della geo-politica, si ritrovino vittime della maledizione afghana che ha travolto l’uno dopo l’altro il Regno Unito, fittizia potenza coloniale per un secolo, poi l’Unione Sovietica, potenza occupante per un decennio, e infine gli Stati Uniti e tutto l’Occidente, presenze militari per vent’anni, ma incapaci di costruire una parvenza di democrazia sostenibile. Come molti altri Paesi, l’Afghanistan è più insofferente delle presenze straniere che delle proprie ineguaglianze, iniquità, contraddizioni, divisioni.

Certo, Pechino affronta il Grande Gioco consapevole degli errori altrui: tanto per cominciare, zero presenza militare; solo ‘assistenza’ economica e commerciale e ‘consulenza’ diplomatica. La Cina ha già dimostrato in Africa e altrove che la corruzione e gli autoritarismi dei regimi con cui lavora non sono un suo problema; e non è mai stata condiscendente con il terrorismo -. ‘The Great Game’ è il nome dato alla partita giocata sull’Afghanistan e i territori adiacenti dagli Imperi russo e britannico tra il XIX e il XX Secolo ed è poi stato utilizzato sia dopo l’occupazione sovietica che dopo l’invasione occidentale.

Quando l’Urss invase l’Afghanistan a fine 1979, lo eleggemmo nostra frontiera della libertà e dell’indipendenza nazionale. Cacciati i sovietici e cantata vittoria lì e nella Guerra Fredda, tornammo a disinteressarcene, fino all’11 Settembre 2001 e nonostante i campanelli d’allarme – fragorosi e sanguinosi – nel 1998 di Nairobi e di Dar Es Salaam. Allora, vi scoprimmo i ‘santuari’ dei terroristi di al Qaida, protetti dai talebani, che costringevano le donne a vivere in un medioevo d’ignoranza e sottomissione.

Adesso che ce ne siamo andati, ci facciamo un mito e un cruccio dell’emancipazione femminile degli ultimi vent’anni. Ma foto degli Anni Ottanta mostrano maestrine in gonna nera e camicetta bianca che insegnano a classi di bambine nel Paese occupato dall’Urss e ‘liberato’ dai talebani, che allora chiamavamo mujaheddin, armati dagli Stati Uniti per cacciare i sovietici. E mai ci chiedemmo che fine abbiano fatto le maestrine ‘comuniste’ e le loro scolarette.


[1] Craig Whitlock, The Afghanistan Papers. A Secret History of the War, New York, Simon & Schuster, 2021, 359 p. Traduzione italiana:  Dossier Afghanistan. La storia segreta della guerra, Milano, Newton Compton, 2021.