Il terremoto

Democrazia Futura. L’assalto a Capitol Hill, pagina nera indimenticabile e che non va rimossa

di Guido Barlozzetti, conduttore televisivo, critico cinematografico e scrittore |

Noi, da quest’altra parte dell’Oceano guardiamo a quello che sta accadendo e sbaglieremmo se pensassimo a una questione tutta e solo americana. Quella faglia trema anche qui, in Europa, perché le cause strutturali, le placche problematiche che collidono l’una sull’altra ci riguardano.

Democrazia futura propone oggi un pezzo di Guido Barlozzetti che, in una reazione scritta a caldo come post su Facebook che abbiamo ripreso, descrive l’Assalto a Capitol Hill come se fosse un film da recensire, giudicandolo “una pagina nera indimenticabile e che non va rimossa”: “Per quanto fosse una folla numerosa e irruente nell’assalto, non sappiamo quanto possa essere considerata rappresentativa di una società, e tuttavia – prosegue Barlozzetti – resta il fatto – irreversibile – che un’Istituzione-simbolo è stata violata e che quell’esercito che riempiva corridoi e sale, scalinate e aule, non ha avuto scrupolo di calpestare un insieme di valori che degli Stati Uniti sono fondanti, come di tutta la tradizione politica che dalla Costituzione americana ha preso il via, ancor prima della Rivoluzione Francese del 1789.

Guido Barlozzetti

Quella Cupola neoclassica che svetta sul profilo di Washington l’abbiamo vista in tanti film. E’ una delle immagini, tante, un album senza fine, che associamo all’America, che poi è il nome più immediato e coinvolgente con cui chiamiamo gli Stati Uniti.

Mai avremmo pensato di vedere un’orda di dimostranti salire per la grande scalinata, arrampicarsi per mura e terrazze, sfondare i cordoni della sicurezza e sciamare brutalmente all’interno, fino all’aula del Congresso, il cuore reale e simbolico della democrazia americana.

E invece è successo nel giorno della Befana del 2020 che appena cominciato ci ha regalato questa scena sconvolgente: il rigurgito malmostoso, sguaiato e violento di una massa, “brutti e cattivi”, come l’urlante sciamano Mike Angeli, complottista e negazionista, venuta dalla profondità di un’America spaccata che con quell’irruzione mostra al mondo un volto che scardina un pilastro storico, simbolico e politico di una società e di un modo di intenderne le relazioni e la rappresentanza che tutti ci riguarda. Preannunciato ma non prevedibile, se non in una fosca immaginazione distopica, questo attacco.

Preannunciato dalla campagna ossessiva del presidente Donald Trump che non ha accettato il responso delle urne e, ancor prima che si chiudesse il voto, ne ha respinto l’esito al grido di “elezioni rubate”.

Non ha concesso la vittoria al contendente Joe Biden e ha messo in atto tutte le procedure possibili per bloccare l’iter che secondo la Costituzione americana porta alla ratifica del voto popolare, fino all’incitamento ad andare al Campidoglio per far sentire la voce di un’America che non ci sta. E sono andati, poi sapremo chi siano, come sono arrivati, come sono stati radunati, conosceremo la linea sottile su cui spontaneità e organizzazione si toccano, ma intanto la realtà è che sono andati e non si sono fermati.

Non hanno trovato l’opposizione che forse ci si aspetterebbe davanti alla sede del Congresso degli Stati Uniti, un apparato efficiente e reattivo capace di garantire la sicurezza, e sono entrati. E quella soglia superata adesso sta lì ad ammonirci sulla sua fragilità, sul rischio che incombe nel momento in cui le carte istituzionali, le procedure, i rituali non vengono più riconosciuti e non assolvono più alla funzione per cui sono stati creati, tenere insieme una società sulla base di regole condivise, che servono a garantire e regolare il confronto democratico, il gioco tra maggioranza e opposizione, ad assicurare con il sistema dell’elezione/mediazione la rappresentanza della complessità delle posizioni e dli interessi di un Paese.

Vogliamo aggiungere la cornice/additivo di un’emergenza che in America ha fatto finora 300 mila morti e ancora 4 mila il giorno della Befana?! Per quanto fosse una folla numerosa e irruente nell’assalto, non sappiamo quanto possa essere considerata rappresentativa di una società, e tuttavia resta il fatto – irreversibile – che un’Istituzione-simbolo è stata violata e che quell’esercito che riempiva corridoi e sale, scalinate e aule, non ha avuto scrupolo di calpestare un insieme di valori che degli Stati Uniti sono fondanti, come di tutta la tradizione politica che dalla Costituzione americana ha preso il via, ancor prima della Rivoluzione Francese del 1789.

No al confronto e alla discussione, bypassate regole e principi, quella gente solo per il fatto di essere lì e di tracimare dentro il Campidoglio dimostrava la sua estraneità a una concezione della politica, stava oltre, dove le regole non contano e – come accadeva nel West – ci si fa giustizia da soli, si va all’assalto e si distrugge quello che è diventato un avversario con cui si rifiuta ogni dialogo, e poco importa se il no alla ratifica dell’elezione di un presidente fa tutt’uno con quello che nega il sistema stesso che lo ha eletto.

Certo, si dirà che l’antipolitica non nasce oggi, che sarebbe sbagliato, miope e frettoloso sbrigare Trump come un tycoon narciso e arrogante e non cogliere la sua capacità di intercettare un malessere profondo che nasce dalla consunzione dei partiti tradizionali e dall’idea stessa di una politica che faticano a interpretare il cambiamento epocale in atto e a dare una risposta convincente ai tanti, tantissimi che si sentono delusi e, peggio ancora, scivolano nella zona d’ombra della povertà e dell’emarginazione.

Metteteci negli Stati Uniti, insieme a questo inaridimento corporativo della politica, la crisi scatenata dal fallimento Lehman & Brothers e dalla globalizzazione, la disoccupazione le difficoltà delle tradizionali industrie manifatturiere, a cominciare dall’auto, il carsico riemergere del razzismo e dell’integralismo bianco – sono ancora nell’aria le proteste del Black Lives Matter e la violenta contrapposizione con gli antagonisti – il femminismo arrembante e il Me Too, l’usura di uno spesso insopportabile “politicamente corretto”, l’approfondimento sempre più allarmante della faglia tellurica che separa le due coste produttive, ipermoderne e affluenti, e la grande, immensa pancia del Paese chiusa nell’egoismo iperconservatore e radicale della provincia che teme di non sbarcare il lunario e impreca contro “quelli di Washington”.

Insomma, gli assalitori del Campidoglio non dicono solo di sé, ma di un terremoto che agita tutti gli States, oggi di fronte a un bivio drammatico: da un lato, un presidente che sta ovviamente nell’alveo della democrazia e che, in ogni caso, sarà chiamato al compito forse impossibile di ridare forza alle ragioni e ricucire lo strappo terribile, dall’altro, un presidente uscente che dalla Casa Bianca, e dunque da primo garante della coesione e dell’unità di un Paese che si riconosce in una Carta fondante, invoca la piazza e delegittima il percorso che ha portato all’elezione del suo successore.

E’ una di quelle situazioni in cui il gioco tra il sistema politico e la società raggiunge soglie di fragilità che possono compromettere la stabilità dell’insieme, dipende da quanto il varco si allarga e dalla tenuta di un terreno di confronto e dialogo. Biden con decisione ha invitato Trump a lanciare, now, ora, un appello ai suoi sostenitori affinché desistano dalla protesta facinorosa e lui ha rivolto l’invito, accompagnandolo però con espressioni di affetto verso quei patrioti e ribadendo la lotta a oltranza contro le elezioni rubate. Intanto, si è conclusa la procedura per la ratifica dell’elezione presidenziale da parte del Congresso – Joe Biden e la vice Kamala Harris sono stati investiti e legittimati- mentre si registrano prese di posizioni dure nel partito democratico – impeachment, ricorso all’Emendamento 25 della Costituzione, per rimuovere subito il presidente – e anche in quello repubblicano, con il vicepresidente Pence che ha stigmatizzato l’assalto. Trump dal canto suo ha assicurato un’ordinata transizione verso l’avvio della nuova presidenza.

Noi, da quest’altra parte dell’Oceano guardiamo a quello che sta accadendo e sbaglieremmo se pensassimo a una questione tutta e solo americana. Quella faglia trema anche qui, in Europa, perché le cause strutturali, le placche problematiche che collidono l’una sull’altra ci riguardano e anche qui sollevano interrogativi sul divenire dei sistemi democratici, sulla loro adeguatezza ad affrontare il cambiamento e sul futuro che l’avventura unitaria deve avere. Rese ancor più attuali e drammatiche dall’emergenza in corso. Guardiamo con trepidazione e smarrimento. I prossimi mesi diranno dove sta andando l’America.