l’esprit républicain

Democrazia Futura. La “derivata italiana”. Quando il gioco si fa duro…

di Stefano Rolando, professore di comunicazione pubblica IULM e condirettore Democrazia futura |

Ma l’Italia è davvero “fuori gioco”? Qualche dubbio, un breve riepilogo, alcune domande. Con Stefano Rolando si apre un dibattito che riguarda proprio la nostra “democrazia futura”.

Stefano Rolando

Stefano Rolando argomenta sulla posizione dell’Italia nel nuovo quadro emerso dopo l’invasione russa dell’Ucraina analizzando le dichiarazioni di Draghi in riferimento alle ipotesi di razionamento energetico reso necessario dalle sanzioni imposte contro Putin.

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Pochi mesi fa si diceva che Mario Draghi – uscita la Merkel di scena, con Macron schiacciato dai problemi interni, Londra fuori causa Brexit – avrebbe avuto in mano le sorti dell’Unione. Oggi i nostri geo-politologi scrivono che “l’Italia è fuori gioco”.  Qualche dubbio, un breve riepilogo, alcune domande. Apriamo un dibattito che riguarda la nostra “democrazia futura” (argomento che conta anche nel breve e medio termine).

Mario Draghi si sta sforzando di essere chiaro. Non scansa alcuni giusti rinvii alla gravità della situazione o alcune ferme puntualizzazioni. “Non siamo in economia di guerra, ma ci dobbiamo preparare” ha, per esempio, detto di recente, introducendo un concetto derubricato dalla politica. “Meglio la pace o il condizionatore d’aria accesso o il termosifone al caldo?», ha tagliato corto in conferenza stampa[1] per dare un primo avvertimento realistico alle ipotesi di razionamento energetico che per ora filtrano ma che potrebbero diventare agenda.  Di indecente ci sono solo i massacri che vediamo tutti i giorni” ha risposto alla portavoce del governo russo che considerava “indecente” la posizione italiana sulle sanzioni.

Ma resta l’indole degli italiani: fare spesso i pesci in barile anche davanti a verità conclamate. E si è formata poi la dominante di un quadro elettorale in evidente azione, azione benvenuta in democrazia ma in cui la convenienza e l’apparenza contano alla fine più che la verità e il rigore.

Per questo la nostra “derivata nazionale”, rispetto ad una guerra che, pur essendo brutale, è sempre più geopolitica, è per ora un tema abbastanza confuso e oggetto di allusioni poco argomentate nel dibattito più in vista.

I tremila chilometri che separano Roma da Kiev vengono trattati a volte come se fossimo rimasti al tempo dei treni a vapore.

La solidarietà tuttavia c’è, la rete ucraina in Italia è una mediazione umana importante rispetto alla relazione generosa con i profughi. Ma la percezione scenaristica diffusa circa ruolo, coinvolgimento, conseguenze, appartiene più ai dibattiti in televisione della sera prima che, salvo per minoranze informate, ad una condivisione di identificati temi di una posizione nazionale.

Così facendo, fruiamo di caratteri astratti dell’idea che siamo in dinamiche global-live. Sianel campo dell’informazione, sia riguardo alle potenzialità strategico-militari dispiegate, arsenali nucleari compresi. Per ora probabilmente senza cogliere in modo netto nemmeno il significato della composizione di filiere ampie internazionali contro o a favore di questa guerra, da cui dipendono le sorti del mondo.

William Shakespeare diceva che “tutto il mondo è un palcoscenico”. Ma il grosso dell’umanità tra il cantiere e la platea finisce che sceglie la platea. Da qui – contando comunque su una soglia non irrilevante di capacità di giudizio e di valutazione, ma dovendo fare i conti con una soglia ancora troppo alta di analfabetismo funzionale – servirebbe una grande esigenza di “spiegazione” e di coinvolgimento in una pedagogia sociale a cui una volta provvedevano, nel loro pluralismo di vedute, i partiti politici e che oggi è un po’ terra di nessuno.

Il circo a tre piste

Questa – cioè la dicotomia tra la linea dell’emergenza e l’intreccio tra l’indole e gli irrisolti degli italianiè dunque una delle componenti del circo a tre piste in cui va letta la curva di consapevolezza del 2022 italiano.

La seconda pista è quella della “battaglia del grano” (la dico alla milanese) nel rapporto tra Europa e Italia attorno alle risorse per sostenere la progettazione e l’attuazione di manovre finanziarie e strutturali di uscita dalla crisi. Con il paradosso che, giorno dopo giorno, si alzano inquietudini sul rischio che quei soldi restino al palo per difetto di progettazione adeguata e dall’altra parte addirittura ministri del governo (mentre scrivo leggo le dichiarazioni di Patuanelli e Giorgetti) cominciano a dire che “i soldi non bastano e bisogna premere sull’ Europa per ottenere di più”.

La terza pista appartiene alla consistenza dello scenario che lo stesso premier continua – giustamente dal punto di vista del governo – a riferire alla unità di intenti del sistema decisionale, quello che più di un anno fa è stato solennemente battezzato come “emergenziale”, rispetto alla disunità irrinunciabile per il sistema dei partiti, non riformato e avviato ad una delle più difficili e confuse campagne elettorali della storia repubblicana.  Dice oggi Mario Draghi:

La governabilità non deve essere compromessa e si esprime con decisione e unità di intenti, che è quello che vogliono vedere i cittadini. Fra la riaffermazione dei vari partiti e l’unità di intenti sono sicuro che i cittadini scelgono la seconda”.

L’argomento contiene elementi di verità ma i commenti colgono anche fattori di logoramento (“La riforma fiscale è ormai un pretesto per logorare Mario Draghi”, intitola in prima pagina il quotidiano Domani[2]). 

Valori reputazionali e valori negoziali

Nel nostro peso relazionale con l’Europa è molto difficile indagare l’andamento di quella borsa del tutto immateriale che stima giorno per giorno, anzi ora per ora come fa il mercato azionario, non solo il valore reputazionale in sé ma anche quello realisticamente negoziale di ogni leader nazionale in rapporto alla evoluzione dello scenario globale.  

Si parla, cioè, del fixing dei rapporti di forza, dentro cui si colloca il possibile negoziato sull’orrenda guerra in Ucraina. E si parla soprattutto dei due fronti degli equilibri: quelli che garantiscono la fine delle ostilità e dell’invasione; e quelli sul fronte parallelo che regolano i rapporti negli equilibri interni del sistema UE a Bruxelles in questa delicata fase di adattamento.

Ora sono di moda i geo-politologi, che stanno prendendo il posto nei talk televisivi dei virologi e degli infettivologi. Con la stessa vaghezza delle questioni poste dai giornalisti e la stessa ambigua necessità di essere semplificati, ma cercando di andare un po’ al di là dei luoghi comuni. Il problema è sempre lo stesso: spiegare con parole comprensibili cose difficili.

La bibbia della geopolitica italiana, Limes, alla voce “Quanto pesa Draghi in Europa dopo un mese di guerra in Ucraina” risponde, a pagina 225 del fascicolo appena uscito su “La fine della pace[3], introducendo la terza parte del fascicolo che si intitola “L’Italia fuori gioco” a firma di Federico Petroni, che è il coordinatore della Scuola di Limes, in modo non evasivo:

La caratura internazionale del premier non è bastata a garantire peso al nostro paese quando il gioco si è fatto duro. Non stupisce: l’attuale governo ha un mandato prettamente economico (…). La voce di Draghi suona ora più lontana, ovattata[4].

Comunque, lo stesso fascicolo di Limes si chiude con una analisi demoscopica curata da Fabio Bordignon, Ilvo Diamanti e Fabio Turati che segnala un forte spostamento del sentimento di fiducia e sicurezza da parte degli italiani verso il patto UE-NATOin un crollo di immagine di Russia e Cina, sentimento che tra l’altro avvicina quasi tutti i partiti”. Argomento che parrebbe essere almeno a sostegno della stabilità interna tra premier, maggioranza e cittadini.

Quanto alle implicazioni in generale per l’Occidente e in particolare per l’Italia della guerra portata dalla Russia in Ucraina questa nota non riesce a fare nemmeno cenni sintetici. Ma l’argomento confina e confinerà a lungo – certo in tutto questo 2022 – condizionando una parte rilevante, anche al di là della pur immensa vicenda del taglio dei rifornimenti energetici italiani dalla Russia. E poi mettendo a soqquadro una tessitura politica attorno ai rapporti con la Russia di Vladimir Putin che è scritta a chiare lettere nella discontinuità di posizionamento che Mario Draghi ha assunto fin dall’inizio con una esplicitazione euro-atlantica che al momento sembrava sottolineata più del necessario mentre oggi, invece, se ne vede tutta la portata e la contestualizzazione.

Più complessa e per alcuni versi più tutelata dovrebbe essere la trama commerciale italiana in Russia e in generale a est, anche qui con un’immensità di dati e risvolti.

Il mio rinvio è obbligato per tutto questo trattamento all’analisi promossa in due parti da Democrazia Futura con i contributi di Pieraugusto Pozzi pubblicati in questo primo scorcio di aprile su Key4biz [5].

Il peso negoziale del sistema Italia

E’ proprio il tema del “quando il gioco si fa duro” che apre ora una doverosa discussione e una seria indagine sul peso negoziale del sistema Italia, che credevamo trasformato in forma competitiva per incanto, grazie alle relazioni europee di Mario Draghi e alle sue competenze.

Non solo. Anche grazie al suo modo morbido e tagliente di parlare; al suo sobrio e dinoccolato modo di camminare; al suo sincero e sornione modo di sorridere. In epoca di visibilità mediatica h.24 gli atti concreti pesano comunicativamente come le forme simboliche.

All’inizio Draghi aveva annunciato di parlare solo “a seguito di atti e fatti”. Con prudenza e nel tempo, anche se non sempre, a volte li ha anticipati, altre volte li ha accompagnati.  

Al di là del suo ruolo e del suo stile, i nessi tra l’azione di governo e gli irrisolti “di sistema” sono andati consolidandosi. E oggi, in un quadro contestuale più minaccioso, è giusto farci i conti.   

  • Il rapporto tra le forze politiche interne e le famiglie politiche europee è, per il grosso dei paesi europei, strutturale e per noi un po’ allusivo e per alcuni strumentale (malgrado il recente recupero fatto, grazie a Matteo Renzi, dal PD nel PSE europeo). Ciò rende poco strategica la nostra presenza nelle trame che precedono le rappresentazioni parlamentari. Ed è cosa di cui i media non parlano mai, ma a Bruxelles se ne parla.
  • Dietro all’inquietudine sui tempi e i modi di creare le condizioni di progettazione adeguata al Next Generation EU ci sono decenni di insufficienza professionale e competitiva di una parte rilevante delle nostre amministrazioni. Insufficienza che nessun paese competitor risolve in outsourcing o con i soli consulenti. Ma non sta funzionando molto il piano sinergico pubblico-privati. E non abbiamo più un associazionismo di impresa veramente progettuale, rifugiato per lo più nelle rivendicazioni.
  • Il nostro debito costituisce un fattore di preoccupazione diffusa in Europa tanto che si dice a Bruxelles – anche nei momenti di grazia ma da parte di voci che non hanno dismesso la metafora delle “cicale” – che “una troika su questo punto sia sempre pronta a partire per Roma”.  Questo è argomento di sorvolo, come lo sono nel nostro dibattito pubblico (dopo la morte di Ugo La Malfa, fatte salve le preoccupazioni di Carlo Azeglio Ciampi che Draghi tiene in evidenza per storica sintonia) tutte le cose della finanza pubblica diventate luogo comune. Le voci preoccupate in campo non sono molte. Giovanni Tria loda in questi giorni l’attenzione che il governo mette, malgrado tutto, alla questione[6].
  • Il peso delle multinazionali dei paesi che contano in Europa rispetto alla forza e alla dimensione industriale italiana è diventato impari. Diciamo spesso che in termini di competitività di mercato questo aspetto è equilibrato dalla creatività dei nostri imprenditori e dal design del “made in Italy”. L’argomento c’è, ma la finanza è immateriale e non sta sempre a guardare questo bel dettaglio[7].
  • Gli anni di distrazione rispetto alla necessità di spingere a tutti i costi sulla relazione innovazione-produzione hanno avuto – complice anche il primo duro anno di pandemia e il pressapochismo assistenziale dei governi precedenti – un effetto che ad ogni angolo e ad ogni vento contrario ha fatto frenare le piccole impennate del PIL (come è per esempio proprio in questi giorni). E anche questa si chiama “questione di sistema”. Morale, i titoli della stampa economica cominciano a toccare tasti di inquietudine segnalando “un futuro tra inflazione e recessione”.
  • E ancora. Le maggioranze italiane hanno reso possibile, appena l’altro ieri e comunque nel quadro di questa stessa legislatura, formare un assetto di governo – che mantiene ombre sul presente – che avallava qualche disprezzo per l’Europa e la Nato e divideva la sua concupiscenza verso Putin e verso la Cina[8]. Il cambiamento è in atto. Ma certe incoerenze hanno pesato. Cosa che fa comodo dimenticare, ma magari non se lo dimentica il quartier generale della NATO, anche se la prima cosa che viene in mente in materia di incoerenza riguarda le applaudite esternazioni dell’inquilino che è uscito un anno fa dalla Casa Bianca, dopo aver tentato di invadere non il debole Donbass ma il potente Campidoglio di Washington.  

L’elenco è ben più lungo. I nostri lettori e le più reputate firme di questa rivista – soprattutto coloro che interpretano bene i venticelli dei “si dice” quando si parla dell’immagine internazionale dell’Italia – lo conoscono anche meglio di me. Anche se la nostra diplomazia non è meno professionale delle altre europee. Anche se il tandem tra Quirinale e Palazzo Chigi conserva un sincero apprezzamento euro-atlantico. Anche se i media blasonati del capitalismo occidentale non riconoscono per ora altri interlocutori in Italia.

Il patto dell’esprit républicain

Ora è scoppiata una brutta guerra che, oltre a ricomporre le alleanze internazionali, presumibilmente tra democrazie e autocrazie, mette sul tavolo – e duramente – gli equilibri di potere e di fortune finanziarie nel campo dell’energia e nel campo della transizione digitale.

Due campi in cui una lunga storia di insufficienze politiche e imprenditoriali (da cui si sottraggono solo, per i loro tempi, Eni e Olivetti) ci ha reso sostanzialmente spettatori e consumatori.

Il patto contenuto nell’esprit républicain, con cui Draghi si era insediato, era rivolto a molti ambiti. Ai partiti (in democrazia sempre da considerare ineludibili); alle amministrazioni (nella storia sempre da considerare necessarie); al dialogo della PA con il sistema di impresa (nelle nostre condizioni possibilmente da immaginare capace di coraggio).

Tutto ciò per creare condizioni politico-istituzionali di “sistema Paese” nei due anni di tempo concesso alla potenzialità emergenziale.

  • Un anno è finito funestato da una guerra che ha alzato maledettamente le poste.
  • L’altro anno contiene una battaglia elettorale che renderà piuttosto più silenziose le amministrazioni e più rissosi i partiti, in cerca di posizionamento differenziato e di prese di distanza dal governo e dallo stesso Draghi.  Già ora ogni giorno ce ne è una (dal catasto al fisco alla giustizia) e la maggioranza è una fisarmonica; mentre sul tema pandemia bisogna ammettere che si sono ridotte le distanze strumentali[9].  

Il patto con i partiti politici nel febbraio del 2021 era – senza parlare qui di pronto soccorso – di un tempo creato per una rigenerazione, togliendo di mezzo il peso dei populismi. Per certi versi è vero quel che scrive Stefano Folli in questi giorni[10], ovvero che la guerra in sostanza puntella oggettivamente l’azione di governo. Ma è anche vero che la navigazione è piena di turbolenze.

Grandi mutamenti di metodo nei partiti (dopo anche la cattiva prova che si è espressa durante le impacciate elezioni per il rinnovo al Quirinale) nessun osservatore li coglie seriamente. Mentre alcuni capisaldi della democrazia possono consentire una valutazione di andamento “qualitativo” con considerazioni anche a vista.

Si tratta della vera e propria cornice di libertà di questo sistema, che è rappresentata da un lato dalla qualità dei processi partecipativi, dall’altro lato dalla libertà di informazione e in generale di tutte le fonti che producono e distribuiscono notizie e opinioni (un fronte che la guerra in Ucraina ha elevato a differenza abissale riconosciuta dalle giovani generazioni di tutto il mondo[11]).

Siamo stati al riguardo in alterne (e anche brutte) condizioni in varie fasi storiche.

Siamo stati per esempio per anni in “area gialla” rispetto all’area verde a cui apparteneva quasi tutta l’Europa secondo Freedom House, quanto a una dichiarata “non piena libertà di stampa”.

Ed è vero che – per ciò che si riferisce alla partecipazione – il dato fisiologico sull’astensionismo ha raggiunto il picco di un vincitore con l’11 per cento dei votanti nel collegio più al centro dell’Italia ovvero Roma 1 nel cuore della capitale. Insomma, partecipazione e senso civico comune appaiono dinamiche frenate da lunghe remore storiche ma anche da paure e entropie generate dalla crisi sanitaria.

Tuttavia, a fronte di tanti guai che accadono nel mondo (e anche vicino a noi),  avrei qualche indulgenza rispetto a queste realtà in cui – per rialzo di un certo civismo politico; per qualità che resistono nel sistema professionale dell’informazione; per la crescita di fenomeni di informazione anche specialistica in rete che sono degne di attenzione – le nostre forme di guardia della democrazia (con la tara di un po’ di spazzatura) magari non vincono il Pulitzer ma non sembrano fuori combattimento.

Poi magari anche dando ragione almeno in certe occasioni a Giuliano Ferrara (Foglio) che proprio oggi si chiede se esiste “un altro paese come il nostro dove il dibattito alimentato da politica e informazione raggiunge livelli così demenziali come da noi”.

Ma questo adesso ci porterebbe molto lontano.

Il dibattito, invece, che si può sollevare ora – con chi se ne intende, magari anche all’interno di quei processi – è quello che riguarda una cosa chiara: cosa resta ancora vivo di quel patto al servizio di quella potenzialità?

Il problema – come giustamente Limes avverte – non riguarda la qualità personali di Mario Draghi, su cui si soffermano per lo più soprattutto i media e le battute occasionali di politici ed elettori. Ma riguarda i fattori di forza che gli analisti della massa critica delle nazioni (esistono? a quale disciplina appartengono? dov’è il vero think tank?) potrebbero decifrare.

Se si vuole, si può chiamare questo dossier “MD”. Un leader è anche identificazione di un popolo.

Ma sarebbe meglio cercar di capire se, a proposito di questa misteriosa etichetta, si possa andare oltre l’intendere il solo “Mario Draghi”, provando a tener conto di tutti gli italiani e leggendovi gli ottimisti, per esempio, un “Magari Desti”. O, al contrario leggendovi i pessimisti, sempre per esempio, un “Maledettamente Dormienti”. 

Democrazia Futura è una rivista che non intende spostare l’indagine ad una verità del tutto futuribile. Era questa una vecchia malattia endemica della sinistra storica che aspettava “la rossa primavera” o identificava come utopica la soluzione delle iniquità.  

Brevi conclusioni

La democrazia futura, in verità, comincia tra un minuto, quindi ora.

In questo momento allineare gli argomenti di rischio non significa che non esista un certo presidio anche sui cantieri di effettiva positiva trasformazione.

La cultura del dubbio, parte di quell’esprit républicain che oggi è paradigma di governo, ci obbliga a porre domande generate da preoccupazioni.

Il riepilogo fin qui fatto riguarda giorni densi, drammatici. Con potenziali narrativi e di dibattito pubblico apparentemente ampi, perché dentro una sostanziale totalizzazione mediatica che è andata in continuità disarcionando dall’agenda la precedente totalizzazione dedicata alla pandemia. Ma alla fine i momenti di interpretazione dei processi (memoria viva e sguardo lungo) sono rimasti frustrati dall’immenso carattere dominante delle notizie riguardanti gli eventi. Ed è opportuno che chi opera al riparo dell’obbligo del “far notizia” provi ad attivare questi cantieri che appartengono ad uno sforzo di attenzione ai nessi meno visibili.

La morale di questo racconto, centrato sui risvolti italiani nella crisi militare e geopolitica che è esplosa, è scritta nel convincimento che Mario Draghi dovrebbe riuscire a governare la scissione tra l’azione a freddo dell’operato del governo rispetto alla azione a caldo dell’operato dei partiti nella loro ascendente guerra per occupare un terzo di posti meno della legislatura precedente con ricadute acide sui poteri degli esecutivi che seguiranno. Che forse non riguarderanno più la persona dii Mario Draghi ma gli assetti imprevedibili che si formeranno dopo la chiusura delle urne.

E in pari tempo nel convincimento che la nostra rappresentanza degli interessi nazionali in Europa e nello scenario globale per questo tempo non saranno marginalizzati, ma corrisponderanno alla difficile ma non impossibile valorizzazione geo-politica e geo-economica dell’Italia nello scenario tematico euromediterraneo. Che del resto Mario Draghi ha già cominciato ad accennare (in evidente autonomia da intese rispetto all’altro partner di riferimento di questa “visione” che è Emmanuel Macron) con una iniziativa forse destinata a sviluppi[12].

Che questa gimkana abbia una natura tortuosa e logorante è fuori di dubbio. Ma la tenuta della soglia del consenso interno e internazionale è parte dell’interesse nazionale. Dunque, avrà alcuni motori in funzione grazie a chi (parti sociali e amministrazioni) non vorrà rischiare il suicidio per ingloriosi infeudamenti di piccolo, piccolissimo calibro.

Mario Draghi potrebbe esser parte della continuità di ruolo in Europa per la fase due della manovra di rilancio economico, sempre a condizione che il governo della guerra in corso in Ucraina (soltanto?) avvenga nel prevalere della per ora fragilissima tregua rispetto ad una robusta minaccia di vietnamizzazione.

Saremmo lieti di risposte che argomentino il consolidato di qualche cambiamento ragionevole che guardi almeno al breve-medio termine dell’anno in corso.

Non per dare ragione a chi frettolosamente ancora pochi mesi fa d diceva che Mario Draghi – uscita la Cancelliera Angela Merkel di scena, con Emmanuel Macron schiacciato da problemi interni, Londra fuori per Brexit – avrebbe avuto in mano le sorti dell’Unione. Ma almeno per provare a dare torto a chi pensa che la cura economico-organizzativa dell’ultimo anno della pandemia non abbia cambiato quasi nessuno dei difetti strutturali del posizionamento italiano nelle interdipendenze globali.  

Quelle “interdipendenze” che andranno al loro “Congresso di Vienna” appena la macelleria lascerà il posto alla diplomazia.


[1] Palazzo Chigi, conferenza stampa di presentazione del Def, 7 aprile 2022.

[2] Sonia Ricci, “L’unica guerra che interessa ai parlamentari è quella sul fisco, Domani ,8 aprile 2022.

[3] Limes, La fine della pace, n. 3, 31 marzo 2022.

[4] In realtà – osserva Oscar Giannino (Tw, 7 aprile 2022) – la lagnanza del ministero degli Esteri russo nei confronti del premier italiano (riferita all’Italia) sarebbe stata originata dalla precisione dell’intervento compiuto dallo stesso Mario Draghi attorno alle restrizioni più pesanti fatte dai paesi occidentali alla Russia, cioè in particolare i limiti imposti alla banca centrale russa.  Così “lontana e ovattata”, insomma…

[5] Pieraugusto Pozzi, Democrazia Futura. A 100 secondi dalla mezzanotte nucleare, Key4biz, 7.4.2022 HTTPS://WWW.KEY4BIZ.IT/DEMOCRAZIA-FUTURA-A-100-SECONDI-DALLA-MEZZANOTTE-NUCLEARE/399253/ e Democrazia Futura. La necessità di un approccio critico interdipendente e interdisciplinare, Key4biz 8.4.2022 https://www.key4biz.it/democrazia-futura-la-necessita-di-un-approccio-critico-interdipendente-e-interdisciplinare/399431/.

[6] Giovanni Tria, “Perché il rapporto debito-Pil deve calare”, Il Sole-24 ore, 9 aprile 2022.

[7] L’ultimo saggio di Giulio Sapelli (Nella storia mondiale. Stati Mercati Guerre, Milano, Guerini, 2021) offre spunti contestualizzati al riguardo.

[8] Un’analisi condotta all’interno delle valutazioni tecniche sulla politica estera italiana, in Ferdinando Nelli Feroci, presidente IAI, La politica estera del Governo giallo-verde, Documenti IAI 4 marzo 2019, in cui il punto di analisi riguarda “la politica estera dell’Italia caratterizzata da una evidente discrasia fra la retorica e la narrativa dei due partiti che compongono la maggioranza”.

[9] Per il momento gli osservatori sono concordi nel percepire “il logoramento strumentale ben delimitato dal non volere nessuno provocare una crisi di governo” (questa sintesi, ad esempio, in Massimo Franco, “Il fronte interno, Il Corriere della Sera,  8 aprile 2022).

[10] Stefano Folli, “Il conflitto puntella una legislatura finita”, La Repubblica, 8 aprile 2022.

[11] Dopo i fatti esecrabili di Bucha sono esplosi in rete i dossier di testimonianze che sterilizzano il negazionismo prodotto dalla propaganda russa, ripresi dai maggiori siti di diritti umanitari internazionali (Human Rights Watch, Amnesty international, persino Wikipedia).

[12] L’incontro a Villa Madama a Roma tra il premier italiano e i premier Pedro Sanchez (Spagna), António Costa (Portogallo) e Kyriakos Mitsotakis (Grecia) avvenuto il 18 marzo con carattere ancora simbolico, apparentemente per sollecitare “da sud” l’Unione europea a una decisa e convergente politica in materia energetica, in realtà si colloca in un solco lontano e ha qualche argomento per un rilancio a fasi di crisi più allentate.