La strategia

Democrazia Futura. Italia e politica estera, cosa ci aspettiamo da Mario Draghi

di Stefano Silvestri, già Presidente dell’Istituto per gli Affari Internazionali e Sottosegretario di Stato alla Difesa |

Ad oggi manca una considerazione attenta dei mezzi necessari per raggiungere i fini auspicati nonché una impostazione strategica di medio-lungo termine che venga coerentemente perseguita dall’insieme o comunque da gran parte, di coloro che in Italia “fanno” politica estera.

Stefano Silvestri

Con un articolo su “Cosa ci aspettiamo da Mario Draghi” in tema di “Italia e politica estera” inizia con questo numero la prestigiosa collaborazione su Democrazia futura di Stefano Silvestri, uno dei nostri massimi esperti di geopolitica già Presidente dell’Istituto per gli Affari Internazionali e Sottosegretario di Stato alla Difesa. “Tra i tanti miracoli che ci si aspetta da Mario Draghi c’è anche quello di regalare all’Italia una politica estera da grande protagonista. Le aspettative però cambiano a seconda delle preferenze degli osservatori” Secondo Silvestri “il nostro dibattito politico ha sempre avuto qualche difficoltà ad affrontare la politica estera. In particolare manca una considerazione attenta dei mezzi necessari per raggiungere i fini auspicati nonché una impostazione strategica di medio-lungo termine che venga coerentemente perseguita dall’insieme o comunque da gran parte, di coloro che in Italia “fanno” politica estera […]. Ciò detto, una qualche aspettativa è giustificata dalla gravità e urgenza delle decisioni da prendere, dalla crisi di leadership e di idee in cui sembra dibattersi l’Europa, e dalla autorevolezza che il nostro attuale Presidente del Consiglio si è guadagnata in questi anni sulla scena internazionale”. Fatta questa premessa – dopo aver osservato come “gli Stati Uniti stanno riducendo i loro impegni, come emerso palesemente in queste ultime settimane in Afghanistan: Il loro rapporto con la Russia è ad un livello bassissimo e quello con la Cina sembra destinato a peggiorare” e come “dopo il successo del piano di finanziamento europeo per la ripresa, il motore franco-tedesco sembra essersi inceppato [con] iniziative mal preparate che si sono risolte in umilianti fallimenti”– Silvestri dichiara che “L’Europa ha bisogno di una leadership e questa non può prescindere dalla coppia franco-tedesca, ma è stato chiaro sin dall’intuizione che portò Alcide De Gasperi ad aderire alla Dichiarazione Schumann e quindi alla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (Ceca), che la presenza italiana, apparentemente ben poco necessaria, era in realtà essenziale per evitare una egemonia a due che sarebbe presto divenuta inaccettabile. Oggi l’Italia ha la doppia possibilità – prosegue Silvestri – di ridare fiato e credibilità a proposte più avanzate di governabilità europea e di aiutare la coppia di testa ad uscire dal buco in cui si è cacciata, un po’ per arroganza e molto per superficialità. Una tale politica sarà tanto più credibile se combinerà ad alcuni elementi di “architettura variabile” (necessaria per superare il voto all’unanimità e dare alle decisioni la rapidità necessaria per la loro efficacia) altri a dimensione comune europea come il completamento del mercato unico, l’unione bancaria, l’estensione ad altri casi di forme collettive di indebitamento e garanzia. Tutti aspetti in cui la competenza del nostro Presidente assicura un vantaggio di partenza”. Un banco di prova sarà naturalmente la “difficile frontiera mediterranea e mediorientale” perché “non possiamo permetterci un altro Afghanistan in terra d’Africa”.


Tra i tanti miracoli che ci si aspetta da Mario Draghi c’è anche quello di regalare all’Italia una politica estera da grande protagonista. Le aspettative però cambiano a seconda delle preferenze degli osservatori. C’è chi spera che l’Italia forgi con gli Stati Uniti una relazione speciale tale da far invidia alla Gran Bretagna. C’è chi invece punta ad un grande ruolo riformatore europeo (per alcuni di stampo federalista, per altri più da campione nazionale). Ci sono quindi i globalisti, che guardano alle Nazioni Unite, ai grandi vertici internazionali e alle massime problematiche globali quali l’ambiente, la povertà, i diritti umani, e pensano che questo dovrebbe essere il nostro campo d’azione prioritario. E naturalmente c’è chi spera nella grande riscossa mediterranea dell’Italia, contro ogni vento o marea, si chiami essa Francia, Turchia o Russia. In tanta confusione e genericità, è inevitabile che i più resteranno delusi. Ma il fatto è che il nostro dibattito politico ha sempre avuto qualche difficoltà ad affrontare la politica estera.

In particolare manca una considerazione attenta dei mezzi necessari per raggiungere i fini auspicati nonché una impostazione strategica di medio-lungo termine che venga coerentemente perseguita dall’insieme o comunque da gran parte, di coloro che in Italia “fanno” politica estera, oltre ai diplomatici e ad alcune figure politiche e istituzionali, dagli opinionisti agli industriali, dai militari ai funzionari dai maggiori dicasteri, sino all’associazionismo privato a fini umanitari ed altri ancora.

Ciò detto, una qualche aspettativa è giustificata dalla gravità e urgenza delle decisioni da prendere, dalla crisi di leadership e di idee in cui sembra dibattersi l’Europa, e dalla autorevolezza che il nostro attuale Presidente del Consiglio si è guadagnata in questi anni sulla scena internazionale.

Il nostro mondo non è in buona salute. Malgrado Joe Biden abbia, almeno per ora, riportato gli Stati Uniti al loro ruolo naturale di leader globale, molti dei danni compiuti da Donald Trump non sono facilmente rimediabili. E comunque gli Stati Uniti stanno riducendo i loro impegni, come emerso palesemente in queste ultime settimane in Afghanistan: Il loro rapporto con la Russia è ad un livello bassissimo e quello con la Cina sembra destinato a peggiorare. Sarà difficile affrontare con successo le grandi problematiche dell’ambiente, dello sviluppo e della pace (o anche solo del controllo degli armamenti e della riduzione dei rischi di guerra) senza la cooperazione di questi interlocutori.

Ciò riversa crescenti responsabilità e pesi aggiuntivi sulle spalle degli Stati Uniti d’America e dei loro alleati obbligandoli a cercare di mobilitare enormi risorse finanziarie, tecnologiche e umane in una situazione che è oggettivamente di relativa scarsità. In un tale quadro l’Italia ha un ruolo oggettivamente limitato: il meglio che può fare è di non aggiungere altri ostacoli, ad esempio fallendo gli obiettivi del Recovery Plan europeo.

Una maggiore iniziativa può invece essere possibile in Europa e nel Mediterraneo, a condizione di ben calibrare le ambizioni con le reali capacità e gli orientamenti dei potenziali alleati. Il fatto è che,. Non solo Emmanuel Macron vede la sua rielezione in bilico, mentre Angela Merkel è ormai a pochi mesi dal pensionamento, ma i due paesi hanno lanciato iniziative mal preparate che si sono risolte in umilianti fallimenti. Pensiamo ad esempio all’idea di un Consiglio di Sicurezza europeo, per snellire e controllare meglio le iniziative di difesa e sicurezza. Progetto nato male che, sin dalla scelta del nome, suggeriva una replica a livello europeo della diseguaglianza permanente tra i cinque Paesi membri del Consiglio di Sicurezza, i cosiddetti P5, vale a dire Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito e Francia, e gli altri nelle Nazioni Unite. Analogo, ma anche più evidente il fallimento della proposta franco-tedesca di riaprire un dialogo con Vladimir Putin, dopo il vertice russo-americano di Ginevra. Una iniziativa estemporanea, mal preparata, senza consultare gli alleati e senza chiarirne gli obiettivi, tanto più di fronte al chiaro disinteresse di Putin.

Di per sé queste proposte potrebbero benissimo far parte di una iniziativa italiana in Europa, a condizione che vengano meglio circoscritte e pensate. L’Europa ha bisogno di una leadership e questa non può prescindere dalla coppia franco-tedesca, ma è stato chiaro sin dall’intuizione che portò Alcide De Gasperi ad aderire alla Dichiarazione Schumann e quindi alla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (Ceca), che la presenza italiana, apparentemente ben poco necessaria, era in realtà essenziale per evitare una egemonia a due che sarebbe presto divenuta inaccettabile.

Oggi l’Italia ha la doppia possibilità di ridare fiato e credibilità a proposte più avanzate di governabilità europea e di aiutare la coppia di testa ad uscire dal buco in cui si è cacciata, un po’ per arroganza e molto per superficialità. Una tale politica sarà tanto più credibile se combinerà ad alcuni elementi di “architettura variabile” (necessaria per superare il voto all’unanimità e dare alle decisioni la rapidità necessaria per la loro efficacia) altri a dimensione comune europea come il completamento del mercato unico, l’unione bancaria, l’estensione ad altri casi di forme collettive di indebitamento e garanzia. Tutti aspetti in cui la competenza del nostro Presidente assicura un vantaggio di partenza.

Ma l’Italia ha anche una difficile frontiera mediterranea e mediorientale. Il fatto che questa sia anche la frontiera dell’Europa non ha dato vita ad una vera politica comune, ma solo ad alcuni spezzoni disarticolati ed insufficienti. La teoria è ormai consensuale, sia per quel che riguarda la Libia, sia per la necessità di intervenire per stabilizzare il Sahel. Qui il problema italiano non è quello di affermare un suo nazionalismo imperialista e certamente anche straccione, ma di assicurarsi che le buone intenzioni europee divengano una vera politica comune. Si tratta in altri termini di portare l’Europa in Africa, come auspicato sia da Joe Biden sia dall’Unione Africana, ma come è difficilissimo fare per il crescere del terrorismo islamico e per l’esistenza di troppi regimi cleptocratici e corrotti. Anche qui c’è un grosso problema di risorse economiche, politiche e militari da impegnare in modo coordinato e continuativo: non possiamo permetterci un altro Afghanistan in terra d’Africa.

Draghi non sembra spinto da grandi sogni di palingenesi, ma dalla volontà di affrontare concretamente i problemi con quel che c’è (e magari con quello che ci deve essere). Egli ha scelto con chiarezza di appoggiare Biden, così come si è collegato alla coppia franco-tedesca, ma non credo si faccia molte illusioni. Se vogliamo uscire dalla crisi abbiamo bisogno di ogni nostra risorsa, da utilizzare secondo i nostri interessi, sia che si tratti di Cina sia che si tratti di Stati Uniti d’America. Al di là delle nostre tradizionali “scelte di campo”, e senza minimamente rimetterle in discussione, questa si chiama politica estera. Speriamo di riuscire a farne.