giornalismo

Democrazia Futura. Informazione, un genere in via di estinzione

di Massimo De Angelis, scrittore, giornalista, si occupa di filosofia |

Ci vorrebbe una vera opinione pubblica europea, supportata da una vera informazione europea libera e plurale, riferimento di una governance europea in cui tutti possano davvero riconoscersi.

Con Massimo De Angelis iniziamo il focus di approfondimento di Democrazia futura dedicato al tema Stampa, informazione, comunicazione, istituzione e potere ai tempi del corona virus: infodemia, propaganda e disinformazione. Per Massimo De Angelis l’informazione è ormai “un genere in via di estinzione”, essendo stato inferto “un colpo mortale all’essenza stessa del giornalismo che è confronto fra opinioni diverse e pluralismo”. Privo di “un’opinione pubblica vigile e robusta che è la vera esclusiva dei sistemi liberaldemocratici”.

Qual è lo stato del sistema informativo all’epoca del Covid? Pessimo direi. Concentriamoci su una prima istantanea. Estate 2019. La politica e l’informazione italiane sono state scioccate e poi sballottate per oltre un anno dal governo gialloverde. C’è l’ultimatum di Salvini condito con troppo papeete. Mossa azzardata che consente una svolta. Consente l’alleanza di governo giallorossa. La vulgata dice che si sono voluti con ciò negare i pieni poteri invocati da Salvini. La riflessione politica dice – lo affermò con schiettezza Franceschini ma lo pensavano in molti – che viene fissata allora una nuova conventio ad excludendum. 

Da una parte i filo-Ue, dall’altro gli anti-Ue. Di nuovo guelfi e ghibellini insomma. E il paragone è meno assurdo di quel che potrebbe sembrare. Esso andrebbe anzi davvero approfondito. Una lunga abitudine della penisola nei secoli, indotta per debolezza a definire identità interne contrapposte per rapporto a potenze straniere, si è fatalmente riprodotta anche dopo il fascismo. Prima la conventio ad excludendum del Pci (controbilanciata peraltro dalla pregiudiziale antifascista), adesso una conventio ad excludendum delle destre nazionalitarie. Si tratta di scelte in entrambi i casi non solo lecite ma legittime, sia ben chiaro. E naturalmente come c’è una responsabilità lunga del Pci dopo il ’48 e sino all’’89 del secolo scorso, c’è una responsabilità non si sa quanto prolungata delle destre oggi.

A me interessa qui mettere a fuoco il prezzo di tale costante della vita italiana. Siamo un paese da quasi un secolo a sovranità limitata, che ha pagato ciò con un’estrema fragilità istituzionale, con un progressivo incepparsi economico-sociale, un inaudito impoverimento culturale e con un assetto di potere reso inefficiente e corrotto dalla mancanza di alternative. Forse c’è il quindicennio dal ’95 al 2010 (sì quello dell’alternanza Berlusconi-Prodi) in cui qualcosa è sembrato aprirsi sia pure in modo confuso e convulso ma ormai quella parentesi sembra definitivamente chiusa.

Non vediamo l’ora di tornare al proporzionale e al suo trasformismo. Ma che cosa c’entra il sistema informativo con tutto ciò? C’entra. E molto. Chi scrive è convinto che il sistema informativo è decisivo nelle società democratiche in quanto per un verso è contropotere, “cane da guardia” della società civile e della stessa libertà rispetto al potere politico e giudiziario, per altro, più originariamente, in quanto è sede e motore del libero dibattito, del flusso continuo di idee e del confronto tra di esse, animato perciò da una inquietudine critica volta a ricercare una verità che corrisponde al “come stanno davvero i fatti”. E può esser cane da guardia in quanto consiste in tale scorrere vivo della società civile; dando così vita a un’opinione pubblica vigile e robusta che è la vera esclusiva dei sistemi liberaldemocratici rispetto agli altri.

Ebbene tale sistema, in una parola il “giornalismo”, è venuto da tempo indebolendosi a causa di molteplici fattori. Pensiamo alla precaria separazione dei poteri in Italia, alla commistione tra di essi, che ci ha fatto sempre assomigliare a un “regime”. Pensiamo alla lunga mancanza di alternanza al governo. Pensiamo più di recente alla concentrazione delle testate da un lato e all’ascesa della rete e dei suoi poteri dall’altro.

Le conseguenze della concentrazione delle testate e dell’ascesa della Rete sul sistema informativo

La svolta del Covid’19 ha però segnato un salto anche nel sistema informativo. Tg del servizio pubblico ancor più rigidi di prima, tg privati crescentemente faziosi, con in testa quello di La 7. Stesso discorso per i talk show. Se si seguono i talk show di La 7 ormai è sparito il contraddittorio: personaggi e interpreti sono solo quelli della maggioranza e perfino un Renzi è visibilmente un intruso. In quelli di Mediaset il livello è spesso assai basso con l’eccezione di Stasera Italia che tenta di conservare un approccio pluralista.

Tutto ciò ha come effetto quello di dare un colpo mortale all’essenza stessa del giornalismo che è appunto confronto tra opinioni diverse e pluralismo. Rendere i talk show e in qualche misura i Tg monocromatici ha infatti effetti assai dannosi. Il pubblico diventa una tribù che passa dall’uno all’altro talk show della sua area di appartenenza, ignorando quelli degli altri e anzi abituandosi all’idea che solo le proprie idee hanno diritto di cittadinanza. Ma questo crea un solco tra pubblici e opinione pubblica sempre meno comunicanti. Ed è prodromico a ogni tipo di mancanza di dialogo, intolleranza e radicalizzazione. Il secondo effetto è che tale pubblico si assottiglia sempre più (il periodo del Covid ha potuto creare in proposito una illusione ottica).

Questo non solo perché il monocromatico è più noioso della diversità e del confronto ma perché a questo punto l’informazione cessa di apparire tale e si mostra sempre più come meccanismo di persuasione. Il giornalismo diventa insomma sempre meno ascoltato, sempre meno “credibile” e sempre più sgradevolmente affabulatorio. L’irrigidimento politico del sistema informativo, in conclusione, ha come effetto la creazione di un vallo sempre più profondo che taglia trasversalmente aree di opinione pubblica e politica diverse e in secondo luogo, qui invece top down, di un solco tra il cosiddetto establishment e il “popolo” che considera sempre meno credibile e sempre più giudicante-autoritario il sistema informativo.

Una cartina di tornasole e insieme una conseguenza della postura dell’attuale giornalismo è che esso oramai da tempo ha rinunciato a un suo compito cruciale: scovare sul campo notizie. Con l’eccezione di Giletti e qualche volta di Formigli ( e delle iene) questo genere è ormai del tutto incolto. Il nostro è sempre più chat journalism, giornalismo che chiacchiera di cose già note con lo scopo di dare giudizi e impartire direttive.

La svolta autoritaria: l’informazione come martellamento e persuasione

Cosa nasconde la verità “ufficiale” promulgata dal governo ai tempi del Corona Virus

Siamo partiti dalla svolta del ’19. Ma c’è stato poi il Covid. Seconda istantanea. Che ha solo drammaticamente accelerato le tendenze ora descritte. Sempre più l’informazione è diventata martellamento e persuasione. Con un nuovo totem, la scienza. A lungo però, e a tutt’oggi, si sono manifestati pareri anche fortemente diversi tra gli scienziati. Ed è inevitabile e positivo che ciò avvenga perché anche la scienza moderna, come tutte le creature del pensiero europeo, passa attraverso il confronto tra ipotesi differenti.

L’informazione non ha però inteso dar conto di questa varietà ma solo della verità “ufficiale”, quella cioè via via accolta e promulgata dal governo. Con un’evidente e preoccupante torsione autoritaria.  Un esempio per tutti: la manganellatura mediatica riservata a Crisanti sino a poco prima elogiato senza riserve, per aver sollevato qualche dubbio sullo stato di certificazione dei vaccini. (Gli esempi, si badi, potrebbero essere numerosissimi).

Naturalmente quella che si descrive non è una realtà uniforme e monolitica ma una tendenza profonda però, che rende il nostro sistema informativo non di regime ma caratterizzato ormai da seri tratti illiberali. Si pensi ai silenzi sulla famosa gestione dell’Oms dei dati sul piano di prevenzione sanitario italiano. Ma si pensi anche a un caso più di fondo e paradigmatico. Il Covid ha reso più solidi e vincolanti i rapporti tra governo italiano e Ue.

Ora i meccanismi di decisione europea sono poco trasparenti ed estremamente farraginosi, inutile negarlo. Però sono dotati di una loro razionalità. Un’informazione degna di questo nome dovrebbe spendere tempo proprio a chiarire tale razionalità e il succo politico delle scelte europee. Oltre che naturalmente non abbandonare mai del tutto lo spirito critico.

Forse è difficile ma è possibile e alcuni rari esempi di giornalismo professionale lo dimostrano. E’ però più facile fare il tifo e parlare sempre di europeisti contro antieuropeisti. Tranne poi trovarsi in curiosi imbarazzi che producono silenzio. Per lungo tempo si è urlato che il Mes era praticamente un regalo e che era folle non prendere i famosi 37 miliardi. Poi, piano piano, l’argomento è venuto meno. E non, si badi, per un diverso accertamento pubblico dei fatti ma per opportunità politica.

Cambiamento comprensibile negli alleati di governo dei 5 stelle (contrari al Mes) ma non nel sistema informativo. Chi segue in modo vigile la tv come dovrebbe prendere tali giravolte? Che idea si può fare del dibattito pubblico e della sua serietà quando i talk show, a cominciare da Otto e mezzo, sono delle chat room i cui interpreti, sempre più una compagnia di giro, esibiscono le loro certezze senza rappresentare affatto convinzioni, dubbi, propensioni o avversioni dell’opinione pubblica? Ma solo, talora ostentatamente e narcisisticamente le proprie?

Le porte troppo girevoli fra politica e giornalismo

La fine dello spirito critico e il tratto prescrittivo-giudicante della nuova informazione autoritaria: da cane da guardia della società civile a cane poliziotto del potere

La malattia dell’informazione italiana affonda le sue radici in malanni di lunga data. Innanzitutto nel vizio del giornalista italiano di voler far politica con altri mezzi. Il giornalista spesso al politico non vuol far le pulci ma favori. Tranne quando è in difficoltà perché allora lo manganella: naturalmente per fare un favore al politico dell’altra parte. Tra politica e giornalismo del resto vi sono carriere a porte girevoli. Si è prima giornalisti e si studia da politici poi magari, diventati politici, si torna giornalisti e poi chissà. Lo stesso difetto del rapporto magistratura-politica che si traduce in un’inevitabile tendenza alla faziosità, all’ingiustizia, all’oligarchia e al regime.

In questi ultimi anni, tra svolta politica del ’19 e Covid, tutto ciò è come precipitato. Prima si è soffocato il pluralismo poi si è passati dall’essere cane da guardia della società civile verso il potere ad essere cane poliziotto del potere verso i cittadini. Che andavano intimiditi e poi magari paternalisticamente blanditi perché si erano comportati bene. Già nei decenni passati, in modo accelerato col tracollo del sistema universitario che ha solo portato a conclusione una tendenza di più lungo periodo, gli intellettuali sono via via divenuti ancillari al giornalismo. Col che si è perso non lo spirito critico ma la sua profondità. Ora però si sta perdendo del tutto proprio il senso critico. Il senso del dialogo e del confronto cede sempre più il campo a uno spirito prescrittivo-giudicante. C’è chi è per bene e chi è populista e quindi fuori dal salotto. In genere c’è chi è dentro e chi è fuori dal perimetro del politically correct ed è dunque un non cittadino, almeno nel senso attivo del termine. Niente illustra meglio la rapida parabola di tale brusco passaggio del giornalismo televisivo italiano che pensare alla tv di Michele  Santoro e Lilli Gruber. Dalle masse che si fanno demagogicamente tv nel primo, alla tv che si chiude in salotto animando un establishment di cartapesta che esclude e disprezza quelle stesse masse prima un po’ rozzamente evocate.

La frattura fra intellettuali e popolo

La loro condanna/liquidazione delle masse “populiste” nei social network

In questo passaggio si realizza una grandiosa, tremenda frattura tra intellettuali e popolo. Prendiamo il famoso hate speech che corre nei social. Come non vedere che un atteggiamento del tutto incapace di comprendere il fenomeno, puramente demonizzante e repressivo, da parte della tv e dello stesso Parlamento, non è altro che propellente per quello stesso fenomeno.

 Che volendolo reprimere lo si fa esplodere come una polveriera? Si dirà: ma non esiste solo la tv, esistono i giornali. Vero ed è vero che il livello di articolazione discorsiva e critica dei giornali resta ancora maggiore. Ma anch’esso ha pagato dazio all’irrigidimento politico e poi, per un verso la concentrazione delle testate ha impoverito e troppo gerarchizzato anche questo mondo, soprattutto con l’agonia e scomparsa di vere testate regionali e locali, per un altro, se è vero che i giornali sono ancora serbatoio di idee per la tv è però vero che è la tv che dà il tono al circolo mediatico.

Chi come me ha avuto un’educazione gramsciana circa l’esercizio intellettuale, lo dico senza alcuna spocchia, ha sempre quasi automaticamente pensato che tale esercizio consistesse essenzialmente nel confrontarsi, dialogare e interpretare sentimenti, umori, anche grezzi, oscuri persino violenti e illegali delle masse popolari naturalmente per bonificarli, incanalarli, rappresentarli, guidarli in chiave democratica. Ma mai giudicare, condannare o semplicemente mettersi col ditino alzato. Mai escludere. Magari metà del Paese. Mai. Già Gramsci. Ma anche Pasolini. Oggi menano la danza dell’informazione i patiti del politically correct e quindi del dentro-fuori.  Quindi della divisione e del fastidio per le masse popolari troppo facilmente liquidate come “populiste”. E che Dio ce la mandi buona.

In democrazia sovranità e opinione pubblica sono due facce della stessa medaglia

L’assenza di un’opinione pubblica europea e di un’ informazione europea libera e plurale per essere padroni del nostro destino

Un’ultima considerazione. La democrazia italiana come quella europea dovranno prima o poi accorgersi che il tema della sovranità in democrazia non è un optional e che d’altra parte non si dà mai democrazia senza una opinione pubblica, ricca plurale, aperta. libera.

Quel che ci vuole è un’Italia e un’Europa che superino timidezze e ogni riflesso burocratico e di comando per aprirsi ad un confronto aperto, a un dialogo fatto anche di scontri se serve ma volto a costruire un tessuto di comune sentire. Di opinioni condivise.

 Occorre comprendere che sovranità e opinione pubblica libera sono due facce della stessa medaglia. Quella che consente di sentirsi padroni del proprio destino; di sentirsi liberi e non schiavi. Ecco ci vorrebbe quanto è più lontano dall’esistere: una vera opinione pubblica europea, supportata da una vera informazione europea libera e plurale, riferimento di una governance europea in cui tutti possano davvero riconoscersi. E invece.

Dice il filosofo tedesco Juergen Habermas che la democrazia ha bisogno di presupposti etici religiosi o di origine religiosa che si stanno erodendo. Il sistema informativo, col suo criterio di verità è forse l’ultimo di tali presupposti. Se anch’esso viene meno rischiamo di assomigliare sempre più a uno dei regimi autoritari che ci circondano.

L’Unione europea è un’impalcatura delicata e complessa perché deve tener conto di una pluralità statal-nazionale irriducibile ed è inoltre al crocevia tra Occidente e Oriente, tra libertà e democrazia da una parte, dispotismo, dittatura e fondamentalismo dall’altra.

L’Europa potrebbe esser tentata di farcela indebolendo le prerogative della libertà e della sovranità a favore di quelle del comando burocratico-amministrativo. Libertà che, si badi non è innanzitutto quella degli stili di vita nel senso del consumo enogastronomico e del night club ma libertà religiosa, di pensiero, di stampa e quindi politica. Se l’Europa cederà alla tentazione di rinunciare alle proprie radici, l’Europa sarà morta e alla fine non esisterà nemmeno come soggetto politico. Perché l’Europa o è libera o non è.