L'informazione

Democrazia Futura. Informare, educare, intrattenere ai tempi della rete e della pandemia

di Andrea Melodia, giornalista già presidente dell’Unione Cattolica Stampa Italiana |

Ritrovare qualità, rilevanza, utilità sociale e un giusto equilibrio tra i tre macro generi tradizionali.

Prosegue il dibattito di Democrazia futura sul futuro del giornalismo. In chiaro dissenso da Michele Mezza, Andrea Melodia invita a “Rideclinare il trittico di John Reith primo direttore generale della BBC “Informare, educare, intrattenere ai tempi della rete e della pandemia”. Per un servizio pubblico come la Rai occorre “Ritrovare qualità, rilevanza, utilità sociale e un giusto equilibrio tra i tre macro-generi tradizionali. [..]. La sua regolamentazione, nel difficile perseguimento dell’equilibrio tra libertà individuali e bene sociale, è un problema dei poteri pubblici che richiede con evidenza un approccio sovranazionale. Non è colpa solo di Twitter o di Facebook se questa regolamentazione non viene implementata, e nel complesso credo che possiamo solo ringraziare queste piattaforme se in assenza di regole pubbliche cercano di darsele da sole, come è avvenuto dopo l’assalto a Capitol Hill, ricevendone critiche, rifiuti e perdite di valore. Ringraziarle, ma non certo rinunciare a pretendere che esse vengano regolamentate”.

Andrea Melodia

Rideclinare il trittico di John Reith ai tempi della Rete

Mancano solo un paio d’anni al centenario della famosa triade inventata da John Reith per definire la missione della BBC. Non sono bastati i moniti del liberista Karl Popper sulla televisione cattiva maestra per diffondere la consapevolezza che informare, educare e intrattenere sono modalità imprendiscibilmente connesse, sia pure in rapporti variabili, in ogni forma di comunicazione. Con buona pace di quanti descrivono il ruolo pedagogico della TV come qualcosa di simile alle mutande delle ballerine negli anni Cinquanta.

Quando Mr. Trump arringa i suoi seguaci perché marcino sul Parlamento dà loro una informazione, fa opera diseducativa e mi diverte alquanto, con la sua zazzera e le sue pose mussoliniane. Humour nero, naturalmente. Nel TG1 della sera, i decolletés delle signore o gli abiti gessati di Francesco Giorgino riguardano la sfera dell’intrattenimento, e quindi sono ammissibili in linea di principio e se rispettano il (mio) gusto. Sono solo esempi, si potrebbe continuare all’infinito.

In sostanza, ogni atto di comunicazione comprende un aspetto informativo, quanto meno relativo a sé stesso; uno pedagogico, perché orienta conoscenze e comportamenti; uno ludico, perché aspira ad essere accolto con piacere. Ciascuno in proporzioni variabili, ciascuno con il suo orientamento qualitativo. Questo aspetto è indipendente dalla intenzionalità intrinseca dell’atto, per la quale la narrazione giornalistica di un fatto di cronaca ha finalità diverse da un racconto di invenzione. Nel caso di un canale di flusso, come per l’Auditel, l’analisi può essere suddivisa per segmenti, ma anche raggruppata per unità temporali. Purtroppo, non disponiamo di una metodologia capace di fornire misurazioni attendibili.

Se oggi la televisione sembra aver colpevolmente rinunciato a salvaguardare l’equilibrio tra quel 33 percento del suo ruolo informativo, il 33 percento di quello educativo e altrettanto di quello di intrattenimento – a percentuali che dovrebbero tendere a pareggiarsi – la questione riguarda, grazie alla esplosione degli strumenti, tutte le forme di comunicazione. Sul fronte degli effetti sociali, che sono presenti sia per l’informazione, sia per l’educazione, sia per l’intrattenimento, il problema sarà piuttosto di intendersi sulla qualità: diamo per postulato che al bene sociale servano una buona informazione, una buona educazione, un buon intrattenimento. Tutto sta nel mettersi d’accordo: prima per definire cosa è buono e cosa non lo è, poi per volerlo.

Nella seconda metà del secolo scorso aveva senso pensare che il mainstream televisivo fosse così centrale da soverchiare il ruolo degli altri media, e dunque meritasse attenzione particolare. Oggi è evidente che le proporzioni sono cambiate. Internet, la rete, è avviata al predominio; tuttavia, nella transizione mi pare che non abbiano trovato molta soddisfazione sia la questione del focolare, del luogo di aggregazione, sia quella della funzione che deve essere soddisfatta nei momenti che richiedono dialogo inter-culturale, inter-generazionale, tra i generi, tra la città e le campagne, tra i diversi livelli di istruzione, eccetera.

Perché tutti i dati confermano che nei momenti in cui questo ruolo aggregativo è necessario, in numerose e diversificate condizioni – che comprendono tanti eventi spontanei e quelli prodotti, come ad esempio lo sport, e le emergenze di varia natura; e andrebbe anche esaminata la questione dei bacini di utenza – i consumi tornano a orientarsi verso la televisione, della quale vengono scelti pochi canali riconoscibili. E in molti casi Internet non appare per ora in grado di soddisfare il bisogno. La questione sta cambiando per i prodotti premium, ma non lo è per molte tipologie di eventi che hanno rilevanza sociale.

Mantenere il dialogo tra i corpi sociali

Seguendo lo stesso ragionamento, viene logico pensare che la criticità della rete nel soddisfare questo tipo di funzioni abbia qualcosa a che vedere con le attuali difficoltà, evidenti a livello globale, nel mantenere il dialogo tra i corpi sociali. Quello che sta avvenendo negli Stati Uniti ne costituisce un esempio: la incomunicabilità tra un lettore del New York Times e un allevatore del Midwest, esaltata dalle differenze strutturali tra città e campagna, si realizza nelle bolle di incomunicabilità che le due categorie realizzano su Facebook o su Twitter.

Basta consultare come esempio, per avere conferma, una mappa della distribuzione del voto nelle recenti elezioni suppletive nella Georgia: i due candidati democratici hanno vinto di misura grazie alle grandi città, che appaiono assediate dalla marea rossa del voto repubblicano. Il fenomeno assume ormai grande rilevanza anche in Italia, come lo è stato per assicurare la maggioranza alla Brexit in Gran Bretagna.

Come ho detto, sono convinto che la questione del giusto equilibrio tra i macrogeneri, al pari della qualità all’interno di ciascuno di essi, riguardi tutte le forme mediali. La sua regolamentazione, nel difficile perseguimento dell’equilibrio tra libertà individuali e bene sociale, è un problema dei poteri pubblici che richiede con evidenza un approccio sovranazionale. Non è colpa solo di Twitter o di Facebook se questa regolamentazione non viene implementata, e nel complesso credo che possiamo solo ringraziare queste piattaforme se in assenza di regole pubbliche cercano di darsele da sole, come è avvenuto dopo l’assalto a Capitol Hill, ricevendone critiche, rifiuti e perdite di valore. Ringraziarle, ma non certo rinunciare a pretendere che esse vengano regolamentate.

Non mi sembra molto utile, in questa situazione di crescita convulsa dei media e del loro ruolo sociale, insistere ancora su una presunta carenza di pluralismo, come alcuni amici sostengono. È vero, prolificano le aggregazioni comunicative che si chiudono nelle proprie convinzioni e rifiutano ogni forma di dialogo. È vero, persino nel servizio pubblico ci sono esempi chiari di partigianeria. Ma questa malattia sociale non si combatte cercando di contrapporre voci dissonanti, bensì praticando cultura, dibattito, inclusione e naturalmente combattendo le cause strutturali della frammentazione sociale, come il mancato accesso paritario alla educazione e alla giustizia economica.

Non è utile al pluralismo radicalizzare le opinioni in testate contrapposte

Non manca il pluralismo nella complessità dell’universo mediale, manca la retta volontà di essere socialmente utili. Quanto al servizio pubblico, credo che in questa fase storica l’obbiettivo di ricostruire la coesione sociale debba venire prima del pur necessario pluralismo, che comunque non deve essere affidato a strutture artificialmente contrapposte, come da decenni avviene solo in Italia. Il pluralismo, e ancora più la volontà di dialogo, si esercitano nella correttezza del proprio ruolo professionale, non nella contrapposizione eterodiretta di strutture con orientamento divergente.

Ho l’impressione che il richiamo insistente al pluralismo, che si manifesta spesso in contrasto al bisogno di intervenire contro la proliferazione delle testate RAI, nasconda solo la volontà di difendere lo status quo. Se è vero, come sostengo, che informazione, educazione e intrattenimento sono presenti in ogni forma di comunicazione, e che il loro equilibrio e la loro qualità hanno effetti sociali (una buona comunicazione non è solo indice, è condizione di una buona politica e di una società ordinata) ci si può chiedere se sia ancora utile preoccuparsi di luoghi specifici nei quali intervenire prioritariamente.

In effetti, le giovani generazioni, che hanno avuto scarsa esperienza dei media di flusso, faticano a cogliere l’utilità di quello che i più anziani conoscono come “servizio pubblico radiotelevisivo”, ovvero la RAI finanziata dal canone. Avrebbero pienamente ragione se il servizio pubblico restasse solamente “radiotelevisivo”.

La grande scommessa è di allargarlo a tutte le forme di comunicazione professionale. Già le norme vigenti prevedono la dimensione “multimediale”, per usare un termine ormai superato, della RAI. La insufficiente implementazione di questa dimensione è tra le maggiori responsabilità di viale Mazzini. Di questo c’è consapevolezza nelle dichiarazioni di vertice, ma la trasformazione è di fatto rallentata dalle tante sclerotiche strutture aziendali. Cosa significa fare servizio pubblico nel sistema integrato della comunicazione? Può significare tante cose.

  • Aiutare i poteri a ridefinire le regole, adeguandole alle nuove condizioni tecnologiche.
  • Assistere la lenta decadenza dei canali di flusso aiutando la rete a sostituirsi ad essi nelle loro funzioni socialmente essenziali.
  • Pretendere l’equilibrio dei generi, che costituisce garanzia di equilibrio in ogni singolo atto comunicativo.
  • Ovviamente e soprattutto, fare da bussola, da orientamento sia per la qualità dei contenuti, sia perché le istituzioni e i cittadini continuino a dialogare.
  • Significa infine mettere mano agli algoritmi che governano l’informazione per evitarne il degrado, difendere la privacy dei cittadini e profilarli solo a loro vantaggio, praticare il fact checking, combattere i falsi, garantire il servizio universale anche sulla rete.

L’elenco potrebbe continuare.

Una Fondazione per rifondare la missione della Rai e funzioni di filtro fra la Rai e la politica politicante

Invece di pensare a questo, lo scarso dibattito pubblico sulla RAI si appassiona solo alle nomine di direttori di testate che dovrebbero essere cancellate, perché responsabili di una narrazione politica falsa e eterodiretta che incrementa la distanza tra i cittadini e la politica. Si può sperare che nella fase convulsa della vita politica, sotto shock per la pandemia, possa tornare di attualità un intervento sui criteri di governance della RAI, incaricando un organismo terzo di gestire la ridefinizione della missione aziendale in questa fase di transizione. Qualche segno positivo in questa direzione ci sarebbe, alcune proposte di legge depositate vanno in questa direzione.

Perché questo abbia un senso, occorre che i responsabili di questo organismo terzo siano gli amministratori di una Fondazione con funzioni di filtro tra l’azienda e la politica politicante. Servono criteri molto stringenti: estrema competenza, storia personale integra, tempi di lavoro sufficienti a incidere, meccanismo di nomina che ostacoli i pacchetti lottizzati, non coinvolgimento nella produzione attiva in azienda.

Su questa linea è impegnato anche il gruppo “Manifesto nuova RAI” https://www.manifestonuovarai.it/ È legittimo sperare, in questa epoca in cui la politica per la prima volta da decenni si trova con risorse finanziarie da spendere (di cui quasi 60 miliardi di euro destinati ai sistemi di comunicazione digitali, secondo i calcoli di Key4biz.it), è legittimo sperare che non venga dimenticata una riforma essenziale e praticamente senza costi, destinata a far funzionare meglio quegli stessi sistemi?