L'analisi

Democrazia Futura. Il Piave a banda larga

di Michele Mezza, docente di culture digitali all’Università Federico II di Napoli |

Come creare un’autentica domanda e offerta di connessione veloce rimasta sinora del tutto assente.

Michele Mezza
Michele Mezza

Michele Mezza in un pezzo intitolato “Il Piave a banda larga” cerca di rispondere ad uno dei principali interrogativi in materia, ovvero  “Come creare un’autentica domanda e offerta di connessione veloce rimasta sinora del tutto assente” in Italia. Partendo da un convegno di Fratelli d’Italia nell’aprile 2021, Mezza descrive “il risveglio digitale della destra” seguendo un filo che congiunge “la difesa dell’autonomia nazionale, con un ruolo dello Stato come sentinella e tutore della capacità autonoma del paese di organizzarsi sul nuovo fronte della connessione veloce”. Fallite “le politiche dei “capitani coraggiosi” promosse del centrosinistra, Mezza si chiede come uscire oggi dallo scontro fra “i due partiti della fibra – TIM e Open Fiber – continuano ad agitarsi cercando di guadagnare posizioni e procedere nel proprio risiko delle città” mentre il dispiegamento “del 5G “la banda larga del mobile sta procedendo speditamente nelle diverse aree urbane. Logica vorrebbe che i due Piani trovassero una sede per coordinarsi e riuscire a creare una sinergia virtuosa … Per dare un’anima ai piani di cablaggio serve un piano regolatore della connettività e delle intelligenze che nelle grandi aree urbane dia forma a linguaggi e anche modelli di business integrati con la missione di servizio pubblico. Senza un impresario che attivi e orienti la direzione della rete con un driver di servizio che selezioni le prime killer application, continueremo a contenderci la possibilità di disporre di scheletri di fibra senza vita”. Seguendo invece l’esempio dell’Autostrada del Sole, va assegnata una mission alla banda larga per “dare forma ad una geografia della domanda e dell’offerta di connessione veloce che al momento non è presente al tavolo”.

Il risveglio digitale della destra in Italia e il nodo dell’autonomia nazionale sullo scenario tecnologico

Da qualche tempo il nodo del cablaggio del paese, tradizionalmente parte di una discussione tutta interna al mondo della sinistra, con una dialettica fra retaggi statalisti e pulsioni privatizzanti, è saldamente presidiato dai leader della destra.

Nella prima decade di aprile Fratelli d’Italia hanno organizzato una robusta kermesse alla Camera con tanto di ministri più innovativi, come Vittorio Colao e Roberto Cingolani, sul tema della banda larga. Il Titolare del Mise, il leghista illuminato Giancarlo Giorgetti non perde occasione per intervenire sull’argomento. Il filo che congiunge questo risveglio digitale della destra è la difesa dell’autonomia nazionale, con un ruolo dello Stato come sentinella e tutore della capacità autonoma del paese di organizzarsi sul nuovo fronte della connessione veloce.

Come sempre in politica il vuoto non esiste e, all’assenza che si registra ormai da anni delle diverse anime della sinistra, non poteva non corrispondere una ripresa di intervento della destra.

Il nodo dell’autonomia nazionale sull’intero scenario tecnologico è parte integrante della cultura sovranista. Donald Trump ne fece una bandiera nella sua guerra iniziale contro la Silicon Valley, accusata di globalismo anti americano. Soprattutto veniva sollecitata quella crescente forma di rancore che ormai contrappone la città virtuale delle élites tecnologiche, che accanto ai grandi tycoons  delle piattaforme monopoliste vede raccogliersi ceti urbani digitali di tutto il mondo, i cosiddetti calcolanti, ai calcolati delle plebi suburbane delle periferie professionali e produttive del pianeta.

In questo gioco di illusionismi la destra ha trovato modo di connettere, è il caso di dire, un blocco sociale basato proprio sui secondi e i penultimi, che si contrappongono ad un’alleanza fra i primi e gli ultimi.Il mercato digitale è il ring in cui si gioca la partita.

Il fallimento delle politiche dei “capitani coraggiosi” promosse dal centrosinistra

Il nuovo balletto in scena fra TIM e Open Fiber nella costruzione delle dorsali a banda larga e l’incognita delle sinergie con le reti a 5G

 In Italia da almeno 25 anni vediamo una sinistra che – pur civettando con i temi dello sviluppo culturale e produttivo delle tecnologie digitali – ha lasciato completamente sguarnito il fronte delle tutele sia territoriali che sociali rispetto alle tendenze monopolistiche (monopsonio) dei grandi gruppi americani. Per rievocare il fallimento delle politiche dei governi di centro sinistra sulla questione cablaggio non è necessario tornare alle avventurose privatizzazioni della Stet prima e TIM poi, sempre ad opera di “capitani coraggiosi”, come li definì nel 1998 l’allora premier Massimo D’Alema, che più che coraggiosi erano sicuramente  squattrinati  visto che non hanno mai impegnato un euro delle proprie fortune.

Basterebbe richiamare quel paradossale balletto che va in scena da qualche anno fra una TIM, incumbent del settore che pretende di diventare anche padre e padrone della rete veloce, e Open Fiber, la formazione pubblica allestita attorno ad Enel, guidata con piglio corsaro dal presidente Franco Bassanini, che si contendono il primato nella costruzione delle dorsali a banda larga. In entrambe le formazioni campeggia una consistente presenza della Cassa depositi e Prestiti a testimonianza dell’impaccio e del disorientamento della strategia governativa.

Attorno a questo disorientamento, che certo non è passato inosservato sul mercato internazionale, ballano i gruppi della speculazione finanziaria globale, innanzitutto gli onnipresenti francesi e i fondi equity statunitensi che, contando sull’esposizione debitoria di TIM, si candidano ad essere il regista della baruffa italiana. Un quadro confuso e maldestro in cui si sprecano risorse e progetti. Nemmeno nella congiuntura della pandemia, con il Recovery Fund europeo alle porte che reclama piani industriali infrastrutturali, si riesce ad enucleare una proposta risolutiva per dare stabilità e operatività al cablaggio del paese.

Nel frattempo i due partiti della fibra – TIM e Open Fiber – continuano ad agitarsi cercando di guadagnare posizioni e procedere nel proprio risiko delle città. Ognuno procede a tentoni guadagnandosi qualche concessione a macchia di leopardo. Contemporaneamente si sta dispiegando anche la strategia del 5G, la banda larga del mobile, che sta procedendo speditamente nelle diverse aree urbane. Logica vorrebbe che i due Piani trovassero una sede per coordinarsi e riuscire a creare una sinergia virtuosa.

L’obbiettivo, proprio in tempo di emergenza sanitaria, sarebbe quella di assicurare rapidamente l’interconnessione in almeno una delle due modalità, dei nodi sensibili per le strategie immunitarie. Pensiamo agli ospedali, che potrebbero essere sedi di reti veloci sia per la telemedicina che per la raccolta e smistamento dei dati sulla pandemia; così come il network dei medici di base o delle farmacie. O ancora, pensando alle difficoltà di rimessa in movimento del traffico turistico, ai grandi centri artistici e culturali, come i musei o i sistemi archeologici, che potrebbero andarsi a cercare utenti e clienti sulla rete.

Siamo un paese che affida alla narrazione, prevalentemente audiovisiva, la sua produzione di PIL, dunque ha bisogno estremo di capacità di trasporto del segnale. Affidare tutta la partita solo a combinazioni finanziarie o duelli proprietari, come lo scontro fra TIM e Open Fiber prelude, significa solo ridimensionare le ambizioni di un piano che, esattamente come fu l’Autostrada del Sole a cavallo fra anni Cinquanta e Sessanta, potrebbe accelerare la ripresa e la compattezza socio economica della nostra Penisola.

Il rischio in questa baraonda è sia quello di sprecare l’opportunità dei fondi europei, sia quello di offrire alle autorità antitrust continentali il destro per interventi amministrativi che sanzionino pasticcio e furberie societarie.

L’esempio dell’Autostrada del Sole: assegnare una mission alla banda larga

Per un piano regolatore della connettività e delle intelligenze, inteso come esercizio di democrazia digitale

La soluzione è quella di ripartire dalla funzione sociale dell’infrastruttura: banda larga per chi e per che cosa? prima di discutere di chi e con chi?

Il vero buco nero è infatti la mancanza di un senso di una mission, di un legame fra l’infrastruttura digitale e le sue modalità e motivazioni di utenza. La rete cablata, come tutte le reti, reali e virtuali, risponde sempre alla forma e allo standard del contenuto. L’infrastruttura è pura cristallizzazione del linguaggio che vi scorre dentro. Per questo rimane ancora del tutto evanescente il progetto industriale: non abbiamo perso tempo nel chiederci quale sia un modello italiano di connessione veloce. E’ lo stesso problema che affligge ogni modello a network, che deve congiungere e trasmettere contenuti: Rai, ENEL, reti idriche, sistemi territoriali. Sono tutti apparati reticolari in cerca di un senso, di una missione. Nel nostro caso, la banda larga, diventa incomprensibile come siano stati del tutto esclusi i grandi centri territoriali: città, comprensori, distretti.

Il territorio è la vera piattaforma che ospita e organizza i sistemi di connessione. Per dare un’anima ai piani di cablaggio serve un piano regolatore della connettività e delle intelligenze che nelle grandi aree urbane dia forma a linguaggi e anche modelli di business integrati con la missione di servizio pubblico. Senza un impresario che attivi e orienti la direzione della rete con un driver di servizio che selezioni le prime killer application, continueremo a contenderci la possibilità di disporre di scheletri di fibra senza vita.

In questo un ruolo, insieme ai service provider e alle amministrazioni locali, potrebbero giocare aziende e strutture di linguaggio come la Rai, il comparto culturale e artistico del paese, la scuola. Sono grandi agenzie che insieme alle grandi utenze professionali e imprenditoriali potrebbero dare forma ad una geografia della domanda e dell’offerta di connessione veloce che al momento non è presente al tavolo. In questo contesto la difesa di una reale autonomia nazionale diventerebbe un’esercitazione di nuova democrazia digitale e non di pura esibizione di un sovranismo d’accatto.