Grande schermo

Democrazia Futura. Il cinema è un’invenzione che ha ancora un futuro?

di Claudio Sestieri, regista cinematografico e televisivo, autore di libri-inchiesta e romanzi |

Come recuperare un rapporto tra spettatore e sala. Molti segnali provenienti soprattutto dall’estremo Oriente, da altri Paesi europei e dagli Stati Uniti d’America sembrano indicare che altrove il legame con la sala non è poi così irrecuperabile come si potrebbe pensare vivendo in Italia.

Prosegue dopo l’analisi di Barlozzetti il confronto promosso da Democrazia futura sulle conseguenze della pandemia sulla crisi dell’industria dell’immaginario un autore cinematografico e televisivo come Claudio Sestieri si chiede come sia possibile “recuperare un rapporto fra spettatore e sala”. Parafrasando la celebre frase dei fratelli Lumière ripresa da Jean-Luc Godard nel 1963 “Il cinema è un’invenzione senza futuro”, Sestieri si chiede al contrario se “il cinema è un’invenzione che ha ancora un futuro?”. Dopo aver qualificato il Covid-19 e l’azzeramento dello spettacolo in presenza “una reincarnazione maligna di Proteo”, Sestieri contesta l’idea sia destinato ad essere “necessariamente sigillato in una cassa”: “al di là della eccessiva retorica sul rito collettivo della sala (in realtà anche in un cinema pieno un cinefilo è solo di fronte ai fantasmi che insegue il suo sguardo), non è escluso che, superata la fase della pandemia, possa di nuovo riaccendersi il desiderio della più classica, storica, specifica forma di visione del cinema […] quella che implica il rapporto tra buio e luce, tra spazio e individuo, tra percezione e il flusso continuo, mai interrotto del percepibile”.

Claudio Sestieri

C’era una volta il cinema?

Il cinema è un’invenzione senza futuro”, diceva già Louis Lumiere al momento della sua invenzione.

Molti anni dopo, nel 1963, Jean-Luc Godard riprendeva la sua frase e la posizionava alla base dello schermo su cui il produttore Jerry Prokosch (Jack Palance) e il regista Fritz Lang vedevano il girato del loro film in lavorazione sull’Odissea.

Nel suo Il disprezzo (Le mepris), infatti, Godard trasformava il romanzo di Alberto Moravia in una parabola tragica sulla morte del cinema, o almeno del grande cinema d’autore, di cui Fritz Lang era qui l’eroe sconfitto.

Del resto, subito dopo i titoli e una straordinaria scena di intimità tra Michel Piccoli e Brigitte Bardot, il film apriva sullo stesso Prokosch che usciva dal Teatro 6 di una desolata Cinecittà, già assediata dalle palazzine, tuonando con impeto shakespeariano: “Qui un tempo c’erano dei Re, e principesse e amanti… tutte le grandi emozioni umane. Ieri hanno venduto tutto, ne faranno dei supermercati. E’ la fine del Regno, è la morte del cinema.” (1)

E questo in piena Hollywood sul Tevere, quando Cinecittà era ancora in assoluto fermento. Quasi una profezia. Sembra quasi che il cinema, pur nello strabordante vitalismo dei suoi periodi d’oro, debba avere da sempre un qualche rapporto con la morte.

Fu Jean Cocteau, che aveva fatto del mito orfico di morte e rinascita una ragione della sua arte, a notarlo per primo, e a scrivere che “Il cinema è la morte al lavoro sugli attori 24 fotogrammi al secondo, una macchina infernale capace di generare fantasmi e di infondervi vita e anima, di giocare pericolosamente tra il visibile della nostra vita quotidiana e l’invisibile di un al di là inconoscibile”. (2)

Cinema: luce e ombra

Il cinema sarebbe dunque un processo di vampirizzazione della vita, un dispositivo capace di catturarla e di fissarla sulla pellicola, (e ancor più, oggi, sull’eterno digitale), condannando i corpi e i volti degli attori a vivere per sempre e per sempre uguali a quelli del momento in cui la loro immagine fu catturata, mentre i loro corpi e volti reali sono nel frattempo destinati a invecchiare e morire.

Anche un grande teorico del cinema come André Bazin, padre fondatore settant’anni fa dei celebri Cahiers du Cinéma, ricordava a sua volta che “Io non posso ripetere nemmeno un solo istante della mia vita, mentre uno qualsiasi di quegli istanti il cinema può ripeterlo instancabilmente di fronte a me.” (3)

Sarà magari anche per questa sua familiarità con la zona d’ombra dell’esistenza, perennemente in bilico tra pulsioni di vita e di morte, che il cinema, nel corso della sua avventura ormai ultra centenaria, è stato dato per spacciato anche da tanti che magari non erano forse nemmeno coscienti di questa sua natura saturnina.    

Dopo Godard (che peraltro il cinema ha continuato per tutta la sua lunga vita a celebrarlo) fu un altro mito dello schermo, Roberto Rossellini, improvvisamente rapito dai suoi biopic didascalici per la televisione sui grandi della storia, a evocarne la fine in più di un’intervista.

E, quando anni dopo la geometrica potenza della televisione commerciale giunse al suo apice trasmettendo, sia pure imbottiti di spot, decine di film al giorno, e provocando un serio contraccolpo nelle presenze in sala, fu la volta di Giuseppe Tornatore con Nuovo cinema paradiso (1988) e di Ettore Scola con Splendor (1989), a piangere a loro volta sulla fine di un’epoca, e a cantarne l’addio.

Il rapporto mai interrotto fra spettatore e sala cinematografica

Eppure, a dispetto delle tante numerose e diverse profezie apocalittiche, il rapporto tra spettatore e sala cinematografica non fu mai interrotto. Certo, il cinema divenne progressivamente sempre meno centrale nelle società avanzate, e in particolare il consumo di cinema d’autore, persino in Francia, la patria della politique des auteurs nata sulle pagine dei Cahiers du Cinéma, si ridusse molto, e tante, troppe mono-sale finirono tristemente per chiudere.

Ma nemmeno l’eclisse della pellicola, il trionfo del digitale, la diffusione crescente delle piattaforme e il boom delle nuove serie televisive  finirono per sradicare fino in fondo l’antico sedimentato rapporto tra spettatore e sala. Anche grazie, paradossalmente, al sempre più straordinario successo di un genere mainstream per tutta la famiglia, l’animazione.

I film della Walt Disney e della Pixar, infatti, hanno permesso in questi ultimi anni di non interrompere la frequentazione in sala anche per i piccoli nativi digitali che hanno avuto, come per le generazioni precedenti, l’occasione di sperimentare in tenera età l’imprinting con il cinema al cinema.

E hanno così garantito il rinnovamento degli spettatori e la continuità del bisogno stesso di “andare al cinema”. Tanto è vero che nell’ultima parte del 2019 e nei primi due mesi del 2020 persino i botteghini italiani (tra i più deboli ultimamente in Europa) avevano segnato una chiara inversione positiva di tendenza.

Una reincarnazione maligna di Proteo: il Covid 19 e l’azzeramento dello spettacolo in presenza

Ma poi, fu il Covid. Il virus ineffabile e imperscrutabile, quasi una reincarnazione maligna di Proteo, capace di azzerare di colpo il consumo di cultura e di spettacolo in presenza. Apriti cielo.

Quale occasione migliore per gli apocalittici e per gli amanti a prescindere del cambiamento, anche quando è ormai del tutto evidente che non necessariamente cambiare significa migliorare, per decretare la fine indiscutibile e definitiva della sala cinematografica?

Tuttavia forse prendere atto di una fase tragica (e si spera transitoria) come quella attuale, e saper riconoscere che in ogni caso il cinema al cinema non sarà mai più centrale nelle nostre società come lo fu fino agli anni Settanta del Novecento, non significa necessariamente sigillarlo in una cassa.

Il cinema”, scrive un suo studioso come Daniele Dottorini, “è ormai uscito dal luogo di culto a cui è appartenuto per circa un secolo, la sala cinematografica tempio della liturgia cinefila, per diffondersi in ogni spazio della vita e dell’esperienza quotidiana, entrando a far parte di un immaginario diffuso, disseminato, forse disperso.” (4)

Segnali dall’estremo Oriente

Vero. Come contestarlo? Eppure, molti segnali provenienti soprattutto dall’Estremo Oriente, da altri paesi europei e dagli Stati Uniti d’Americasembrano indicare che altrove il legame con la sala non è poi così slabbrato e irrecuperabile come si potrebbe pensare vivendo nel nostro paese.

Dunque, al di là della eccessiva retorica sul rito collettivo della sala (in realtà anche in un cinema pieno un cinefilo è solo di fronte ai fantasmi che insegue il suo sguardo), non è escluso che, superata la fase della pandemia, possa di nuovo riaccendersi il desiderio della più classica, storica, specifica forma di visione del cinema… quella che implica il rapporto tra buio e luce, tra spazio e individuo, tra percezione e il flusso continuo, mai interrotto del percepibile.

Così, magari, qualcuno potrebbe concludere che i fratelli Auguste e Louis Lumière, da ottimi tecnici, non erano stati in grado di comprendere fino in fondo il potenziale della loro invenzione/rivoluzione e che, chissà, non è detto che il cinema, alla fine, non possa rivelarsi “Un’invenzione che ha ancora un futuro”.

Note al testo

(1) Seconda scena de Le Mépris (Il Disprezzo) di Jean-Luc Godard, girata a Cinecittà.

(2)La citazione riferita al film  Orphée (1949) di Jacques Cocteau è tratta da Edoardo Bruno Film. Antologia del pensiero critico, Roma, Bulzoni, 1997.

(3) André Bazin, “Mort tous les après-midi”, Cahiers du Cinéma, I (7), dicembre 1951, pp. 63-64

(4) Daniele Dottorini, “The End (del cinema) – La mutazione del vampiro”, Studi Umbri. Rivista digitale indipendente di cultura. Visioni, vol. IV (1), 2012 https://www.studiumbri.it/visioni/the-end-del-cinema-la-mutazione-del-vampiro/