Il dibattito

Democrazia Futura. Della Democrazia in America 185 anni dopo l’analisi di Tocqueville

di Bruno Somalvico, storico dei media e funzionario presso la Direzione Relazioni Istituzionali della Rai |

Dall’attacco al cuore delle istituzioni al desiderio di voltare pagina tornando alla situazione quo ante di Biden.

Bruno Somalvico in un pezzo introduttivo ad un dibattito a più voci, “Della Democrazia in America 185 anni dopo l’analisi di Tocqueville”, ricorda come gli Stati Uniti abbiano “rappresentato il punto di riferimento per le nostre democrazie occidentali negli anni della Guerra fredda non solo e non tanto da un punto di vista politico quanto dal punto di vista dei valori e delle tendenze veicolati attraverso i media e per molti anni il grande cinema hollywoodiano, ha permeato il nostro immaginario collettivo sino a scalfire persino le culture politiche di una sinistra decisa, chi prima chi dopo, a rompere con l’Unione Sovietica e i suoi alleati”, prima di ripercorrere brevemente la storia delle amministrazioni americane negli ultimi tre decenni, da quelle di Bill Clinton e di George Bush jr. a quelle di Barack Obama e Donald Trump, soffermandosi infine sull’ultima campagna elettorale e sugli eventi più recenti dalla vittoria di Joe Biden il 3 novembre al suo insediamento alla Casa Bianca.

Bruno Somalvico

185 anni dopo l’uscita del celebre saggio in due volumi di Tocqueville De la Démocratie en Amérique, gli Stati Uniti d’America, già duramente provati dalla pandemia,  hanno conosciuto fra novembre e gennaio uno dei momenti più delicati della loro storia.

La potenza considerata a partire dalla Seconda guerra mondiale e comunque dal dopoguerra la forza leader del fronte occidentale e il punto di riferimento per le nostre democrazie negli anni della Guerra fredda non solo e non tanto da un punto di vista politico quanto dal punto di vista dei valori e delle tendenze veicolati attraverso i media e per molti anni il grande cinema hollywoodiano, ha permeato il nostro immaginario collettivo sino a scalfire persino le culture politiche di una sinistra decisa chi prima chi dopo a rompere con l’Unione Sovietica e i suoi alleati: Giuseppe Saragat e i socialdemocratici all’inizio della Guerra Fredda opponendosi al frontismo social-comunista, i socialisti di Pietro Nenni iniziando dopo Budapest un riavvicinamento alla sinistra occidentale che consentirà al PSI di avviare una svolta politica soprattutto negli anni del primo centro-sinistra coincidenti con la Presidenza di John Fitzgerald Kennedy, e infine i post comunisti di Walter Veltroni nel primo congresso dei Democratici di Sinistra tenutosi al Lingotto nel gennaio 2000 che con lo slogan I care, riprendeva la celebre parola d’ordine dei giovani americani più impegnati nel sociale, proponendo nel nuovo Pantheon della sinistra quella cultura ‘kennediana’ a cui il futuro fondatore del Partito Democratico dichiarava di aver sempre guardato con interesse.

Questa luna di miele della sinistra post comunista favorita dalla Presidenza di Bill Clinton a partire dal 1993 si andrà parzialmente spegnendo dopo la sconfitta per una manciata di voti del suo Vice Al Gore nel 2001 da parte di George Walker Bush figlio dell’ex presidente repubblicano George Herbert Walker Bush succeduto a Ronald Reagan nel 1989, e soprattutto dopo l’attacco islamista alle Torri Gemelle dell’11 settembre e il varo del Patriot Act che aprirà una nuova stagione di tensioni con gli Stati Uniti del neoconservatore George Bush junior e il Regno Unito di Tony Blair in occasione della controversa Guerra in Iraq che porterà alla fine del regime di Saddam Hussein.

I due mandati presidenziali di Barack Obama ricuciranno solo parzialmente questo idillio essendo le due sponde dell’Atlantico impegnate a far fronte alla più grave crisi economica mai conosciuta dopo il crollo di Wall Street nel 1929. I principali nodi che la Presidenza Obama dovette affrontare furono la sfida alla grande recessione dovuta alla crisi economica mondiale del 2008, la cattura di Osama Bin Laden, i rapporti con il medio oriente e altri ancora. Tra i principali meriti della prima presidenza Obama dal 2009 c’è la riforma del sistema sanitario, l’Obamacare.

Tra i successi del suo secondo mandato a partire dal 2013 si possono notare l’approvazione a livello nazionale del matrimonio omosessuale e la riapertura delle relazioni diplomatiche con Cuba grazie alla mediazione di Papa Francesco e la rimozione dell’embargo alla nazione caraibica. Obama ha visitato Cuba, per due giorni nel marzo. 2016, primo presidente statunitense dopo Calvin Coolidge nel 1928. Ha inoltre ratificato l’accordo di Parigi sul clima e l’accordo più controverso sul nucleare iraniano che molti osservatori giudicheranno negativamente come un segno di debolezza nella sua politica medio-orientale.

La successione della moglie di Clinton, l’influente ex senatrice dello Stato di New York Hillary Clinton sembrerebbe segnata leggendo i commenti di autorevoli politologi alla vigilia delle presidenziali del 2016, tanto più che il Partito Repubblicano appare dilaniato dalle divisioni interne e dalla persistente opposizione del suo establishment verso il candidato che ottiene l’investitura, il miliardario Donald Trump che inizierà una lunga campagna da lui definita patriottica, dagli avversari populista, contro il microcosmo politico della capitale degli Stati Uniti: una sorta di crociata contro tutto quanto può essere riassunto nell’espressione “politicamente corretto” e in particolare in materia di rispetto dei diritti civili e di tutela delle minoranze.

Ciononostante, sino alle elezioni del novembre 2020 in cui il presidente uscente brigava al suo secondo mandato, la Presidenza Trump, malgrado l’ulteriore polarizzazione dell’elettorato e le crescenti tensioni soprattutto interne a sfondo razziale a fronte degli indubbi successi ottenuti sul piano economico e di un contradditorio disimpegno in politica estera che non gli impediva di recuperare consensi tradizionalmente raccolti in Medio Oriente favorendo il riavvicinamento di molti paesi Arabi sunniti ad Israele per contrastare la presunta egemonia iraniana, la dialettica interna a quella che molti continuavano a definire la più grande democrazia mondiale non sembrava destinata ad incrinarne i principi fondamentali, i cardini ereditati da Thomas Jefferson, il terzo presidente degli Stati Uniti, succeduto a nel 1801 a John Adams e a George Washington, già autore della Dichiarazione di Indipendenza risalente al l 1776.

Oggetto di attacchi da parte non solo dei democratici e dello speaker della Camera Nancy Pelosi – che ne richiede l’impeachment una prima volta nel settembre 2019 – ma di larga parte dell’establishment statunitense, Trump resiste ai baroni al vertice del partito repubblicano e, forte dei risultati ottenuti, ottiene l’incoronazione per candidarsi al suo secondo mandato liberandosi facilmente dei suoi sfidanti.

“Squadra che vince non si cambia” pensano quei repubblicani rimasti spiazzati dal suo trionfo del 2016 che guardano ormai al 2024 quando, laddove riconfermato, Trump avrebbe dovuto cedere comunque la Casa Bianca non essendo contemplato un terzo mandato.

Altrettanto divisi al loro interno i democratici – fallito il primo tentativo di impeachment – temono una seconda sconfitta dopo quella di Hillary Clinton favorita anche dal persistere di forti divisioni interne e del successo che mantiene all’interno degli elettori la sinistra “socialista” di Bernie Sanders, convinti che una radicalizzazione dello scontro avrebbe favorito una riconferma dell’inquilino alla Casa Bianca.

Solo lo scoppio del Corona Virus e il rapido diffondersi della pandemia, a fronte di comportamenti del tutto strampalati che lo spingono pesino a fiancheggiare i negazionisti, da parte di Trump, e una vasta campagna promossa dalla stampa, in primis dal Washington Post divenuto nel 2013 di proprietà di Jeff Bezos il grande capo di Amazon, che sin dal febbraio 2017 denuncia nel proprio occhiello “Democracy dies in Darkness” scagliandosi contro un presidente giudicato irresponsabile e qualificato come una sorta di novello Dottor Stranamore, e soprattutto la pubblicazione il 24 maggio 2020 nella prima pagina del New York Times dei nomi di mille morti a causa di una pandemia che sta sfiorando i 100 mila decessi, costituendo quella che il prestigioso quotidiano della Grande Mela definisce “un’incalcolabile perdita”, sembrano incoraggiare chi continua a sperare che il destino di Trump sia segnato e che gli Stati Uniti possano voltare pagina.

La scelta sapiente il 12 agosto 2020 del moderato Joe Biden di avvalersi nel caso di vittoria come vice presidente della sua sfidante radicale Kamala Harris ex procuratrice generale della California di origine giamaicana, sembra spianare la strada ad una vittoria democratica  – tutti i sondaggi chi più chi meno lo confermano – di dimensioni rassicuranti contro Trump. E invece per larga parte della lunga notte elettorale americana ancora una volta dopo il 2001 e il 2016 i risultati di alcuni Stati decisivi rimangono in bilico, smentendo clamorosamente i sondaggi.

Biden vincerà di misura come Bush Jr. contro Al Gore e lo stesso Trump – pur raccogliendo un numero minore di voti ma conquistando un numero maggiore di grandi elettori – contro Hillary Clinton. A differenza dei suoi predecessori, Donald Trump non riconosce la vittoria dell’avversario. Al contrario l’inquilino della Casa Bianca si dichiara certo di essere confermato, denunciando brogli elettorali soprattutto con il voto per corrispondenza fortemente cresciuto a causa della pandemia e annunciando ricorsi. Ciononostante, nonostante la proclamazione dei risultati ufficiali negli Stati contesi che confermano la sua sconfitta, malgrado la polarizzazione del voto e i propositi incendiari dei suoi sostenitori, per alcune settimane lo spettro della guerra civile rimane strisciante, i commentatori tendono a vedere dietro al voto, e nonostante la pandemia, la più grande mobilitazione dell’elettorato statunitense: Joe Biden dopo aver ottenuto il 3 novembre oltre 81 milioni di suffragi conquistando 306 grandi elettori a fronte degli oltre 74 milioni ottenuti da Trump (con questa volta solo 232 grandi elettori a fronte dei 304 grandi elettori conquistati quattro anni prima contro Hillary, quando aveva raccolto poco meno di 63 milioni di suffragi, ovvero quasi 12 milioni in meno…), il 14 dicembre veniva regolarmente confermato dal Collegio dei grandi lettori “presidente eletto degli Stati Uniti”. E Trump anche dopo questa secondo decisivo responso, non riconosceva la sconfitta.

Il resto è cronaca di queste settimane: l’assalto il 6 gennaio al Campidoglio di alcuni suprematisti bianchi da parte dei sostenitori del presidente uscente per contestare il risultato delle elezioni presidenziali e sostenere la richiesta di Trump al vice-presidente Mike Pence e al Congresso di rifiutare la ratifica del risultato, ossia della vittoria di Joe Biden nella corsa alla Casa Bianca, il giorno in cui i democratici non solo confermavano la maggioranza alla Camera dei Rappresentanti ma conquistavano i due decisivi collegi della Florida che consentono loro grazie al voto che vale doppio della loro presidente Kamala Harris di disporre di una maggioranza anche al Senato.  

I prossimi mesi ci dovrebbero chiarire se la marcia indietro di Biden il rottamatore verso i capisaldi che avevano contraddistinto la Presidenza di Barak Obama si sarà rivelata adatta per normalizzare la situazione sul fronte dell’ordine interno e rilanciare la stella degli Stati Uniti nel nostro mondo globale o se proseguirà la guerra civile strisciante con l’eventuale scardinamento del tradizionale bipartitismo statunitense e la nascita alla destra del partito repubblicano di un partito sedicente patriottico trumpiano intenzionato a scardinare la democrazia politicamente corretta obamiana di cui Biden sembrerebbe volersi proclamare l’erede.

Capiremo anche la natura dell’offensiva diplomatica scatenata dalla nuova amministrazione americana sul fronte dei diritti dell’uomo che sembrerebbe acuire nuovamente le tensioni in primis con Cina e Russia, non senza produrre impatti indolori in Europa in primis sull’approvvigionamento energetico della Germania, in un quadro di interdipendenza economica prodotto dalla globalizzazione che dovrebbe peraltro – come acutamente osservato in questo numero da Raffaele Barberio dovrebbe escludere un ritorno alla vecchia contrapposizione ideologica ai tempi della guerra fredda.