Le regole

Democrazia Futura. Level Playing Field e responsabilità editoriale

di Erik Lambert, consulente, direttore di The Silver Lining Project - Giacomo Mazzone, giornalista membro dell’Advisory Board dell’European Digital Media Observatory-EDMO |

Non più rinviabili regole equivalenti fra piattaforme e media tradizionali. Due le strade: combattere lo strapotere delle piattaforme Big Tech e affermare la responsabilità editoriale delle piattaforme, partendo dal principio che non sia più rinviabile un approccio normativo che preveda un Level Playing Field.

Due esperti qualificati, Erik Lambert, coautore di Rapporti per la stessa Commissione e per il Parlamento europeo e Giacomo Mazzone, membro dell’European Digital Media Observatory (EDMO), incaricato di monitorare le fake news on-line in Europa, si soffermano sul secondo grande nodo da sciogliere, insieme al tema della tassazione per combattere lo strapotere delle piattaforme Big Tech: quello della responsabilità editoriale delle piattaforme, partendo dal principio che non sia più rinviabile un approccio normativo che preveda un Level Playing Field ovvero regole equivalenti fra queste piattaforme extraeuropee a vocazione globale e i media tradizionali soggetti alla Direttiva Servizi Media Audiovisivi.

I due grandi nodi da risolvere: tassazione e responsabilità editoriale (1)

Negli ultimi anni abbiamo assistito a enormi cambiamenti nel modo in cui spettatori, lettori e cittadini vengono informati, formati e intrattenuti. Questi cambiamenti sono spesso rappresentati meccanicamente come una lotta tra “vecchi media” e “nuovi media”: cioè nuove piattaforme, nuove forme di comunicazione, nuove reti. Ma ciò non dovrebbe impedirci di considerare attentamente come questi nuovi media, queste nuove piattaforme, contribuiscono a questo servizio al pubblico. E anche come i “vecchi media” (in particolare i servizi pubblici e il giornalismo di qualità) possono a loro volta evolversi per soddisfare le nuove aspettative dei loro spettatori, lettori e utenti.

Nell’Unione europea i nostri sistemi giuridici sono favorevoli a condizioni di parità per tutti gli attori che competano nello stesso settore. E questo non deve sorprendere nessuno, visto che questo principio è alla base del concetto di mercato unico. Tuttavia, proprio in questo settore, esistono differenze importanti.

Due aspetti, tra molti altri, manifestano in modo molto diretto questa discriminazione nel trattamento tra “nuovi” e “vecchi” media. Il primo è poco controverso: riguarda la tassazione. Le nuove piattaforme Internet beneficiano dei vantaggi delle tecnologie informatiche (scalabilità a costo zero) e degli effetti di rete (la doppia esternalità). La loro comparsa durante l’era della globalizzazione finanziaria forzata ha consentito loro di quasi non pagare tasse, mentre competono per le risorse pubblicitarie e di vendita con i media tradizionali, con effetti distruttivi su questi ultimi. Fortunatamente, questo problema sembra essere sempre più preso più in considerazione; speriamo che il lavoro dell’OCSE e della Commissione Europea in materia si concluda rapidamente. Meglio tardi che mai! Il secondo aspetto – giunto all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale con la chiusura degli account Twitter, Facebook e Instagram di Donald Trump – è quello della responsabilità editoriale di queste nuove piattaforme. Senza entrare nell’attualità ancora calda del caso Trump (che è oggetto di apposito altro articolo in questa rivista da parte di Arturo di Corinto (2), questa domanda merita di essere illustrata da un caso estremo, che ben evidenzia i termini del problema.

Il principio di responsabilità inerente la proprietà e il controllo istituzionale dei media

Diciassette anni fa il Tribunale penale internazionale per il Ruanda scrisse: “Nell’apprezzare il ruolo dei mass media, la Camera deve interessarsi non solo al contenuto di particolari programmi e articoli, ma anche all’applicazione generale di questi principi nello sviluppo dei programmi mediatici, nonché alle responsabilità inerenti la proprietà e il controllo istituzionale dei media“.

In base a questo principio condannò il proprietario-editore di Radio Mille Collines per complicità nel massacro dei Tutsi del 1994 in Ruanda, oltre, separatamente, anche come autore di articoli e trasmissioni che aveva scritto e presentato. Sulla base di questo principio giurisdizionale del diritto internazionale, non solo Donald Trump potrebbe essere perseguito e possibilmente condannato come corresponsabile della morte dei 5 cittadini USA morti a Capitol Hill, ma anche i dirigenti di Twitter e altri social media, per avergli dato l’opportunità di aizzare le folle attraverso l’uso delle loro reti.

In Europa  è in vigore per i media il principio della responsabilità a cascata.

Il regime di responsabilità dei media tradizionali per ciò che chiamiamo “reati di stampa” è stato forgiato nel tempo; e la libertà di stampa e di espressione si fonda nei nostri paesi europei sul principio della responsabilità personale. La censura preventiva e i privilegi di stampa sono stati così sostituiti da un controllo a posteriori, accompagnato da questa responsabilità personale che esclude l’anonimato: non è permesso dire che non si sa chi sia il responsabile o che non si sappia come trovarlo.

Questo è il principio della responsabilità a cascata, che è addirittura iscritto, in modo conciso ed efficace, già nel 1831 nell’articolo 25, nella Costituzione del Belgio: Quando l’autore è conosciuto e domiciliato in Belgio, l’editore, la tipografia o il distributore non possono essere citati in giudizio“. Principi analoghi, anche se non citati in Costituzione, esistono in tutte le legislazioni dell’Europa occidentale.

Perché dunque non applicare un principio simile a queste grandi piattaforme che servono sempre più come fonte di informazioni per i nostri cittadini?

La solita risposta è che queste piattaforme sono di natura diversa dai media tradizionali, che non esiste una responsabilità editoriale centralizzata, che si tratta solo di mettere a disposizione degli utenti mezzi tecnici, che i social media sono  utilizzati principalmente per comunicazioni private.

Vere obiezioni ma che forse non dovrebbero pesare tanto di fronte all’invasione di “fake news”, incitamento all’odio, manipolazioni di coraggiosi ma anonimi “leoni da tastiera” o di botteghe più o meno oscure: effetti deleteri si verificano anche nei nostri paesi.

L’approccio cinese per social network e piattaforme

Paradossalmente finora solo la Cina è il paese che ha cercato di trovare una risposta adatta ai social network e alle piattaforme, che tenga conto delle loro specificità. Non si tratta di difendere la concezione del governo cinese di ciò che dovrebbe essere detto sui social media o di ciò che è proibito, ma piuttosto di guardare a come li si sia cercato di strutturare i regolamenti in modo tale da promuovere le nuove modalità comunicative rese possibile della tecnologia, ma limitando gli abusi come la disinformazione o gli appelli alla violenza. Nella serie di regolamenti sull’uso di Internet pubblicati nel 2017 si stabilisce per la prima volta un vero quadro funzionale. Il primo principio è quello del “nome reale in sottofondo, nome scelto in primo piano” che, pur rimuovendo l’anonimato, consente agli utenti di utilizzare un certo numero limitato di alias, per presentarsi con varie personae sulle diverse reti.

L’obbligo di registrare la propria identità insorge nel caso in cui l’utente intenda interagire con la società intera: la possibilità di usufruire di determinati servizi, come la partecipazione a gruppi, o inviare commenti, o inoltrare informazioni e messaggi a tutti gli utenti potenziali della rete. Se invece l’interazione è limitata alla comunicazione con parenti ed amici, l’obbligo non sussiste. In pratica, tutti gli utenti cinesi ora danno la loro vera identità.

Inoltre, gli utenti sono limitati nel numero di gruppi che possono seguire o creare, limiti che si applicano anche alle imprese commerciali.

Non appena un utente si trova ad avere un numero elevato di follower, deve dichiararsi editore, con obblighi aggiuntivi, fra cui l’obbligo di moderare i commenti se vengono trattati argomenti di attualità. E sempre quando si tratta di informazioni, è vietato interferire con l’ordine dei commenti … così come è vietato coordinare l’invio di commenti.

Fatto assolutamente inedito rispetto al panorama occidentale, è che gli operatori della piattaforma e della rete sono direttamente responsabili del mancato rispetto di queste regole.

È importante notare che queste regole, diverse da quelle della censura che esiste in Cina, non hanno impedito lo sviluppo di campagne di opinione come quella sulla protezione dei dati personali a seguito dell’utilizzo delle app di tracciamento come parte della lotta contro il Covid-19. I cittadini cinesi, quindi, hanno avuto la possibilità di coordinarsi per criticare le imprese, però non possono criticare né lo Stato, né il partito: questo resta il limite invalicabile.

Questo tipo di approccio potrebbe essere un modo per stabilire condizioni di parità che tenga conto delle differenze tra i media tradizionali e i nuovi media. Il fatto che vengano dalla Cina non dovrebbe impedirci di considerarli oggettivamente, in particolare per i paesi in cui la libertà di espressione non è in dubbio e dove già oggi è previsto che essa venga esercitata entro i limiti della legge.

La caccia ai Royingva nel Myanmar

L’assenza di regole di responsabilità per gli operatori delle piattaforme può portare a situazioni quanto meno paradossali. Ancora un esempio estremo.

Recentemente, fra la fine del 2016 e l’inizio del 2017, il mondo è stato testimone di una violenta operazione di pulizia etnica che ha colpito la minoranza Rohingya in Myanmar, un’operazione che potrebbe essere potenzialmente qualificata come un “crimine contro l’umanità” secondo l’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite.

Nel 2018, il rapporto dell‘International Independent Investigation Mission on Myanmar ha sottolineato il ruolo svolto dalle campagne orchestrate su Facebook nella creazione di un atteggiamento odioso e disumanizzante, nei confronti di questa minoranza musulmana, poco diversa dalla natura di quelle condotte contro i Tutsi in Ruanda.

La stessa Facebook ammette che “non stavamo facendo abbastanza per impedire che la nostra piattaforma venisse utilizzata per fomentare divisioni e incitare alla violenza ‘offline’”, come è scritto in un rapporto commissionato da Facebook e pubblicato nel 2018. E a riprova della sua buona fede, Facebook aggiunge di aver aggiornato le regole della comunità per introdurre la possibilità di “rimuovere le informazioni che possono potenzialmente contribuire alla violenza immediata o al danno fisico” (3).

Eppure due anni dopo, allorché il Tribunale penale internazionale avvia le indagini sui fatti accaduti in Myanmar, Facebook rifiuta di collaborare e di fornire messaggi e post, pubblicati da membri delle forze di polizia e dai militari che avevano contribuito al clima di odio. Tale rifiuto è stato sicuramente in parte dovuto al mancato riconoscimento del Tribunale Penale Internazionale da parte degli Stati Uniti d’America, che ha evidenziato come Facebook anteponga il rispetto della legge statunitense a quello delle leggi nazionali e del diritto internazionale mettendo in luce un ulteriore problema: quello della sovranazionalità (fuori dagli Stati Uniti) delle piattaforme.

Bisogna tuttavia riconoscere che durante le elezioni del novembre 2020 in Myanmar, Facebook ha fatto sforzi per applicare più rigorosamente i propri “standard comunitari” e limitare la circolazione degli appelli alla violenza.

Il “cyberspazio” – come sappiamo – è riluttante a qualsiasi regola che venga imposta dai governi del mondo industriale. Ma regole precise di responsabilità, che non escludono nessuno, sono forse preferibili alla censura privata che oggi è richiesta ai grandi siti sociali attraverso codici di condotta privati, “standard comunitari”, ovvero regole di censura preventiva di cui troppo spesso l’efficacia sembra essere limitata e per la quale è difficile lasciare la responsabilità – come dimostrano gli ultimi episodi di assalto al Campidoglio a Washington – nelle mani di un manipolo di società private, anche se pretendono di esser guidate da “despoti illuminati”…

Per meglio capire, una passeggiata con Candide e Pangloss prestati da Voltaire (4)

1° dialogo: l’arrivo di DSA e DMA europei segnerà la soluzione del problema?

Candide:

L’Unione Europea il 15 dicembre 2020 ha preparato la sua proposta per dare soluzione ad una parte del problema descritto nelle pagine precedenti. Lo ha fatto nel quadro delle due proposte di regolamento chiamate DSA (Digital Services Act) et DMA (Digital Markets Act), che sostituiranno la vecchia direttiva “Commercio Elettronico”. Questi nuovi provvedimenti, fra le tante misure, chiudono la scappatoia che ha consentito in tutti questi anni alle piattaforme internet statunitensi prima ed ora cinesi, di operare in Europa aggirando le normative sui media. La posizione delle piattaforme era che loro fornivano un servizio di telecomunicazione (mettendo in comunicazione fra loro due utenti o gruppi di utenti), ma che non fornivano i contenuti e quindi non potevano essere considerati responsabili, cosi come la compagnia del telefono C non può esser chiamata in causa se l’utente A insulta l’utente B usando la linea telefonica fornita da C.

Il concetto – nato per servizi di telecomunicazioni e di vendita per corrispondenza – è stato stiracchiato fino a coprire servizi molto più complessi, in cui la responsabilità editoriale delle piattaforme diventa sempre più evidente. Con DMA e DSA questa scappatoia verrà chiusa e chi riveste un ruolo editoriale dovrà rispettare le regole del gioco che si applicano ai media, indipendentemente dalla tecnologia usata. DMA e DSA dovrebbero anche contribuire a chiudere la porta all’elusione fiscale che oggi consente alle piattaforme di pagare le tasse nel paese più conveniente e che ha portato ai fenomeni di dumping fiscale fra paesi dell’Unione europea sopracitati.

Pangloss:

Le proposte della Commissione – in quanto DMA e DSA allo stato attuale sono solo proposte – sono certamente un passo avanti, ma non basteranno a risolvere il problema. In primo luogo perché, nel caso del DMA, regolamenta i servizi destinati ai professionisti (DMA), in secondo luogo perché sono incentrati sulla visione dell’utente come consumatore e non come cittadino Il discorso pubblico, mentre l’informazione, è per sua natura, molto di più di un oggetto di consumo.

Ad esempio, se è comprensibile che per le attività commerciali ordinarie,  e su richiesta del Parlamento, il progetto cerchi di mantenere “i principi fondamentali della direttiva sul commercio elettronico e di proteggere i diritti fondamentali nell’ambiente online, nonché l’anonimato online ovunque tecnicamente possibile”, questo non è così ovvio quando si parla di discorso pubblico. La proposta, come afferma la Commissione nel memorandum introduttivo, è solo una base potenziale per lo sviluppo di regole più precise da parte degli Stati membri.

Siamo molto lontani dal proporre regole che porterebbero vecchi e nuovi media in una reale equivalenza; il DSA riafferma il principio dell’assenza di un obbligo generale di monitoraggio dei contenuti e chiede solo una maggiore diligenza nella rimozione dei contenuti illegali e nel blocco della loro ridistribuzione. E il riferimento principale per la definizione di contenuto illegale rimangono i Termini e le Condizioni, gli Standard comunitari delle piattaforme stesse. In un certo senso, la direttiva sui servizi di media audiovisivi (AVMSD) approvata nel 2018, è andata molto oltre nell’identificare i confini fra “vecchio” e “nuovo”.

2° dialogo: dalla regolazione dei mediatori alla responsabilità individuale

Candide:

Il sistema europeo di regolazione dei media, elaborato nel corso di oltre duecento anni (ma che ha le sue radici già all’epoca dell’invenzione di Johannes Gutenberg), è tutto basato sulla regolazione dei mediatori. Regole per i giornalisti, per gli editori, per i distributori di giornali e di segnali tv e radiofonici, regole per i discorsi in pubblico, le affissioni, regole perfino per il sistema postale quando distribuisce media, eccetera. Il vantaggio di questo sistema è che anziché perseguire i lettori (milioni) o i telespettatori (decine di milioni) si possono perseguire i mediatori (qualche decina di migliaia in tutto, fra giornalisti, editori, distributori) quando sbagliano (=diffamando, incitando all’odio razziale, propalando notizie false o pubblicità occulta). Totalmente esclusi erano –nel mondo analogico- i mezzi di comunicazione cosiddetti servizi c-to-c (da consumatore a consumatore), come i telefoni o la posta, considerati come neutri e cioè non responsabili di eventuali reati commessi dalle persone che li usavano (chi faceva telefonate minatorie o inviava lettere di insulti).

E’ grazie a questa presunta neutralità che, nella direttiva commercio elettronico (5) i social media sono stati inclusi (si sono camuffati) da mezzi neutri, quando in realtà non lo sono affatto. Visto che sono loro ad amplificare i messaggi, a offrirli automaticamente a tutti quelli che (da profilo) potrebbero essere interessati, o addirittura (come il servizio Facebook newsfeed) a decidere quali news suggerire ai sottoscrittori.

Un lavoro che riassume in uno solo molti dei mestieri e funzioni precedenti: distributore, stampatore, spedizioniere, propagatore, promotore, venditore di pubblicità (behavioral advertising), venditore di dati e perfino autore attraverso la selezione di notizie e servizi in forma personalizzata.

Mestiere cui da ultimo si è aggiunto anche quello di censore.

Pangloss:

Concordo! Questa confusione tra la comunicazione privata, c-to-c come la chiami, e il discorso pubblico (che ormai abbraccia un territorio sconfinato che include il discorso del barbone ubriaco come gli articoli delle vere testate d’informazione), è forse la ragione principale del sentimento diffuso di assenza di responsabilità. I servizi che hai elencato e che sono forniti delle piattaforme, grazie alle tecnologie informatiche, hanno fatto sparire la difficoltà oggettiva di creare media di massa. Oggi, grazie ai social media, l’ubriacone può apostrofare decina, centinaia di migliaia di persone, senza fare più sforzi che per insultare un solo povero passante.

Nel caso dell’assalto al Campidoglio americano, la spinta finale è stata data da una tribuna ritrasmessa dal vivo da media tradizionali (che non si sono resi conto che stavano ritrasmettendo il segnale d’attacco in codice), ma non si deve dimenticare che è stato reso possibile della costruzione (sui social media e sui siti di condivisione d’immagine), di una realtà alternativa e rabbiosa. Ed oggi sono proprio gli stessi soggetti che hanno fatto crescere questa realtà (attraverso algoritmi costruiti e perfezionati per aumentare i loro ricavi), che cercano di silenziare queste voci che hanno fatto nascere! Sperano di fare buona figura, ma c’è una questione più profonda: quella di definire le responsabilità, in base a nuove regole che sono ancora da definire.

Purtroppo, delle regole generali come le proposte europee o la proposta nel Regno Unito di un ‘duty of care’ (un obbligo di diligenza o di cura), potrebbero non essere sufficienti per creare il consenso politico e sociale che è stato raggiunto in duecento anni per i media tradizionali.

3° dialogo: E se in Italia, un presidente del consiglio…

Candide:

Se domani in Italia, l’onorevole S., presidente del consiglio dei ministri, dovesse chiamare i suoi sostenitori ad accorrere in piazza Montecitorio per protestare con la forza contro la promulgazione del risultato dell’elezione del presidente della Repubblica da parte del presidente della Camera, l’appello verrebbe velocemente tolto da Twitter per iniziativa di Twitter stessa (per mancato rispetto dei suoi standard) o su ordine della magistratura, che avrebbe potuto iniziare immediatamente l’azione pubblica, senza dover aspettare un ordine del governo (diretto dall’onorevole S.) o l’apertura di una causa su iniziativa di una parte potenzialmente lesa. Sia il giudice, sia Twitter, in entrambi i casi avrebbero avuto la possibilità di sospendere o chiudere il conto. E l’autore dell’appello sarebbe anche finito immediatamente sotto inchiesta giudiziaria, per incitazione alla violenza. In Italia, la reazione sarebbe stata più veloce.

Pangloss:

Non ne sarei così sicuro. Nei social media questo tipo di decisioni viene preso a livello centrale nei quartier generali in California, mai a livello periferico, perché le filiali non hanno nessuna autonomia.

Ma il problema principale non è la censura di un singolo messaggio illegale o pericoloso. L’eventuale appello all’assalto di Montecitorio non produrrebbe alcun effetto, se non fosse preceduto durante settimane, se non mesi, dal team “social media” dell’onorevole S. Un team che si autodefinisce “la Belva” e che è efficacissimo nell’usare le piattaforme  per eccitare  le folle dei  supporter. Che potrebbe essere tentato di seguire l’esempio statunitense, usando ogni mezzo: dichiarazioni incendiarie, false informazioni, dipingendo complotti inverosimili, ma sempre evocando a copertura il “buon senso” del padre di famiglia.

E’ tutta questa massa di messaggi preparatori che la giustizia italiana non potrebbe mai perseguire, perché si fermano sempre un attimo prima dell’illecito penale e perché le piattaforme americane (ma non solo esse) sono terrorizzate dall’idea di censurare i messaggi dei politici, che sono considerati come forme estreme della libertà d’espressione e del dibattito politico.

Per uscirne è dunque urgente immaginare, inventare, realizzate e condividere piattaforme di scambio fra cittadini che non possano essere usate per questi scopi, anche se  ciò significa  che non abbiano come fine primo e ultimo il perseguimento del massimo profitto.

Se proprio ci si dovesse render conto che non possono esistere piattaforme internet davvero al servizio del pubblico, della coesione sociale e del dibattito pubblico ma pacifico, allora vorrà dire che – tanto peggio – dovremo fare a meno dei social media: la posta in gioco per le democrazie è troppo importante.

Note al testo

(1)Questo testo è un ampiamento del contributo di Eurovisioni all’Internet Governance Forum Italia, dell’8 ottobre 2000.

(2) Arturo di Corinto, “Perché l’oligopolio di Big Tech è insopportabile. Software, dati e algoritmi”. Vedilo alle pp. 35-40.

(3) Vedi Sara Fisher, Ashley Gold,” All the platforms that have banned or restricted Trump so far”, Axios, testo aggiornato l’11 gennaio 2021.Cfr.https://www.axios.com/platforms-social-media-ban-restrict-trump-d9e44f3c-8366-4ba9-a8a1-7f3114f920f1.html?utm_source=nextdraft&utm_medium=email.

(4) Riferimento al racconto filosofico Candido, o l’ottimismo di Voltaire. Il dottor Pangloss, esageratamente ottimista, ovvero panglossiano, riducendo tutto a un disegno positivo, è il tutore intento ad istruire il giovane Candido a vedere il mondo che lo circonda sempre con ottimismo, sebbene si succedano in continuazione controversie e disavventure. Dalle loro domande e risposte apparentemente ingenue Voltaire faceva emergere agli occhi del lettore le contraddizioni insite nell’ordine apparente delle cose [NdR]

(5) Consumer-to-Consumer (C2C) si riferisce a transazioni online nel commercio elettronico fra singoli utenti attraverso apposite infrastrutture dedicate gestite da apposite imprese. L’interpretazione che inserisce in questa categoria i social media è contestata per il ruolo assai ampio che essi svolgono nell’interazione che rendono possibile fra utenti e nella creazione di valore dall’uso dei dati degli utenti. Valore che non è condiviso con gli utenti, ma trattenuto in esclusiva dalle piattaforme [NdR].