Agenda Digitale: una perseveranza diabolica

di di Michele Mezza (Autore crossmediale) |

Siamo all'ennesima implosione dell'Agenda Digitale. Dopo la solita frenesia e il crescendo di aspettative subentra l'inerzia di sempre e Matteo Renzi ci informa che il convoglio partirà nel corso del semestre di presidenza italiano dell'Ue.

Italia


Michele Mezza

Siamo all’ennesima implosione dell’Agenda Digitale. Come al solito dopo un crescendo di aspettative, e una frenesia  comunicativa, sembra subentrare la solita inerzia inspiegabile. Che ne è di tutte le slide prodotte da Francesco Caio sui piani di connettività?

 

Ora il presidente del consiglio, giustamente, dopo aver avocato a sé l’intero tema dell’adeguamento infrastrutturale del sistema digitale italiano, rilancia in chiave europea: nel corso del semestre di presidenza italiana, ci informa Matteo Renzi, un grande evento rimetterà in movimento il convoglio.

 

Saremo nella seconda metà del 2014. E a quel punto l’Italia, paese che per consolidare le prospettive della sua ancora flebile ripresa economica dovrà battere forte sul tamburo delle esportazioni, si troverà con l’intero sistema della comunicazione imballato.

 

Il comparto della carta stampata, si troverà alle prese con un tornante ineludibile  di innovazione di processo produttivo che  imporrà una riconfigurazione all’intero modello industriale dell’informazione giornalistica. I grandi quotidiani  già oggi si trovano con un perdita secca di non meno del 30% delle copie diffuse negli ultimi 5 anni. Un dato che viene sopravanzato solo dal calo pubblicitario, che a parte qualche congiunturale segno di parziale recupero, vede ininterrottamente da 6 anni scendere il fatturato.

 

Ma le tabelline dei numeri dicono ancora poco del vero trambusto che si annuncia. L’esplosione delle pratiche di comunicazione relazionale, tramite le nuove app, comporterà una mutazione radicale dell’ idea stessa di rifornirsi di notizie da parte di ognuno di noi. L’abilitazione, annunciata proprio in queste ore da Apple, dei telefonini come nodi di reti momentanee di connessione territoriale, ogni terminale fungerà da distributore di connettività per i vicini nel raggio di 100 metri, spingerà gli sviluppatori a moltiplicare le funzionalità virali di messaggerie e di sistemi di georeferenzazione che renderanno il flusso delle notizie assolutamente sussidiario, indotto di un più ampio sistema relazionale fra persone.

 

In sostanza muterà, dopo 250 anni il modo di raccogliere, trattare e distribuire l’informazione e, conseguentemente anche il suo modello di business. L’intera filiera della stampa italiana ne verrà investita con l’impeto che il nostro paese ha riservato a tutte le rivoluzione comunicative, dalla Tv negli anni ’80, ai cellulari nel decennio successivo, fino  alle pratiche di massa nei social network in questo primo scorcio di nuovo millennio.

 

L’Italia è infatti un paese guida nelle pratiche di relazione digitale come confermano i dati più recenti, come la ricerca Wave 7  condotta dalla Universal Mc Cann: siamo il primo paese per capillarità di presenza sui social netowerk, con il 71,7% della popolazione che  utilizza con continuità almeno un sistema social, rispetto al 66% di americani e inglesi, e il 57% di francesi e tedeschi. E’ dura ma dobbiamo rassegnarci, non siamo né un fanalino di coda né un paese da digital devide. E, di conseguenza, tutti i distinguo e le cautele, che in questi casi vengono avanzati per frenare ogni previsione innovativa, non  servono nemmeno ad illudere chi le usa.

 

Insieme alla stampa anche l’altro grande soggetto del sistema comunicativo italiano entrerà in tensione: la TV. Saremo infatti a pochi mesi dalla scadenza della convenzione  per il servizio pubblico radiotelevisivo della Rai. Che accadrà? Quale sarà l’assetto del sistema televisivo basic nazionale? E, contemporaneamente, verranno al pettine tutti i nodi del così detto competitore privato, ossia Mediaset: ancora generalista gratuita o più pay e con quali partner e capitali si rilancerà nel mercato che vedrà  come nuovi incumbent  soggetti quali Google, Facebook e Netflix, insieme a Sky?

 

Infine il tema della rete, e della sua governance. E qui torniamo al tema iniziale: quale modello per un paese che deve riorganizzare l’intero sistema dei suoi linguaggi?

 

Da 10 anni continuiamo ad inseguire il cavaliere bianco, ossia il gruppo privato che intenda cablare il paese, portando ovunque la connettività. E, ovviamente non si trova. Sembra la stessa illusione coltivata negli anni ’80, quando si cercava un soggetto che potesse fare concorrenza a Silvio Berlusconi nella TV. Anche allora pochi cavalieri in circolazione e nessuno davvero bianco e candido.

 

Il confronto fra Telecom Italia e il fondo F2i di Vito Gamberale rimane al palo, nonostante la carota dei miliardi della Cassa Depositi e Prestiti che il suo presidente Franco Bassanini agita dinanzi ai loro occhi. Bene che vada questi gruppi sembrano disponibili ad impegnarsi in non  più di una dozzina di città, naturalmente quelle più remunerative. Diciamo il  40% della popolazione. E il resto? Quando? Come? E con quali caratteristiche? Rimbombano ancora le risate di mezz’ Europa quando, qualche mese fa, si  annunciò che dopo qualche anno, nel migliore dei casi, per effetto del piano di connettività che si stava studiando, avremmo avuto  la rete disponibile solo  per l’80% della popolazione,  ad una velocità media nientepopodimenoché: di 2 mega.

 

Il vituperato Piano Socrate di Agnes e Pascale della fine degli anni ’90 al confronto era la Silicon Valley. E ancora oggi bisognerebbe chiedere a chi lo affossò il perché.

 

Ora il punto, se non vogliamo prenderci in giro, ed esporre il governo nazionale ad un’ennesima figuraccia europea, sarebbe quello di capire realmente cos’è che blocca da anni ogni cantiere digitale. Possibile che non azzecchiamo mai? Dal governo Berlusconi del 2001 al piano Gentiloni del 2008, fino all’ultima esibizione di Caio cosa non funziona?

 

L’unico filo rosso che lega e unisce tutti questi tentativi è appunto l’ambizione dirigistica nazionale: un piano connettività, concepito come l’alta velocità ferroviaria, su un tavolo centrale. Purtroppo la connettività, sempre più, assomiglia ad un sistema tranviario, che risponde alle sollecitazioni del territorio, modificandone le dinamiche locali. E come tale non può non essere concepito, realizzato e finanziato in sede locale. Come accade peraltro in tutto il mondo, persino in Cina. La connettività infatti nel mondo è oggi uno dei fattori della nuova urbanistica Digitale. Negli Stati Uniti chi si candida a sindaco di una grande città  deve, obbligatoriamente, presentare il suo piano di connettività.

 

Siamo in una circostanza che la politica nazionale, soprattutto le componenti del centro sinistra, dovrebbero conoscere bene, per averci costruito le ragioni della loro egemonia  nella grandi regioni del centro Italia grazie al governo moderno e dinamico del territorio attraverso i piani regolatori. Quella fu una grande invenzione degli anni ’60, e prima ancora dell’inizio degli anni ’50, con il famoso progetto Dossetti per Bologna. Si trattava di limitare il potere della speculazione immobiliare, imponendo regole e trasparenza al potere finanziario sul territorio. Esattamente quanto oggi è necessario per negoziare la potenza tecnologica.

 

Non è un caso che uno dei grandi artefici dell’urbanistica programmata fu un geniale pioniere dell’innovazione informatica: Adriano Olivetti. Il promotore del primo personal computer, la Programma 101, divenne presidente dell’Istituto Nazionale di Urbanistica proprio sull’onda dei primi esperimenti di armonia fra tecnologia e territorio. Questa è una storia italiana che andrebbe ripresa.

 

In questa logica la Cassa depositi e prestiti, invece di  supplire indebitamente a capacità programmatorie della politica, dovrebbe ritornare a fare il suo mestiere di motore finanziario dei servizi territoriali, sulla base di piani e progetti locali. Le regioni, invece di cianciare di comunicazione, dovrebbero valorizzare le proprie origini di enti di pianificazione e ottimizzazione coordinando i piani comunali di connettività. Sarebbe davvero un modello italiano che potrebbe parlare a tutta l’Europa, innestando processi virtuosi persino nell’economia tradizionale.

 

Mentre oggi abbiamo grandi città come Milano, Napoli, Roma stessa, prive di piani di pianificazione della connettività. Pensiamo a Milano Expò, dove manca un motore digitale. E il Festival delle Culture a Napoli su cosa si basa? E Roma con i suoi annunciati piani di pedonalizzazione come può intrecciare  mobilità materiale con circolazione delle informazioni?

 

Il piano regolatore della connettività dovrebbe diventare il documento base di ogni amministrazione pubblica. In questa chiave i vari standard tecnologici, dalla fibra al satellite, potrebbero competere e combinarsi in soluzioni mirate e personalizzate.

Risulta singolare che poi un governo di sindaci quale quello attuale non colga l’opportunità di assumere la risorsa territorio come scorciatoia per dare all’Europa finalmente un vero esempio italiano di modernizzazione.


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