Tv pubbliche e Net neutrality: serve un armistizio fra telco, OTT e broadcaster

di di Piero De Chiara (già Presidente DGTVi) |

L’esplosione dei servizi in streaming degli OTT ha ridisegnato il panorama audiovisivo. Servono nuove regole, ma soprattutto un armistizio fra telco, OTT e broadcaster.

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Piero De Chiara

I servizi pubblici radiotelevisivi e gli incumbent di telecomunicazioni si sono improvvisamente trovati su trincee contrapposte nello scontro al Parlamento europeo sulla net neutrality. E pensare che fino a pochi decenni fa in quasi tutti i paesi europei, queste imprese avevano la stessa proprietà, il ministero detto allora delle Poste, ed erano governati da ingegneri usciti dalle stesse facoltà con una cultura e valori simili.

Cugini se non fratelli, la paura li ha resi nemici. Il terrore per i servizi pubblici è quello di essere tagliati fuori dal passaggio del video su rete IP, cioè dall’immediato inevitabile futuro.

 

Gli accordi commerciali tra telco e OTT si sono moltiplicati nelle ultime settimane.

 

Ai grandi OTT conviene una rete con differenti qualità del servizio; solo loro sono in grado di pagarne i costi e costruire così un vantaggio decisivo per i loro programmi. I broadcaster rischiano di giocare in un campionato minore dove i prodotti sono distribuiti a best effort. I broadcaster pubblici, in particolare, non hanno soldi da investire e sanno che i rispettivi governi non autorizzeranno ulteriori spese di denaro pubblico per comprare qualità della rete. Se la tv si vedrà meglio su Netflix e YouTube i broadcaster free nazionali, a partire da quelli pubblici, seguiranno la stessa parabola delle tv locali.

La paura delle imprese che gestiscono la rete è opposta. Solo differenziando i livelli di servizio possono invertire la caduta dei ricavi.

 

Ma mentre lo scontro di trincea è ancora violento, nelle retrovie servizi pubblici e telco hanno ripreso a parlarsi. BBC ha fatto un enorme favore a BT pilotando il successo della piattaforma comune Youview che, trainata dai programmi free, ha riaperto il mercato della Pay TV e fermato l’espansione diretta di Sky nella banda larga. In cambio il servizio pubblico di sua maestà si è garantito il co-governo, a costi decrescenti, della migliore piattaforma di distribuzione video nazionale, migliore di quelle che Amazon, Netflix e YouTube possono comprarsi. Una moderna reincarnazione del vecchio must carry.

 

Più in ritardo, più in piccolo, anche negli altri paesi europei si moltiplicano gli incontri tra i cugini diventati nemici. Facile prevedere che a breve si incontreranno ETNO ed EBU, le rispettive lobby a livello europeo per discutere prima un armistizio, poi la pace, poi forse una alleanza.

Soprattutto per stanare i governi nazionali, ai quali il protocollo di Amsterdam ha consegnato libertà di decisione sulla sorte dei rispettivi servizi pubblici, molti dei quali hanno la concessione in scadenza nel giro di uno o due anni.

 

A questo punto, dopo il voto di Strasburgo sulla net neutrality, i governi hanno solo tre possibilità:

 

  1. Aumentare le risorse fiscali assegnate al servizio pubblico per consentirgli di diffondere i suoi programmi al livello qualitativo più elevato;
  2. Inserire la TV pubblica nel governo della nuova piattaforma di distribuzione televisiva, con la missione esplicita di accelerarne la penetrazione con la più ampia messa a disposizione dei programmi;
  3. Disinteressarsi del problema. In fondo gli OTT sono belli e imbattibili e queste telco e tv pubbliche sono solo grane.

 

Fino a qualche tempo fa l’opzione do nothing sembrava prevalere, condita con la retorica della globalizzazione e del libero mercato. Poi il vento è cambiato: sarà l’incidente NSA, saranno le elezioni europee che si avvicinano, sarà la primavera precoce, ma lasciateci scommettere sulla opzione due.