Pubblicità e Tv: l’anomalia del mercato italiano

di Raffaella Natale |

In nessun altro Paese europeo c'è qualcuno in grado di raccogliere più della metà della spesa in Tv. E non si tratta di abilità commerciale quanto di regole a maglie larghe.

Italia


Mediaset

L’anomalia italiana del mercato media necessita di un urgente intervento. Lo ha chiesto l’Ocse che, nel Rapporto Going for Growth, ha raccomandato all’Antitrust di “valutare il grado di competitività nei media tv” (Leggi articolo).

Il settore televisivo italiano non risulta, infatti, abbastanza concorrenziale, anzi resta dominato da un’azienda pubblica e da una compagnia privata. Un duopolio stigmatizzato dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico che puntualizza come l’altro livello di presenza pubblica in alcuni settori riduca la concorrenza, facendo scivolare in secondo piano i diritti dei consumatori.

L’Ocse raccomanda, quindi, di “privatizzare più aggressivamente e di riaffermare la priorità degli interessi dei consumatori” e chiede l’intervento dell’Antitrust per valutare il grado di concorrenza nel settore dei media.

 

Una situazione problematica che balza agli occhi anche dei meno esperti: nel 2010 il 63% dei 3,8 miliardi spesi per la pubblicità televisiva è finito a Mediaset. Alla Rai è andato il 23%.

E agli altri broadcaster? Solo le rimanenze: il 6% a Sky Italia e 3,7% a La7.

 

Ma se per gli ultimi due i numeri rispecchiano anche l’audience, non avviene la stessa cosa per Mediaset e Rai. Più precisamente, lo scorso anno lo share medio di Viale Mazzini, per l’intera giornata, è arrivato al 41,3%, per il gruppo di Cologno Monzese si è fermato al 37,6%. Certo a Mediaset interessa il target commerciale (15-64 anni), ma anche in questo caso lo share non supera il 40%.

 

Come a dire – scrive Giuliano Balestreri su Repubblica – che per gli investitori l’indice di ascolto non è un parametro così rilevante, merito forse dell’abilità dei venditori di Publitalia, ma anche delle norme che fissano al 12% del tempo di trasmissione il tetto per la pubblicità in Rai, un limite che per Mediaset sale 18%. Un’asticella che il governo potrebbe portare anche al 20%”.

 

Altro fattore interessante, il 6 aprile il consiglio dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha deciso a maggioranza l’estensione dell’indagine conoscitiva sul settore della raccolta pubblicitaria già avviata. “L’indagine – si legge in un comunicato – viene allargata agli approfondimenti dell’evoluzione del mercato pubblicitario online, alle nuove dinamiche competitive, al ruolo degli operatori Over-theTop. Verrà inoltre esaminata la potenzialità del web 2.0 (social network) quale veicolo pubblicitario. In quest’ottica – conclude la nota – l’indagine riguarderà anche lo sviluppo del segmento ‘below the line’ nel nuovo scenario di mercato”.

Un provvedimento che però non ha raccolto il favore degli addetti ai lavori, che si attendevano una relazione volta a verificare se la posizione di Mediaset fosse troppo predominante ma che invece, secondo alcuni osservatori, finisce col mettere insieme troppe cose: Tv, radio, social network, attività di marketing…

E’ stata completamente ignorata la relazione tecnica che spiegava, dati alla mano, come questa scelta fosse sbagliata. In particolare, inserire marketing e “comunicazione di relazione” (cioè i servizi che le agenzie pubblicitarie assicurano alle imprese) nello stesso calderone della pubblicità televisiva o delle radio sarebbe una operazione impropria perché viaggiano su binari diversi, e soprattutto non solo legati ad una comunicazione informativa.

 

A quanto si apprende a favore dell’estensione dell’indagine conoscitiva hanno votato il presidente Corrado Calabrò e i commissari di area di centrodestra Stefano Mannoni, Antonio Martusciello, Roberto Napoli ed Enzo Savarese. Contrari Nicola D’Angelo, Gianluigi Magri e Sebastiano Sortino, assente Michele Lauria.

 

L’Agcom ha avviato l’indagine l’anno scorso, una sorta di libro bianco, dopo l’esclusione del segmento della pubblicità dall’istruttoria sui mercati rilevanti del Sic (Sistema integrato delle comunicazioni) all’interno del quale si calcolano le eventuali posizioni dominanti. L’obiettivo è scattare una fotografia del settore, anche se i commissari di area di centrosinistra si sarebbero opposti in maniera netta all’allargamento dell’indagine al di fuori dell’area classica (e dunque anche a cartellonistica, pubbliche relazioni, direct mailing), nel timore che il peso dei big, in particolare di Mediaset, si possa stemperare dentro un paniere più grande, che risulterebbe pari a oltre il doppio del valore della pubblicità tradizionale (da 3,8 a 7,7 miliardi).

 

Resta tuttavia evidente che il mercato pubblicitario italiano abbia due padroni assoluti: da un lato Mediaset, dall’altro la televisione pubblica che nel 2010 ha raccolto il 49,3% dei 7,7 miliardi investiti.

 

Di certo, già oggi, nessun Paese europeo ha una situazione simile. Secondo Screen Digest, in Spagna, Telecinco raccoglie il 33% della pubblicità seguita da Antena 3 che arriva al 27%; in Gran Bretagna ITV ha il 45% del mercato e Channel Four il 23%; in Germania Prosieben arriva al 43%, tallonata da Rtl al 41%; in Francia Tf1 è leader con il 49% degli investimenti, mentre M6 si accontenta del 23%.

Insomma in nessun altro Paese europeo c’è qualcuno in grado di raccogliere più della metà della spesa in televisione. E non si tratta di abilità commerciale quanto di regole a maglie larghe.

 

 

Per maggiorni approfondimenti:
Going for Growth (Executive Summary)