Privacy: tutto quello che è online è pubblico e serve a identificarci. Ecco come il data mining dissolve la vita privata

di Alessandra Talarico |

Mondo


Data mining

Molti di noi non avrebbero esitazione ad affermare che mai nella vita rivelerebbero informazioni quali il numero di carta di credito o la password dei servizi bancari a uno sconosciuto incontrato per strada, eppure la stragrande maggioranza degli utenti internet continua a riversare sul web dettagli su dettagli della propria vita, che messi insieme – e oggi è più facile che mai – permettono di arrivare facilmente a questi dati sensibili.

 

Su siti come Facebook, Twitter, Flickr – ne sa qualcosa il boss della ndrangheta Pasquale Manfredi, tradito dal suo profilo sul popolare social network, dove si faceva chiamare Scarface – abbondano informazioni personali su compleanni, regali ricevuti o fatti, pettegolezzi sui compagni di scuola, i colleghi, i datori di lavoro, foto delle vacanze, informazioni sui film visti o sulla musica preferita.

Minuzie, dati irrilevanti, si potrebbe pensare, ma in realtà non è così: secondo gli esperti in sicurezza informatica e le forze dell’ordine, questi frammenti di informazioni, all’apparenza innocui, raccolti e assemblati aiutano a fornire un quadro completo di un’identità, fino anche al numero di Social Security, che negli Usa serve a identificare i cittadini presso l’amministrazione pubblica.

 

“La tecnologia – ha affermato Maneesha Mithal della Federal Trade Commission americana – ha reso obsoleta la tradizionale definizione di dati personali identificativi: si può scoprire l’identità di un individuo anche senza”.

 

Il New York Times cita ad esempio un progetto condotto lo scorso anno presso il MIT, nel corso del quale i ricercatori hanno analizzato il profilo su Facebook di più di 4 mila studenti e sono stati in grado di predire con una precisione del 78% se un profilo appartenesse a un ragazzo omosessuale.

 

Questo tipo di data mining, che si basa su sofisticate correlazioni statistiche, è attualmente praticato più che altro dai ricercatori, non dai ladri di identità o dai pubblicitari, ma è vero anche che le leggi sulla privacy non hanno tenuto il passo con la tecnologia: ci sono troppi spazi grigi di cui approfittare, e sempre più organizzazioni lo fanno per poi rivendere le informazioni a chi le paga di più e in modo del tutto legale.

 

Nelle reti sociali le persone possono incrementare le proprie difese adottando controlli stringenti sulla privacy, eppure – dicono i ricercatori – le azioni individuali raramente sono sufficienti a proteggerci in un mondo sempre più interconnesso.

Anche se si evita di divulgare informazioni personali, c’è sempre qualcuno – amici, parenti, colleghi – che potrebbe farlo per noi, facendo riferimento alla scuola frequentata, al datore di lavoro, a un luogo o a un interesse.

La riservatezza, insomma, “…non è più una questione individuale”, ha affermato Harold Abelson, docente di informatica al MIT, sottolineando che anche nel mondo online vale – ancora di più – l’adagio delle nostre mamme: “le persone ti possono giudicare dai tuoi amici”.

 

I modelli di comunicazione, quindi, rivelano di noi molto di più di quanto ci saremmo mai aspettati: raccolti insieme, le informazioni su ciascun individuo possono formare una “firma sociale” distintiva, spiegano i ricercatori.

 

La FTC e il Congresso stanno lavorando all’introduzione di una serie di obblighi per l’industria e alla creazione di una “do not track” list in grado di permettere agli utenti di non essere monitorati online.

Gli esperti, tuttavia, sono scettici anche in questo caso: non c’è legge che tenga, chiunque metta sul web i dettagli della propria vita, deve avere bene in mente che niente resterà privato.

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