Il reality, la tv e la realtà (virtuale?). Quando la finzione si scambia con la vita e viceversa

di di Gabriella Iafelice |

Italia


Gabriella Iafelice

Molta dell’annosa questione del potere della tv s’incardina sulla facoltà, tecnica ed “interpretativa”, che la tv ha di scegliere cosa trasmettere e non trasmettere, e come trasmetterlo. Cioè come riprenderlo, prima, e filtrarlo dal teleschermo, dopo. E col montaggio, il potere del significante del medium tv aumenta a dismisura. Soprattutto quando si parla di reality- show.

 

Il montaggio sancisce la sintassi della narrazione proposta, attraverso la selezione dei fotogrammi da mantenere e da cestinare, la loro progressione, il ritmo semantico della loro consequenzialità: una consequenzialità che diviene logica, come se l’immagine che viene montata dopo non potesse che essere l’effetto necessario di quella che è stata trasmessa prima. In base ai ritmi di visione, insomma, nel telespettatore medio si consolida una logica causale del tipo se (immagine/significato) A, allora (immagine/significato) B.

 

La corrispondenza di questa linearità logica indotta nel telespettatore rispetto alla realtà “oggettiva” di quanto si è fotografato, ripreso e montato, rimanda all’onestà con cui la tessitura sintattica del montaggio viene ordita. Il montaggio è l’atto forse più arbitrario dell’interpretazione televisiva.

 

Gioca sulle contestualizzazione dei significati iconici e quindi sulla possibilità tendenziosa di decontestualizzarli dal loro ambito effettivo e di ricontestualizzarli in modo più o meno strumentale. In base alla ri-semantizzazione operata dal significante tv, si comprende come il problema si sposti dalla realtà del messaggio-video alla sua coerenza narrativa. È la natura stessa del medium in oggetto a snaturare, o meglio ad adeguare alle proprie caratteristiche significanti, la realtà che tratta. E questa è già una ri-significazione della realtà.

 

La vitalità di una narrazione televisiva non risiede necessariamente nel far emergere tratti reali di quanto propone, bensì nello sprigionare quelli che R. Barthes chiama “effetti di realtà”, cioè verità testuali e/o iconiche, verità puramente narrative, la cui consistenza non sia quindi più tanto quella di una necessaria corrispondenza al referente di realtà, quanto quella di nuove e feconde insorgenze di maschere nella persona ospitata-intervistata. Ciò, rammentando che persona, etimo che in italiano presiede sia a ‘persona’ che a ‘personaggio’, in lat. è la maschera.

 

Il pubblico spesso però incorrere in ingenui stereotipi, quando dalla valutazione del linguaggio o del patinato ruolo massmediatico dei protagonisti del mondo dello spettacolo esso passa a valutazioni morali (sovente moralistiche) dei loro ruoli sociali.

 

Alcune desunzioni morali dei catoni di turno scambiano il simulacro dei giornali o delle apparizioni tv, o dei social network per realtà delle persona e in gioco, e spesso lo fanno senza appunto interrogarsi sullo scarto fra ruolo patinato e ruolo sostanziale. Da che i messaggi ricevuti da uno schermo televisivo o ad esempio da facebook dovrebbero essere accolti per quel che sono, ovvero narrazioni deliberate e perciò da giudicare secondo i criteri di verosimiglianza intrinseca, al limite di riuscita puramente spettacolare, e nulla più, gli stessi messaggi mediali finiscono per essere scambiati per realtà e giudicati in quanto realtà. Ma le video-narrazioni non propongono realtà necessarie. Alla radice non lo fanno neppure nei sedicenti reality-show, figurarsi s’un social network.

 

Recepire criticamente i simulacri dei testi mediali significa accogliere questi ultimi come schegge narrative autosufficienti, come interpretazioni narrative iconico-mediali fra le tante possibili di una realtà che è pluralmente angolabile.

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