VI Summit sull’Industria della Comunicazione: la posizione dei produttori televisivi

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Riportiamo di seguito l’intervento di Fabiano Fabiani, del Presidente dell’Associazione Produttori Televisivi (APT), al VI Summit sull’industria della comunicazione (Roma, 18 dicembre 2008)

Italia


Fabiano Fabiani

Il mio intervento, in quanto Presidente dell’associazione dei produttori televisivi, che associa 52 imprese di produzione televisiva e che rappresentano oltre il 70% del mercato audiovisivo, verterà evidentemente sull’evoluzione della produzione indipendente in Italia.

Il quadro normativo

Il produttore indipendente è elemento insostituibile in un moderno sistema dell’audiovisivo: dal punto di vista legislativo, questo principio è stato riconosciuto per la prima volta nella direttiva “Televisioni senza frontiere” del 1989. 

L’Italia, diversamente dagli altri Paesi europei che hanno rapidamente legiferato sulla materia, è stata lungamente inerte, fino al 1998: la Legge 122 ha recepito la direttiva e ha definito il produttore indipendente attribuendogli quote di diritti dopo l’utilizzo delle emittenti

La legislazione, come è noto, si è negli anni arricchita:

* in Europa è stata emanata nel 2007 la direttiva “Audiovisual Media Service”;

* in Italia è stato approvato nel 2005 il “Testo Unico della Radiotelevisione”, il cui contenuto è poi stato precisato nella Finanziaria del 2008.

* Una serie di provvedimenti regolamentari dell’Autorità per le Comunicazioni hanno coperto un decennio della storia dell’audiovisivo del nostro Paese.

La crescita: ore di trasmissione, audience, qualità dell’offerta e pluralismo

Il genere maggiormente rappresentato dall’associazione è quello della fiction televisiva che, a partire dal ’99 (anno di emanazione della delibera regolamentare della 122) si è avviata a raggiungere una dimensione quantitativa simile a quella dei principali Paesi europei. I dati delle due tabelle evidenziano chiaramente questo passaggio. (Guarda Slides)

Come hanno dimostrato molti studi di settore, è solo con il raggiungimento di un numero significativo di ore di produzione che si può ottenere un soddisfacente consolidamento della fiction, consentendo sia di trasformare quello che era un “artigianato” in industria che di differenziare i generi prodotti.

La frammentazione dell’audience e il futuro dei mezzi di trasmissione

Con l’innovazione tecnologica sempre più rapida e il moltiplicarsi delle piattaforme trasmissive, il prodotto nazionale, oltre che per la concorrenza del genere sulle reti generaliste, deve misurarsi sempre più con il fenomeno della “frammentazione dell’audience“. (Guarda Slides)

Più che parlare di anno della “crisi della fiction”, come ha fatto recentemente la stampa, il 2007 – come descritto nel rapporto che oggi viene presentato – ha infatti registrato il più sensibile decremento della platea televisiva tradizionale in tutte le fasce orarie: nell’ultimo quadriennio, Rai e Mediaset hanno perso tra i 3 e i 3 punti e mezzo di share e l’erosione continuerà con il progressivo maggior uso da parte degli utenti delle nuove piattaforme, in particolare satellite e internet.  

 

Altro dato interessante per capire i possibili cambiamenti di scenario è quello economico: i ricavi dei tre operatori principali sono nel 2007 sostanzialmente analoghi (1), ma la spesa complessiva in programmazione resta percentualmente molto più bassa rispetto ai due principali mercati europei di riferimento (2).

Le risorse investite dalle emittenti italiane nella fiction nazionale sono circa 2/3 di quelle francesi e la metà di quelle inglesi. 

Questo dato, unito alla annunciata crisi degli introiti pubblicitari delle emittenti generaliste (3), permette di evidenziare la necessità per le imprese di produzione audiovisiva indipendente di trovare nuove forme di finanziamento del prodotto.

La prima considerazione da fare è che per la fiction – che ha per natura costi tendenzialmente alti – la prima diffusione prevalente è ancora quella analogica terrestre, che può contare su indici di ascolto sufficientemente elevati. 

La stessa Autorità per le Comunicazioni ha infatti rilevato che:

“il costo di acquisizione dei diritti delle opere audiovisive impone (…) la diffusione ad una platea sufficientemente estesa e tale da consentire il recupero dell’investimento” .

Su questo sfondo di natura economica si innesta l’anomalia tipica del settore televisivo italiano, caratterizzato da un assetto duopolistico. (4)

Alla posizione dominante di Rai e Mediaset nel mercato analogico corrisponde un potere di mercato anche sul versante dell’acquisto di programmi televisivi destinati alla trasmissione su queste reti. 

Questa situazione ha consolidato, nel tempo, tra le principali emittenti e i produttori, rapporti contrattuali fortemente asimmetrici, in virtù dei quali i produttori, salvo casi rarissimi, non conservano i diritti sulle opere da essi realizzate.

 E ciò vale non solo per i diritti relativi alla trasmissione sulla piattaforma terrestre, ma anche per quelli relativi a qualsiasi altra modalità trasmissiva e a qualsiasi canale distributivo, senza limiti di passaggi né alcuna limitazione temporale.

 

Le conseguenze di questa situazione sono:

il mancato utilizzo su piattaforme diverse da quella analogica terrestre (e redditività) della stragrande maggioranza dei diritti acquisiti dalle emittenti, che non provvedono a sfruttarli; che l’offerta di contenuti continuerà ad essere rappresentata prevalentemente dalle emittenti analogiche; che sarà ostacolato lo sviluppo di contenuti adatti ai nuovi media.

In sostanza, in un’ottica concorrenziale, si rallenterà lo sviluppo del sistema nel suo complesso. (5)

E’ quindi fondamentale che si introducano in Italia meccanismi diretti a modificare la prassi che si è instaurata tra emittenti e produttori indipendenti e ad assicurare rapporti negoziali equi, per consentire a questi ultimi di disporre in maniera effettivamente libera dei diritti sulle opere da essi realizzate. 

In questa direzione si sono mosse le normative di altri Paesi europei, quali la Francia e l’Inghilterra, che hanno da tempo introdotto misure volte a limitare il potere negoziale delle emittenti, proprio nell’ottica di stimolare gli investimenti e favorire la concorrenza e lo sviluppo dell’intero comparto. 

La politica del total buy out  dei diritti crea elevatissime barriere all’ingresso di nuovi operatori su piattaforme diverse, che non reperiscono facilmente contenuti nazionali pregiati da trasmettere e, di fatto, paralizza il mercato. 

Il sistema auspicato dall’Apt è un sistema in cui la titolarità dei diritti dell’opera è in capo al produttore della stessa, che potrà così concederli in licenza, per periodi di tempo limitati, per un numero limitato di passaggi e in forza di negoziazioni distinte, ai vari interlocutori. 

Obiettivo dell’Apt

L’Apt attende da tempo un provvedimento da parte dell’Autorità per le comunicazioni che ristabilisca condizioni di equità nei rapporti tra produttori indipendenti ed emittenti/fornitori di contenuti. Nell’attesa della delibera, che ci auguriamo definitiva, riteniamo – in forza delle disposizioni di legge e di esimi pareri legali, come quello del Prof. Rescigno – che il produttore indipendente debba rientrare, allo spirare del termine legale di utilizzazione dell’emittente, nella titolarità di tutti i diritti di sfruttamento. 

Non abbiano paura le emittenti a seguire la strada già tracciata da altri Paesi dove lo sviluppo di un vero mercato non ha certo portato alla sparizione dei broadcasters, ma ha viceversa consentito ad essi di approvvigionarsi di prodotti più vari e capaci di valicare i confini nazionali, di trovare nuove fonti di finanziamento del prodotto e di creare valore.

 

L’audiovisivo e il produttore indipendente: il sistema e l’elemento che non c’era

di Fabiano Fabiani

 

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[1] 2.704 mln RAI, 2.575 mln Mediaset, 2.328 Sky, mentre i ricavi da nuove piattaforme secondo l’AgCom si aggirano sui 210 mln – Cfr. XI^ Rapporto industria della Comunicazione in Italia[2] Per la spesa in programmazione (in house e commissioning) le emittenti italiane investono infatti 2 miliardi e 900mila euro (su 5,3 miliardi di ricavi) contro i 3 miliardi e 200mila euro dei francesi (su 5,1 miliardi di ricavi) e 4 miliardi e mezzo degli inglesi (su 6,8 miliardi dei ricavi). Fonte: XI Rapporto IEM – Industria della comunicazione in Italia.
[3] Cfr. anche XI Rapporto IEM- Industria della comunicazione in Italia, Televisione: “(…) Dal 2003 al 2007 la pubblicità ha visto una flessione di 6 punti; circa 5 sono i punti persi dal canone e quasi 11 quelli guadagnati dalla pay tv nella torta del mercato”.

[4] Circostanza confermata anche dall’Autorità per le garanzie nelle Comunicazioni, la quale ha individuato “una posizione dominante collettiva in capo a Rai e Rti” nel mercato nazionale dei servizi di diffusione televisiva in tecnica analogica.

[5] L’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha infatti correttamente rilevato che: “la concorrenza tra operatori è legata alla disponibilità di contenuti televisivi di particolare attrattività per i telespettatori. In tal senso, la presenza nei contratti di acquisizione di contenuti televisivi stipulati da soggetti dotati di potere di mercato di clausole di esclusiva, specie su piattaforme e/o con durata pluriennale, e di clausole di protezione dalla trasmissione di contenuti su altri mezzi può costituire un elemento idoneo a impedire l’entrata di nuovi operatori, o quanto meno ad aumentarne i costi di ingresso”. Cfr: AGCM, Indagine conoscitiva “sul settore televisivo: la raccolta pubblicitaria” (IC23) del 16 novembre 2004, p. 101.In senso analogo si è espressa la Commissione europea nel caso n. COMP/M.2876 Newscorp/Telepiù del 2 aprile 2003, par. 191, laddove ha osservato come: “[L]’effetto di preclusione prodotto dai diritti di protezione detenuti da un operatore di Pay TV esistente (quasi monopolista/monopsonista) rispetto al potenziale ingresso di operatori concorrenti è innegabile. Anzi, la preclusione del mercato costituisce l’obiettivo primario di tali diritti di protezione”.

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