Separazione rete Telecom: dopo la nascita di Open Access si apre il confronto tra Autorità, incumbent e competitor

di di Dario Denni (promotore de L’Osservatorio della Rete) |

Italia


Dario Denni

Nella splendida cornice di Palazzo Rospigliosi in Roma, si è svolto qualche giorno fa un interessante convegno Isimm dedicato ai temi della separazione della rete di Telecom Italia e introdotto da un intervento di Enrico Manca riportato in altra pagina del giornale . Numerosissimi gli ospiti, con una forte rappresentanza delle istituzioni di settore e degli  operatori.

  

All’indomani dell’annuncio di Telecom Italia, sulla creazione di Open Access, unità separata per la gestione della rete, non sono poche le sorprese destinate, forse, a modificare il settore delle telecomunicazioni in Italia.

  

Lo sa bene Corrado Calabrò, il presidente di AgCom, l’Autorità che vigila e regola le Comunicazioni. Lo sforzo che Open Access dovrà produrre è sì rivolto allo sviluppo della rete in fibra, ma deve anche tenere conto del mantenimento dell’attuale rete in rame. Tutto questo deve essere fatto migliorando le condizioni di competitività oggi piuttosto carenti nel settore delle TLC.

  

A ben vedere, il comunicato stampa divulgato da Telecom Italia ha lasciato spazio a interpretazioni di vario genere, ma il Presidente di AgCom non ha dubbi sul fatto che la vera missione di Open Access dovrà essere quella di garantire la parità di accesso a tutti gli operatori, come risposta principale alle esigenze regolamentari che ormai si fanno via via sempre più stringenti sull’operatore dominante.

 

Con i suoi 21mila dipendenti, questo il peso occupazionale del dipartimento previsto dal comunicato, il nuovo dipartimento di Telecom Italia sembra essere più che idoneo ad accettare questa sfida che è nata anche dall’esigenza di spingere la fibra ottica fino all’ultimo miglio, ossia dalle centrali telefoniche sino al cliente finale.

  

L’avvio del progetto è previsto subordinatamente agli impegni che verranno presentati da Telecom Italia all’Autorità delle Comunicazioni, ed essi – ricorda Calabrò – saranno assoggettati a consultazione pubblica.

C’è già chi è pronto a scommettere che da marzo, la macchina regolamentare potrebbe iniziare a muovere i suoi nuovi ingranaggi. Ma tutto questo non può accadere sulla base di semplici dichiarazioni di intenti. Infatti il Consiglio dell’Autorità si riserva una valutazione complessiva della vicenda, attraverso un test di mercato volto a valutare la congruità di detti impegni da parte di Telecom.

  

In verità la stessa istruttoria aperta nello scorso dicembre dall’Autorità e non ancora conclusa, deve necessariamente tenere conto delle novità sopravvenute. E quindi sebbene AgCom proceda con valutazioni preliminari, sembra di capire che ci sia la riserva di  una più approfondita analisi a seguito della effettiva lettura degli impegni assunti di Telecom Italia, quando essi saranno resi pubblici.

  

Calabrò è convinto che il passo è stato fatto nella direzione giusta, dunque ci si aspetta un miglioramento delle condizioni di mercato e un avanzamento anche rispetto al decantato modello inglese, che sinora ha costituito la migliore pratica in Europa di separazione funzionale.

A fargli eco è intervenuto per l’Autorità Antitrust, Antonio Pilati che nel suo intervento non ha mancato di rilevare come la competizione basata sulle infrastrutture, sia foriera di disfunzioni e di inefficienze in tutti i settori a rete. Così è stato per gas, aereoporti, elettricità, che hanno mostrato nel tempo una forte difficoltà nell’implementare un modello di separazione societaria, tanto difficile da realizzare se non quando imposta.

Da un lato si registra un tasso di cambiamento rapidissimo dovuto alle condizioni tecnologiche che variano sempre rispetto agli investimenti sostenuti. E dall’altro lato si avverte forte il collegamento tra le reti e i servizi, al punto che di solito fa investimenti solamente chi ha il “polso del mercato”.

  

Tutto questo – conferma Pilati – riduce i criteri stessi per la scelta sulle alternative tecnologiche, pur fondamentali nella scelta della rete di prossima generazione. Infatti il disegno e l’architettura di rete vengono scelti sulla base dell’immagine che si ha dell’evoluzione della domanda, senza tenere conto di altri fattori importanti come l’energia, la competizione e l’ambiente.

  

Resta il fatto che chi fa investimenti, sente spesso come un suo diritto quello di ricevere dei bilanciamenti regolatori volti a potergli garantire una gestione della rete in piena libertà. Così è già avvenuto in Germania, dove è stata chiesta addirittura una “vacanza regolatoria”. E’ proprio a questo punto che torna utile recuperare un modello intermedio – ha dichiarato Pilati – cioè quello della separazione funzionale, che può intendersi anche come quel sistema di vincoli giuridici che condiziona la struttura separata che amministra la rete.

  

In molti poi, hanno fatto riferimento alla delibera dell’AgCom che già dal 2002 aveva posto le condizioni per un potenziale percorso verso una separazione netta tra le attività di gestione della rete e le attività commerciali dell’operatore dominante. Ma, con molto realismo, si constata da più parti che ancora oggi, nel 2008, il contenzioso tra operatori non è affatto diminuito, e che le problematiche tra i competitor sono accresciute rispetto a tutte le volte in cui le autorità sono state chiamate in causa. Ha senso chiedersi cosa non ha funzionato?

  

Una risposta alla domanda, viene avanzata da Maurizio Dècina, presidente della Fondazione Ugo Bordoni. Perchè – dice Dècina – chi invoca il modello inglese lo fa spesso a sproposito, senza considerare che quella scelta è nata in determinate circostanze, ponendosi certi obiettivi, tipici per il mercato inglese, dove si sente meno la minaccia di perdita di valore.

E’ sbagliato – ha confermato Dècina – considerare le NGN, le reti di nuova generazione, come evoluzione delle reti fisse. Soprattutto perchè ad oggi non c’è un vero modello di business capace di sapere come tradurle in investimenti.

Si consideri che la convergenza ha portato al conflitto tra le industrie in gioco e viene da chiedersi se ha senso continuare a sostenere un modello di concorrenza basato sulle infrastrutture.

  

Su questo quesito, è intervenuto Andrea Camanzi della Luiss, ponendo all’attenzione, alcuni temi che rischiano di minacciare il modello finora perseguito. Quello degli investimenti, anzitutto, coinvolge sia il mantenimento dell’attuale infrastruttura, che la futura rete in fibra ottica. Dunque – ha continuato Camanzi – si deve prima trovare un sistema per valorizzare gli investimenti, magari ripartendo proprio dal modello di vendita. In ogni caso non si può più accettare che la parità di accesso sia conseguita solamente al fine di ottenere la cosiddetta vacanza regolatoria. La sola, vera contropartita alla parità di accesso alla rete è un’adeguata remunerazione degli investimenti sostenuti per creare l’infrastruttura.

  

Anche perchè – come ha correttamente fatto notare Luigi De Vecchis di Nokia – se il Paese non investe, le aziende scappano all’estero, facendo svanire di colpo tutto l’interesse strategico per avere un’infrastruttura superveloce. Siccome per realizzarla occorrono circa 20 miliardi di euro, secondo i calcoli che De Vecchis ha indicato, si impone da subito l’esigenza di un intervento forte da parte del governo del Paese, dello Stato, capace di valutare le risorse disponibili e poi rivolgerle alla realizzazione di questa infrastruttura.

  

Non ha nascosto una velata insoddisfazione Sandro Frova dell’Università Bocconi, perché, a suo dire, Open Access si pone più come una ristrutturazione organizzativa di Telecom Italia, piuttosto che come una sua divisione separata. Occorre definire prima, esattamente, in quale fattispecie regolamentare essa ricada, perché solo da questo possono discendere la trasparenza e la maggiore fiducia negli impegni che saranno proposti da Telecom Italia.

  

L’ultimo nodo che rimane da sciogliere, è la scelta tecnologica, ossia quale tecnologia usare per spingere la fibra ottica il più vicino possibile a casa dell’utente. Paolo Nuti dell’AIIP, l’associazione che raggruppa i principali provider italiani, non ha dubbi. La scelta tecnologica non è banale, ma incide in primo luogo sugli investimenti. Chi parla di soli 5 miliardi di euro, evidentemente tiene conto solo di una rete NGN che fa largo uso di rame. Ma è oramai chiaro a tutti che il vero modello emergente è il Fiber to the home (FTTH) ossia un progetto universale da 15 miliardi di euro per portare la fibra fin dentro le case.

Alcuni sostengono che mantenere gli ultimi 100 metri in rame, come tuttora propone Telecom Italia, porti riflessi positivi sul PIL. Ma non si considera che le apparecchiature necessarie sono prodotte all’estero, dunque, secondo questo modello, il PIL peggiora complessivamente negli anni, vanificando perfino gli investimenti fatti finora.

La soluzione finale – ha affermato Nuti – è quindi arrivare con la fibra ottica fino dentro casa dell’utente, anche per via del fatto che non c’è più bisogno di alimentazione o raffreddamento degli apparati, ma con l’ausilio di adeguati splitter ottici, si riesce ad ottimizzare la spesa, facendo calare di molto i consumi energetici per via dell’assenza di apparecchiature alimentate. Una soluzione ottimale anche per l’ambiente, considerato che la scelta di mantenere il rame nelle NGN, farebbe aumentare i consumi energetici del Paese, immettendo mezzo milione di anidride carbonica in più nell’ambiente.

  

Nella situazione in cui si trova oggi l’Italia, è prima di tutto necessario decidere e decidere presto – ha sottolineato Guido Vannucchi – e questa è la cosa più importante, senza trascinare le discussioni all’infinito.  Questo è l’unico modo che potrà permettere di avere un quadro chiaro di riferimento, anche se non perfetto, che sblocchi le incertezze sugli investimenti necessari ed indispensabili per il progresso di questo Paese. E dovrebbe essere anche, in modo non equivoco, chiarito che gli investimenti verranno remunerati dai prezzi di accesso fissati alla porzione di rete “separata”.

  

Rispetto alla stragrande maggioranza dei paesi OCSE – ha sottolineato Vincenzo Visco Comandini – l’Italia presenta un gap di sviluppo nel mercato dei servizio di banda larga: tutti i paesi, meno il Portogallo e la Nuova Zelanda, sono avanti a noi per numero di abbonamenti broadband per abitante. Oggi Telecom Italia, dopo un decennio in cui i profili finanziari e proprietari  hanno prevalso su quelli industriali, deve colmare questo gap infrastrutturale. A tale fine è fondamentale la creazione di un modello regolatorio cooperativo fra i diversi attori – e la nuova direzione Open Access è un buon inizio – capace di produrre un sistema di impegni credibili che tutte le parti si dovranno impegnare a rispettare.    

  

La più scettica di tutti è stata, in chiusura, Laura Rovizzi, economista e consulente di molti operatori di telecomunicazioni italiane. A suo dire, Telecom Italia ha chiamato Accesso Aperto un dipartimento che sta tre livelli di struttura sotto l’amministratore delegato e che quindi non è una divisione. Non ha interesse a fare budget e non ha responsabilità diverse dall’ottimizzare gli investimenti riducendo i costi. Tutto questo in un contesto che vede Telecom Italia al centro di un procedimento Antitrust per condotte abusive sul mercato.

 

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