Industria della Comunicazione: il punto sul mercato italiano al V Summit della Fondazione Rosselli

di Agostilia Milita |

Domani verrà pubblicata la seconda parte del resoconto sul V Summit sull’Industria della Comunicazione.

Italia


Comunicazioni elettroniche

Grande successo di pubblico per il V Summit sull’Industria della Comunicazione organizzato dalla Fondazione Rosselli e dalla Camera di Commercio di Roma che si è svolto ieri a Roma sul tema “I contenuti che creano valore“.
Nel corso del Summit lo IEM (Istituto dell’Economia dei Media) della Fondazione Rosselli ha presentato il Decimo Rapporto IEM che dato molti spunti agli interventi dei rappresentanti delle imprese, istituzioni, università, che hanno avuto modo di confrontarsi sulle modalità con cui stanno affrontando il processo di evoluzione verso la digitalizzazione dei contenuti e la convergenza delle infrastrutture che sta interessando tutto il contesto dei media.

Dopo l’apertura dei lavori di Riccardo Viale, Presidente Fondazione Rosselli, Flavia Barca, Coordinatrice IEM – Fondazione Rosselli ha presentato lo studio del Decimo Rapporto IEM: “La domanda di contenuti: i broadcaster generalisti“, con una attenta analisi del valore degli investimenti nell’audiovisivo in Italia e delle prospettive di questo mercato.

Complessivamente, le società che si occupano di produzione televisiva come attività principale o secondaria, attive fra il 2002 e il 2006, sono 505. Il fatturato 2004 è stato di 1.065 milioni di euro, di cui 700 milioni da attività di produzione televisiva (il resto da altre attività come la produzione cinematografica e pubblicitaria, l’organizzazione di eventi, ecc…)” ha introdotto Flavia Barca che ha poi ricostruito la localizzazione delle imprese in Italia. “A Roma si concentra il 47% delle imprese con il 64% del fatturato; a Milano il 18% delle imprese con il 24% del fatturato, mentre al sud troviamo solo il 6% delle imprese e in diverse regioni non ve n’è presente alcuna“.

Ma quanto investono i broadcaster nel prodotto? “Gli investimenti dei 7 broadcaster generalisti nazionali, controllati dai 3 gruppi principali (Rai, Mediaset, Telecom Italia Media), nella programmazione annuale sono stimati intorno ai 3 miliardi di euro e oltre la metà di questa somma viene investita da Rai. L’investimento complessivo di Sky e dei canali tematici di altri editori è superiore a 1 miliardo
In particolare, dallo studio emerge che “La spesa Rai in programmazione viene stimata in circa 1,5-1,8 miliardi di euro (di cui circa 0,6 in fiction e intrattenimento), quella di Mediaset è di circa 1,2 miliardi e quella di La7 di ca. 120 milioni per La7” ha spiegato Flavia Barca, precisando che “gli investimenti in prodotto televisivo italiano dei broadcaster generalisti, a favore delle società di produzione, ammontano a ca. 780 milioni di euro – Fiction: ca. 490 milioni, Intrattenimento: ca. 250 milioni, Animazione: ca. 20 milioni, Documentari: <20 milioni – cui si possono aggiungere altri 120 milioni di euro circa nella produzione e nell’acquisto di cinema italiano“.

Chi produce fiction e intrattenimento? “Quasi 1/3 dell’intera programmazione di fiction e intrattenimento viene commissionata a società di produzione esterne, in misura sostanzialmente analoga fra Rai e Mediaset” ed è una scelta che premia, visto che secondo l’indagine IEM se si escludono lo sport e Sanremo, nel 2006 il primo programma per ascolti delle 3 reti Rai è stato prodotto da una società esterna.
Il panorama di nuove offerte multichannel scuote lo scenario e “costringe i broadcaster tradizionali a un sempre maggior controllo dei contenuti pregiati garantiti dalle società esterne” anche se la domanda è ancora esigua e continua Flavia Barca: “sarà molto interessante vedere come cambieranno il mercato i nuovi intermediari via Internet, le nuove offerte mobile etc., sia per lo spostamento dell’utenza finale, sia per il flusso dei finanziamenti“.

I dati del Decimo Rapporto IEM sono stati commentati dagli interventi della tavola rotonda moderata da Marco Mele, Il Sole 24 Ore, dedicata alle modalità di approvvigionamento make/buy delle emittenti e quindi, all’equilibrio tra risorse produttive interne e ricorso ai produttori esterni. Il primo intervento, quello di Luca Balestrieri, Rai, ha evidenziato come i broadcaster debbano reagire “al mutamento dello scenario degli ultimi venti anni che ha portato alla globalizzazione dell’industria dei format e prepararsi al Domani Digitale con modelli di innovazione che nascono apparentemente da motivi di natura tecnologica“. I broadcaster devono “innovare per competere” perché in futuro ci saranno “da un lato un digitale denazionalizzato pay che nasce dalla coda lunga dell’offerta digitale, dall’altro un digitale nazionale in chiaro che viene dalla tradizione free della Tv generalista italiana“.

Per Piero De Chiara, Telecom Italia, ormai si può affermare che “le Tlc non saranno Media Company” e quindi “No Buy, No Make per Telecom Italia perché il numero degli abbonati non giustifica gli investimenti che Telecom Italia ha intrapreso in passato per l’acquisto e la produzione di contenuti“. Telecom Italia lascia il progetto di diventare una Media Company e torna ad essere un operatore di telecomunicazioni che mette a disposizione la sua rete ai produttori e agli aggregatori di contenuti per fare Tv (mobile e IPTV). Certo Telecom Italia possiede anche un’emittente, La7, che stenta a districarsi in un mercato “con scarse condizioni concorrenziali e fa fatica, ad esempio, a trovare programmi adeguati al suo target di audience“.

Una forte critica al mercato italiano delle produzioni indipendenti è venuta da Giorgio Gori, Magnolia – Gruppo De Agostini, che ha evidenziato che “il mercato italiano è il meno importante in Europa per gli investimenti in produzioni indipendenti“, aggiungendo che “l’industria dell’audiovisivo è forte se sono forti i broadcaster e i produttori indipendenti (…) e nonostante la forte spinta alla globalizzazione dei format e la nascita in Europa di decine di produttori, l’Italia pesa appena per il 2%“.

Anche Giuseppe Richeri, Università della Svizzera Italiana, ha sottolineato che “l‘industria audiovisiva italiana deve essere vista in un’ottica di tendenziale globalizzazione ed in un quadro europeo” e nonostante le misure di protezione introdotte dall’UE è aumentato il deficit dell’industria audiovisiva Europa-Stati Uniti, con “l’Europa che importa molto dagli Stati Uniti ed esporta molto poco“. Richeri ha concluso affermando che “in ambito europeo si potrebbe lavorare di più per migliorare questo risultato“.

Già dai primi interventi del Summit è emerso come tutti gli attori del settore televisivo siano in una fase di transizione verso le nuove piattaforme di televisione e verso nuovi modelli di business, tendenza confermata anche da Giovanni Modina, Gruppo Mediaset, che ha parlato di “un momento confuso in cui ci si trova a mettere insieme strategie a posteriori“. Negli ultimi anni Mediaset ha deciso di entrare nel settore pay e di affrontare la strategia dell’investimento su Endemol, anche nell’ottica di una strategia finanziaria e non solo di acquisizione di contenuti e in futuro dovrà verificare se queste scelte si riveleranno efficaci. Make or Buy per Mediaset? “Mediaset acquista e produce con una via di mezzo“, spiega Modina, con “la scelta di una polarizzazione nel Prime Time“.

La transizione riguarda anche il ruolo dei consumatori e Gianluca Paladini, Digicast – RCS MediaGroup ha affermato che”il nostro razionale strategico è quello di seguire il cliente nel suo nuovo posizionamento, sia nell’accedere ai contenuti che nel produrli“. “RCS è una Media Company“, ha continuato Paladini, “e sta studiando il consumatore europeo che ormai fa parte di comunità trasversali e abbiamo scelto per i nostri contenuti l’approccio multipiattaforma perché è quello che meglio risponde alle comunità trasversali“.

Ed il consumatore è al centro dell’attenzione anche per Vittorio Veltroni, Vodafone, che ha spiegato come “la domanda sia completamente cambiata“, perché l’utente è al centro della comunicazione che lo solleva dalla sua “solitudine” e Vodafone sta cercando e sperimentando modelli di offerta di contenuti da offrire ai suoi utenti. Una delle difficoltà che incontra è “la mancanza di skill da parte dei produttori di adattare i contenuti alle piattaforme mobili” e occorrerebbe “integrare la produzione di contenuti di capacità softeristica“.

Certo tutti gli attori si stanno muovendo per adeguarsi all’evoluzione digitale e più in generale all’evoluzione dei media, ma dagli interventi di questa tavola rotonda, secondo Marco Mele, emerge che “Il sistema Italia perde colpi in Europa, con poca concorrenza e la grossa incognita chiamata Rai, mentre Sky e Mediaset hanno programmi già impostati“.

Investire nell’audiovisivo come fattore di sviluppo” è stato invece il tema del panel moderato da Francesca Medolago Albani, Anica, iniziata con l’intervento di Carlo Bixio, Associazione Produttori Televisivi, che ha rilevato come per crescere e diventare industria vi sia bisogno di processi lavorativi ed innovazione.

Gianni Celata, Distretto Ict e Audiovisivo ha spiegato nei dettagli le dinamiche degli investimenti nel cinema e più in generale nell’audiovisivo. Celata ha evidenziato come nel cinema il ritorno sull’investimento (ROI) è molto rischioso: solo il 44% delle produzioni ha un ritorno sull’investimento. Tuttavia, il cinema presenta delle caratteristiche specifiche come il recupero rapido dell’investimento, la diversificazione significativa dell’investimento ed è aciclico rispetto ad esempio a web, beni durevoli ecc. Il settore, ha concluso Celata “necessita di interventi regolamentari e legislativi che sono utili non quando bloccano il sistema, ma quando permettono all’industria di crescere realmente“.

Qual è la risposta delle istituzioni alle criticità dell’audiovisivo? “Per il Governo cinema e audiovisivo rappresentano elementi essenziali per la cultura e l’identità del Paese“, ha dichiarato Lorenza Bonaccorsi, Ministero delle Comunicazioni, che si è poi soffermata sulla legge 122 che il Governo ha inserito nell’ambito della transizione al digitale, convergenza e innovazione di tutto il settore: “La legge 122 ha favorito lo sviluppo della fiction, anche se ha allontanato dai palinsesti il cinema ed ora si cerca di far tornare anche il prodotto filmico nella programmazione televisiva (….). L’obiettivo di sistema è quello di spingere il prodotto nazionale e favorire l’esportazione all’estero più di quanto lo abbia fatto la legge 122.

Per “inquadrare il cambiamento del paradigma televisivo che sta avvenendo fuori dell’Italia e che arriverà anche in Italia” è necessario, secondo Valerio Zingarelli, Babelgum Tv “partire dallo sviluppo tecnologico che sta per produrre nei media la stessa rivoluzione che ha investito le Tlc negli ultimi 15 anni, prima col telefonino e poi con Personal Computer e Internet, con il comune denominatore della personalizzazione“.
Inoltre, “gli ultimi passaggi hanno visto la conquista dell’interattività con la drastica riduzione prezzi Hardware, l’abbattimento costi produzione programmi Tv, il perfezionamento tecnologie di ‘web streaming’ e la diffusione della larga banda” e si è passati “dall’Età della Ricezione all’Età dell’Espressione. (…) L’utente target della Tv non è più la famiglia, ma il web user e l’offerta deve essere free“.
Babelgum, che è una Tv di contenuti professionali, “nasce in Italia ma sceglie di operare sul mercato internazionale con un’ottica globale perchè oggi il mercato italiano da solo è troppo piccolo per garantire un durevole successo con la sua anomalia della Tv ancora via etere e le reti fisse a larga banda ancora limitate“.

La gestione dei diritti delle produzioni riservato ai broadcaster è il problema sollevato al Summit da Carlo Degli Esposti, Palomar, che ha lamentato come “il sistema di concessioni italiano espropri dei diritti il produttore e se i piccoli produttori non hanno diritti non possono capitalizzare“. Degli Esposti ha fortemente criticato la scelta delle miniserie che “dà la possibilità di distribuire gli investimenti a pioggia“, mentre le serie lunghe presupporrebbero delle scelte aziendali condivise.

E la produzione di documentari, come si inserisce in questo scenario? Lo ha spiegato Marco Visalberghi, DOC/ IT – Associazione Documentaristi Italiani: “La produzione di documentari fa paura in un duopolio che vuole controllare tutto” e nonostante il costo medio di un documentario non sia esoso (da 300mila a 700mila euro), i broadcaster preferiscono acquistare all’estero perché è facile aggirare le regole sulle quote di mercato di produzioni italiane. “Occorrono certezze per il produttore indipendente italiano“, ha concluso Visalberghi, “che deve poter essere messo in grado di competere con i suoi concorrenti europei“.

Iniziative per contribuire allo sviluppo del settore dell’audiovisivo sono state intraprese anche dal Dipartimento Politiche di Sviluppo Ministero Sviluppo Economico, con progetti nelle scuole con finalità di educazione del pubblico, sia con iniziative di produzione sul territorio, come ha illustrato Alberto Versace.

E’ seguita poi la presentazione del Decimo Rapporto IEM: “L’industria della comunicazione in Italia“, la parte riguardante lo stato dell’arte dei diversi mercati che compongono l’industria della comunicazione in Italia e l’analisi panoramica delle tendenze evolutive in atto, con elementi di raffronto con i maggiori mercati internazionali.

Dall’analisi delle performance dei mercati, emerge, secondo Flavia Barca, che: “il Mobile Content si conferma il mercato in maggiore crescita, anche se con percentuali minori che in passato: troviamo nuovamente in flessione la Musica , l’Home-video, le Tlc fisse pagano l’erosione dei servizi voce (…) I dati più significativi riguardano la crescita della pubblicità online (+44% nel 2006 rispetto al 2005) e la caduta dell’Home video (-15,3% nel 2006 rispetto al 2005” .
In Italia “il cinema è nella palude“, è l’espressione usata da Flavia Barca per definire la situazione del cinema, che registra “Una frequenza media fra le più basse d’Europa (1,7 volte/anno) e in una tendenza stagnante. Gli ultimi 10 anni hanno visto l’Italia scendere all’ultimo posto per incassi (poco sopra i 600 milioni di euro), mentre quasi tutti gli altri registravano aumenti sensibili (specie Uk e Spagna)“.
Flavia Barca si è poi soffermata su un’altra caratteristica italiana, quella del mercato della pubblicità “che rimane dominato dalla televisione, mentre altrove Internet è in pieno boom: ad esempio in Uk, Internet vale già quanto i periodici“.

A concludere i lavori della mattinata del Summit, è stato il Ministro delle Comunicazioni Paolo Gentiloni, che ha mostrato grande apprezzamento per il rapporto IEM: “una fotografia di una realtà che è in grandissimo movimento, una realtà spinta innanzitutto dal web e dai processi di digitalizzazione” ed ha poi illustrato lo stato del’arte e le iniziative in campo del governo: “riguardo le Tlc l’Italia ha una buona rete di rame, un buon sistema di regolazione sull’ULL all’avanguardia in Europa, un primato nella telefonia mobile ed un alto tasso di penetrazione e innovazione nella diffusione della Mobile Tv. Inoltre, stiamo recuperando il ritardo degli operatori mobili virtuali“. Sulla larga banda ha aggiunto: “l’obiettivo è la larga banda per tutti entro il 2011“.

Sulla Tv, il Ministro ha aggiunto che: “in Italia c’è una struttura di concentrazione che ha un’influenza ritardante per l’evoluzione“, ma il Governo sta lavorando per l’apertura del settore, con un “un processo che va accompagnato con norme e adeguata legislazione“.

Per approfondimenti:

La domanda di contenuti in Italia

L’industria della comunicazione in Italia

L’industria della musica registrata in Italia: esiste un ruolo per la piccola e media impresa?

Web tv, Mobile, Iptv: le nuove televisioni e la creazione di valore