Pubblicità: le misure Ue sufficienti a garantire il mercato? Purtroppo l’opinione pubblica non può mettere in mora quest’Europa così telecom

di di Roberto Barzanti (Docente di Istituzioni e politiche audiovisive nella Ue - Università di Siena) |

Italia


Roberto Barzanti

Bene. La Commissione europea ha inviato finalmente – ma quant’è che il tema era all’ordine del giorno!? – al governo italiano una lettera di messa in mora circa le violazioni della normativa comunitaria vigente in tema di pubblicità trasmessa per televisione.

Entro due mesi Bruxelles attende risposta.

La missiva – la cui esatta articolazione non è dato conoscere – sarà senz’altro fondata, fondatissima. Del resto il problema non insorge oggi.

Fin da quando la direttiva 89/552/CEE fu discussa si profilò in Italia una situazione patologica. Tutto si stava già inventando per aggirare i limiti di tempo che dettava: con calcoli strani e in un generale lassismo.

Intendiamoci: l’Italia non era sola in questa gara all’infrazione strisciante. Certo che il sostanziale duopolio peggiorava le cose.

Infatti la questione non toccava – e non tocca oggi – solo Mediaset. La Rai non è stata da meno ed in nome dell’inevitabile competizione si è guardata dal dare il buon esempio. La contestazione che ora viene formalmente notificata è suffragabile senza particolari e sofisticati metodi di computo.

Vien solo da chiedersi perché si sia lasciato correre per tanto tempo, malgrado critiche, osservazioni, polemiche ripetute da più parti. Sarà interessante vedere in che misura i rilievi della Commissione si appuntano sulla pratica o per quali aspetti sulle norme, come precisate dalla Legge Gasparri.

Da noi si è affermato un costume che considera le regole europee una fastidiosa costrizione da edulcorare o trascurare. È rimasta memorabile una trasmissione di Maurizio Costanzo all’insegna dello slogan “Vietato vietare“, come se dare opportuni indirizzi in tema di pubblicità non fosse stato essenziale per costruire un mercato europeo il più possibile “armonizzato”, quanto a principi da osservare ed a quantità ammissibili.

Il divieto non è fine a sé stesso ma consente – consentirebbe – un’allocazione più equilibrata, rispettosa e concorrenzialmente efficace dell’investimento pubblicitario (non della “risorsa” pubblicità da distribuire: giustamente l’UPA non sarebbe d’accordo). E’ curioso, semmai, che la lettera sia stata spedita adesso: e non penso alle festività natalizie. Fatto è che il 29 novembre scorso il Parlamento europeo ha approvato in seconda e definitiva lettura – non avendo proposto ulteriori emendamenti – le aggiunte e le modifiche che confluiranno nel testo della nuova direttiva servizi media audiovisivi senza frontiere, destinato a sostituire quello, ormai per più versi superato, della direttiva Televisione senza frontiere, varata nel 1989 e modificata nel 1997 (con direttiva 36/97/CE). Infatti questo nuovo atto subisce l’effetto di trascinamento delle nuove forme di comunicazione tv-like, ormai effettuate con i più diversi formati e impiegando la gamma di protocolli – fino alla mobile TV – via via messi a punto per la rete: con la conseguenza di travolgere i già compromessi criteri fissati nelle normative precedenti.

E’ curiosa a questo proposito l’ammissione che la commissaria Viviane Reding ha formulato a commento dell’iniziativa assunta: “Per beneficiare delle regole meno dettagliate e più flessibili in materia di pubblicità previste dalla direttiva servizi media audiovisivi senza frontiere di prossima adozione, l’Italia, alla stregua degli altri Stati membri, deve rispettare ed applicare pienamente le disposizioni comunitarie in vigore”.

Che è come dire: “Ancora per poco osservate queste regole, tanto domani si allargheranno le cateratte!”.

A veder bene il problema pubblicità – e della comunicazione commerciale, come ora si preferisce dire – è stato mal impostato dall’inizio e ora il sistema di governo europeo registra un vero e proprio effetto boomerang.

La responsabilità, beninteso, non è in prevalenza dell’esecutivo di Bruxelles. Ma i fatti sono inequivocabili, almeno quanto reticenti o evasive (o assenti) le definizioni e le normative. Neppure quando la direttiva originaria fu rivista nel 1997 si introdusse un più stringente lessico. Eppure in Italia erano apparse da subito trovate ingegnose, quali le “telepromozioni“, riferite a modalità diverse e distinte dalle “televendite“.

Solo nel ’97 si inserì esplicitamente una definizione di “televendita” che copriva una tipologia precisa, non corrispondente affatto a quella messa in onda soprattutto dalle grandi emittenti generaliste. Intendendosi per “televendita”, appunto, “le offerte dirette trasmesse al pubblico allo scopo di fornire, dietro pagamento, beni o servizi“.

Nella versione del 1989 la pratica delle “offerte dirette al pubblico” era assimilata alla pubblicità vera e propria, e conteggiata nel tetto orario del 20%. Ed esso è restato – resta – un limite che però contiene solo “spot pubblicitari” e “spot di televendita”, due fattispecie che non hanno mai avuto l’onore di una chiara separazione concettuale. Senonché “le finestre di programmazione destinate alla televendita” – compaiono nell’allarmata lettera spedita dal Berlaymont – sono fuori dal tetto e possono essere addirittura 8 e non superare 3 ore giornaliere. Una durata minima “ininterrotta” non inferiore a 15 minuti fu prescritta per il timore, non infondato, che un surrettizio spezzettamento delle finestre in finestrini creasse un’allegra situazione fuori controllo. Senza trattenersi ulteriormente su defatiganti formulazioni fu già d’allora chiaro che la via intrapresa apriva alla più largheggiante espansione.

La ricezione italiana della controversa direttiva, come si sa, non migliorò le cose. Anche l’intervallo di 45 minuti prescritto per i “lungometraggi cinematografici” (art. 11.3) è stato spesso aggirato. Tra il primo e secondo tempo di un film non è stato infrequente vedersi piazzare addirittura un telegiornale. Si può dire che da noi, lungi dal pensare normative più restrittive e rigorose – che il servizio pubblico avrebbe avuto il dovere di anticipare -, si è fatto a gara per spalancare porte e finestre alla quantità massima ammissibile di pubblicità. E, anzi, come ora vien fatto osservare, si è andati ben oltre. Indubbiamente il momento in cui il rimprovero di Bruxelles cade desta meraviglia.

Il pulpito non è il più credibile per la predica propinata.

La nuova DSMAsf abolisce per ogni tipo di programmazione televisiva il limite di pubblicità giornaliero, conservando esclusivamente il limite orario. Il discorsivo considerando 59, che giustifica il cambiamento, è disarmante: “La limitazione che esisteva della quantità di pubblicità giornaliera era in larga misura teorica. Il limite orario è più importante in quanto si applica anche nelle ore di maggiore ascolto. Il limite quotidiano dovrebbe pertanto essere abolito, mentre dovrebbe essere mantenuto il limite orario per spot di televendita e pubblicità televisiva […]. Resta […] in vigore il limite del 20% per gli spot televisivi pubblicitari e di televendita per ora d’orologio“.

Da notare che l’intervallo tra uno spot e l’altro durante la diffusione di “opere cinematografiche” e film in genere – equiparati in un’unica categoria – si riduce a 30 minuti. Le finestre di televendita nel mutilato nuovo art. 18 sono tenute a protrarsi ancora per una durata minima di quindici minuti, ma non se ne fissa la quantità massima.

Che la pubblicità tenda ad aumentare, marcatamente in Internet – secondo la recente proiezione di Nielsen Media Research si avrà una crescita del 33,6% nel prossimo anno -, è scontato. Ma era – sarebbe essenziale in fase di recepimento – distinguere canali e modalità trasmissive, puntualizzando norme specifiche ad hoc per impedire un dilagare della “comunicazione commerciale” oltre ogni tollerabilità.

Quanto poi ai principi di ordine etico, pure richiamati, questo è davvero un capitolo a sé: che nessuno ha il coraggio di aprire.

La mercificazione dei corpi e la mortificante esaltazione – di fatto foriera di discriminazione – della drogata eccellenza fisica sono all’ordine del giorno.

Non sarebbe male che l’Unione europea, in ogni suo organo, si domandasse se non stia favorendo o avallando il più cinico tradimento – o travisamento – dei timidi indirizzi concepiti con sane intenzioni. Purtroppo l’opinione pubblica non è in grado di mettere in mora quest’Europa così telecom: liberista, tecnologica, pubblicitaria anche di sé, e priva di coerenza, di forza e di tempestività.

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