Il lato oscuro dei nuovi media, ovvero: come il social networking ci allontana da noi stessi

di Alessandra Talarico |

Mondo


Social networking

In che modo il dilagante fenomeno del social networking sta cambiando il nostro modo di relazionarci agli atri?

Telefonini, computer, instant messaging fanno sì che chiunque lo voglia sia sempre accessibile, lasciando sempre meno spazio a un sano rapporto con sé stessi.

Ce lo spiega, in un’intervista pubblicata su New Scientist, il professore di Studi Sociali, Scienza e Tecnologia del MIT, Sherry Turkle, che dipinge uno scenario molto chiaro, per quanto non proprio ottimistico, delle conseguenze di un rapporto sempre più stretto ed esclusivo con gli strumenti della comunicazione istantanea.

 

Avere la possibilità di comunicare immediatamente i nostri sentimenti ad amici e familiari è sicuramente un traguardo molto importante, ma dai risvolti ancora tutti da scoprire in ambito psico-sociologico: non si ha, infatti, più il tempo né la voglia di restare da soli con sé stessi e di gestire le proprie emozioni, che sembrano prive di fondamento se non vengono subito comunicate a qualcuno.

 

Questo approccio alla realtà – ha spiegato il prof. Turkle – “può portare a una nuova dipendenza”, intesa come bisogno degli altri per dare spessore e validità ai nostri sentimenti.

 

Sembra infatti che molti – soprattutto i più giovani ma non solo – abbiano più familiarità col cellulare che con sé stessi, tanto che Turkle parla di un “nuovo stato del sé”, in cui la tecnologia abilita un nuovo posizionamento delle persone, sempre più legate, come al guinzaglio, alla loro nuova esistenza sociale fatta di comunicazioni ‘al cellulare’, ‘in chat’, ‘sul web’.

 

I dispositivi di comunicazione ‘always-on’ sono dunque come una briglia che ci lega intimamente alle persone e alle cose che ci permettono di raggiungere ma, se da un lato ci consentono di manifestare in maniera immediata le nostre emozioni, dall’altro non sono funzionali all’apertura di un dialogo sulla complessità dei sentimenti.

 

Il professore cita, tra gli altri esempi, le conseguenze del regalare un cellulare ai propri figli sullo sviluppo della loro autonomia: possedere un cellulare tra i 12 e 14 anni può dare l’idea di aver raggiunto la libertà e di sentirsi protetti dalle aggressioni del mondo esterno, il che da una parte può anche essere vero.

Avere però a disposizione questo strumento fa però sì che il ragazzino non abbia mai esperienza di cosa vuol dire cavarsela da solo, mancando un rito di passaggio che – soprattutto nella giungla urbana – responsabilizza e apre la strada alla maturità sociale.

 

Di fronte a una società letteralmente tecno-entusiasta in cui tutti siamo “più connessi, più informati e globali” e tutti comunicano attraverso messaggi veloci e istantanei, avverte quindi Turkle,  si rischia di perdere di vista la riflessione su se stessi, che si basa “sull’avere un’emozione, sentirla, e fermarsi a comprenderla, ma solo ogni tanto condividerla”.

Sedersi a riflettere sulle proprie emozioni, senza essere interrotti da una telefonata, da un sms o da un’email, sembra ormai essere un privilegio per pochi. L’immediatezza di risposta è il diktat soprattutto per i ragazzi, abituati al multitasking, che spesso vuol dire rispondere a un sms mentre la professoressa spiega.

 

È questo dunque, quello che Turkle definisce “il lato oscuro dei media” che ci porta a ritenere valida un’emozione solo quando riusciamo ad assicurarci che la prova anche qualcun altro.

 

Un paradosso, dunque: in un’epoca in cui siamo bombardati dalle informazioni non abbiamo più il tempo di riflettere sulla loro complessità e tendiamo a dare per buono qualunque cosa purchè sembri universalmente condivisa.

 

La sfida – conclude Turkle – riguarda soprattutto le nuove generazioni che dovrebbero imparare a “pensare alla socialità come a qualcosa di più complesso dell’intimità virtuale”, basata sulla condivisione di gossip e fotografie su uno dei tanti siti oggi di gran moda come MySpace o Facebook.

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