I contenuti

Presentazione di “Democrazia Futura”. Questo numero

di Bruno Somalvico |

Come è costruito l’impianto e cosa offre l’edificio di questo primo numero di Democrazia Futura.

Dopo la presentazione di ieri del Numero 1 di Democrazia futura da parte del Direttore Giampiero Gramaglia e la premessa del coordinatore editoriale Bruno Somalvico contenente l’invito ad una duplice lettura del fascicolo, lo stesso Somalvico presenta oggi il contenuto dei trentasette articoli che inizieremo a pubblicare a partire da domani.

Chi avrà avuto la pazienza di leggere ieri la presentazione del nostro Direttore Giampiero Gramaglia e la premessa con il nostro appello ad una duplice lettura di Democrazia Futura avrà capito che anche per questo numero 1, abbiamo deciso di mantenere in primo piano, la nostra attenzione sui temi geopolitici. Nonostante l’effetto-Draghi e la conversione all’europeismo in queste settimane di alcuni leader politici italiani, rimangono vari nodi da sciogliere per l’Europa: al suo interno dove alcuni Paesi membri come l’Ungheria e la Polonia sembrano rispettare sempre di meno la libertà di stampa e lo stato di diritto, ma anche alle sue frontiere come in Bielorussia, in Turchia e nella stessa Russia di Vladimir Putin, crescono le manifestazioni contro i leader che guidano questi Paesi da molto tempo. Contestazioni che colpiscono anche la Cina soprattutto dopo la stretta del regime comunista cinese su Hong Kong.

In apertura a La Guerra dei media dopo il voto americano, Giampiero Gramaglia fa un bilancio di quanto avvenuto in questi ultimi mesi in piena seconda ondata del Covid-19 ovvero delle ragioni per le quali è cambiata l’opinione pubblica in Italia e negli Stati Uniti. “Sondaggi alla mano gli italiani, che nelle elezioni del 2018, manco tre anni or sono, preferirono in modo massiccio quelli che non avevano un curriculum a quelli che ne ave- vano uno, gli incompetenti ai competenti, e scelsero populisti e sovranisti più che rigoristi ed europeisti, invocano, adesso, competenza e preparazione […] In questo contesto, non c’è da stupirsi che l’Unione europea guardi più attonita che preoccupata all’Italia, andatasi a sprofondare in una crisi di governo dopo che l’Ue aveva deciso di darle 209 miliardi di euro per rimettere in sesto un Paese indietro su tutti i fronti, infrastrutture, istruzione, disuguaglianze. Le sole classifiche in cui l’Italia compare in testa nell’Unione sono quelle negative, il debito, la disoccupazione, la lentezza della crescita (e la rapidità della decrescita, nel 2020). Anche il coronavirus ha fatto più vittime in Italia che in tutti gli altri Paesi dell’Unione europea – la Gran Bretagna ci è davanti, ma è ormai fuori; e corre più di noi con i vaccini –.[…].Quanto agli Stati Uniti – osserva Gramaglia – “anche a causa della pandemia, una netta maggioranza dei cittadini elettori, oltre 80 milioni contro oltre 74, s’è svincolata dalla retorica populista di Donald Trump. Ma, nonostante quanto avvenuto il 6 gennaio, con l’assalto al Campidoglio […] da parte dei sostenitori del magnate per rovesciare l’esito del voto, una netta maggioranza del partito repubblicano e molti dei suoi elettori ne restano ammaliati”.

Gianfranco Pasquino dedica una riflessione al complesso rapporto fra Internet e politica, giudicando quella della Rete “una sfida ormai matura per il rinnovo della politica”. Pasquino, pur consapevole del “rischio che coloro che controllano la “rete”, in special modo i giganti del web, vogliano influenzarne i contenuti, mirino ad appropriarsene, cerchino di manipolarli non soltanto con fini commerciali (ecco una ragione per tassarne i profitti), ma con obiettivi politici”, si dichiara peraltro convinto che non sussista nessun rischio di democrazia telepilotata. “Al contrario non è affatto da escludere che Internet et alii servano a difendere le democrazie esistenti, per poi allargarle, approfondirle, accelerarle (uso questo verbo perché troppo spesso ascolto gli alti lai di coloro che lamentano la lentezza decisionale dei governi e delle strutture democratiche). La democrazia – prosegue Pasquino – non è mai stata la promessa di decisioni rapide […] Soltanto i terribili semplificatori possono credere o tentare di fare credere che questo potere del popolo consista nel prendere decisioni con un “si” o con un “no”,  e che dunque saranno i click dai nostri computer, dai nostri smartphone dai nostri iPad che daranno slancio e velocità alla democrazia […] Però la strumentazione tecnologica, se appropriatamente utilizzata, sarà molto utile a “costruire” la decisione mettendo a disposizione dei decisori i materialo contenenti le informazioni necessarie”.

Segue un accorato appello del presidente del Consiglio Italiano del Movimento Europeo Pier Virgilio Dastoli all’Europa a difendere lo stato di diritto. Si tratta di un principio irrinunciabile per il quale a suo parere occorre riformare l’Unione, consentendole di poter sanzionare la “democrazia illiberale “ di Viktor Orban in Ungheria e i pieni poteri assunti dal partito nazionalista del Diritto e della Giustizia in Polonia. Nodi che rimangono irrisolti dopo il compromesso raggiunto al Consiglio europeo del 10-11 dicembre fortemente voluto dalla Presidenza tedesca di Angela Merkel. “Il vulnus di cui soffre l’Unione europea dal 2010 in Ungheria e dal 2015 in Polonia non sarà dunque annullato dal Regolamento votato a maggioranza qualificata dal Consiglio e dal Parlamento europeo mentre rimarrà inapplicabile l’art. 7 del Trattato di Lisbona che affida al Consiglio europeo il potere di constatare all’unanimità l’esistenza di una violazione “grave e persistente” dei valori indicati nell’’art. 2 TUE e che prevede sanzioni talmente ipotetiche da aver consentito, subito dopo il Consiglio europeo del 10-11 dicembre 2020, al Parlamento ungherese l’adozione di una modifica della costituzione in materia di diritto di famiglia che lede i principi della non discriminazione sia all’interno dell’Ungheria che verso l’insieme dei cittadini europei. Il Regolamento – chiarisce Dastoli – si applica solo alla violazione degli interessi finanziari dell’Unione europea e non consente di sanzionare, attraverso il recupero o la mancata attribuzione di risorse del bilancio europeo, governi e sistemi pubblici nazionali che ledono i principi generali dello stato di diritto. Questo vulnus – prosegue il presidente del Movimento Europeo in Italia – è il prodotto di un’Unione europea che chiede ai suoi membri il rispetto dello Stato di diritto ma che lo viola al suo interno quando il Consiglio europeo esercita funzioni legislative che gli sono interdette dal Trattato, quando il Consiglio europeo o il Consiglio o la Commissione violano il principio della trasparenza, quando il Trattato non prevede l’accesso specifico alla Corte per violazione dei diritti fondamentali, quando il sistema dell’Unione europea non rispetta il principio dell’equilibrio istituzionale, quando i governi nel loro insieme e all’interno dell’Unione europea non operano secondo il principio di responsabilità ed infine quando non prevale il principio del primato della legge europea sulle leggi nazionali”. Per questa ragione è necessario – conclude Dastoli- “Trasformare l’Unione europea da comunità sui generis in un vero Stato di diritto”.

In primo piano prosegue con alcuni contributi dedicati alla guerra tecnologica in atto fra Stati Uniti e Cina, nella quale l’Europa si rifiuta di avere un ruolo da comprimaria. In una lunga disamina, l’ingegner Pieraugusto Pozzi animatore con Giorgio Pacifici del Forum per le Tecnologie dell’Innovazione, prendendo spunto dal dossier su Big data e capitalismo della sorveglianza uscito nel numero zero di questa rivista, affronta i nodi di quella che definisce la metamorfosi digitale, caratterizzata da nuovi rapporti di forza fra economia, politica e poteri digitali senza limiti con tutti i problemi che derivano dalla datificazione e dai nuovi orizzonti dell’intelligenza artificiale che sembrerebbero mettere in crisi la “ragione umana”. “Le vicende pandemiche, politiche ed elettorali intrecciate alla metamorfosi digitale sembrano confermare un’ipotesi: senza la peculiare connessione delle menti che si realizza nell’universo digitale delle piattaforme, molto difficilmente – scrive Pozzi – i nuovi fenomeni politici (M5S, Brexit, Trump) avrebbero avuto il successo e l’efficacia che hanno dimostrato. USA e Regno Unito, che erano i baricentri permanenti dell’ordine geo- politico mondiale e occidentale, sono diventati gli epicentri dell’instabilità, determinando, con la loro stessa secessione, la fine dell’anglobalizzazione. Ai postulati di apertura globale, competenza e valutazione scientifica, fiducia e coesione patriottica, si sono sostituiti teoremi isolazionisti, negazionismi e ottimismo superficiale, sfiducia risentita e polarizzazione settaria. Discorsi che hanno contagiato anche le scelte sanitarie di quei paesi di fronte alla pandemia: mai interessati nella storia recente da simili disastri, sono tra i più colpiti”.

Apre la riflessione geopolitica Raffaele Barberio che dedica un lungo articolo alle relazioni Usa Cina e, tra globalizzazione e pandemia, alle guerre fredde e divisioni del mondo, osservando le differenze fra la vecchia guerra fredda USA-URSS e l’attuale conflitto fra Stati Uniti e Cina avviato dall’amministrazione Trump in particolare contro Huawey in cui la telefonia mobile di quinta generazione – ovvero uno standard da condividere su scala globale – è diventato il terreno di battaglia. Ma – chiarisce subito Barberio – è improbabile una radicalizzazione dello scontro: “la Cina è un mercato profittevole per gli Stati Uniti, dal momento che la sola Huawei nel 2019 ha speso 19 miliardi di dollari per acquistare componentistica dalle società americane. Bloccare questo flusso di relazioni commerciali, priverebbe le aziende americane di risorse importanti e avvantaggerebbe solo i concorrenti globali delle aziende americane”. Siamo insomma a parere di Barberio di fronte a processi irreversibili di interdipendenza che osa sbilanciarsi in alcune previsioni chiarendo che: “La ristrutturazione delle grandi supply chain e il ripristino di servizi e produzione industriale non fermerà la globalizzazione. Semmai la trasformerà. E la globalizzazione del futuro sarà inevitabilmente centrata nell’Asia orientale, che ha la metà della popolazione mondiale e vanta i tassi di crescita economica più alti del pianeta”.

Sugli stessi temi. Giuseppe Richeri, analizza punti di forza e punti di debolezza delle tecnologie digitali cinesi, destinate ad assumere un ruolo di primo piano sia per la modernizzazione e l’indipendenza interna sia per la conquista di una posizione di leadership internazionale. Il caso di Huawei è infatti paradigmatico del conflitto avuto con gli Stati Uniti e in particolare dei contrasti del colosso cinese delle telecomunicazioni con l’amministrazione Trump da un lato, ma anche dall’altro della dipendenza tecnologica della Cina dall’estero in particolare del ritardo cinese nei semiconduttori, nonostante il crescente peso assunto da Huawei nel mercato europeo. Per decenni gli Stati Uniti storicamente hanno dominato il campo dell’innovazione tecnologica sfruttando soprattutto le ricadute civili delle applicazioni messe a punto grazie ai grandi investimenti pubblici nell’industria bellica. Ma oggi devono constatare la presenza di altri protagonisti come Corea del Sud e Taiwan (provincia cinese politicamente autonoma) con cui mantengono stretti rapporti economici e militari. Vedono invece con preoccupazione la crescita della Cina in alcuni segmenti importanti (Intelligenza Artificiale, reti di tlc di nuova generazione, cloud computing, industria spaziale, ecc.) dell’attuale mappa del potere tecnologico globale. Le misure prese dagli Stati Uniti per arginare la penetrazione di imprese elettroniche cinesi hanno raggiunto un livello senza precedenti con l’amministrazione Trump”.

Proseguendo in questo numero le sue analisi sul caso americano, Arturo Di Corinto, partendo dal motore di ricerca di Google e dal suo sistema di navigazione Chrome in un pezzo ricco di esempi che non risparmiano nessuno, spiega le ragioni per le quali che definisce “l’oligopolio di Big Tech (e non delle Big Tech, come se si trattasse in realtà di una monade e non di un composito sistema di aziende e di App operanti in un libero mercato) sia ormai del tutto insopportabile, in assenza di sovranità dei dati, algoritmi e profilazioni destinati a produrre disinformazione: pilotata dai signori delle piattaforme proprietari dei nostri dati l’ignoranza digitale produce un feudalesimo digitale dividendo il mondo in due fra chi produce gratuitamente questi dati e chi li raccoglie e mette a frutto, un capitalismo estrattivo intorno al quale va steso un cordone sanitario che riassume nello slogan “Degooglizzare la vita” ovvero gestire i dati personali in maniera consapevole.

La risposta europea “dall’armonizzazione delle regole nazionali per i radiodiffusori all’adozione di regole europee [applicabili] alle piattaforme di attori extraeuropei” è al centro del contributo dell’ex presidente del Conseil Supérieur de l’Audiovisuel Michel Boyon oggi presidente di Eurovisioni che si sofferma sul valore dei due Regolamenti presentati dalla Commissione europea nel dicembre 2020, giudicati “due Atti fondamentali: uno per regolare i mercati digitali (Digital Markets Act-DMA) e l’altro per regolare i servizi digitali (Digital Services Act- DSA). Due regolamenti direttamente applicabili: il Digital Service Act con il compito di adeguare la normativa europea dell’Internet, che risale fondamentalmente al 2000 con la direttiva 2000/31, al nuovo contesto economico e tecnologico. Il Digital Markets Act con quello invece di adeguare le regole di concorrenza nel settore digitale dopo l’emergere di grandi operatori dominanti.

Su quest’ultimo tema, due esperti qualificati, Erik Lambert, coautore di Rapporti per la stessa Commissione e per il Parlamento europeo e Giacomo Mazzone, membro dell’European Digital Media Observatory (EDMO), incaricato di monitorare le fake news on-line in Europa, si soffermano sul secondo grande nodo da sciogliere, insieme al tema della tassazione: quello della responsabilità editoriale delle piattaforme, partendo dal principio che non sia più rinviabile un approccio normativo che preveda un Level Playing Field ovvero regole equivalenti fra queste piattaforme extraeuropee a vocazione globale e i media tradizionali soggetti alla Direttiva Servizi Media Audiovisivi. Per chiarire come regolamentare il cyberspazio Lambert e Mazzone ricorrono a tre dialoghi mutuati al Candido, o l’ottimismo, il racconto filosofico di Voltaire nel primo evidenziando insieme ai risultati ottenuti quali rimangano i limiti dei due Regolamenti, il secondo evidenziando la necessità di regolazione non solo dei mediatori tradizionali ma anche per individuare le responsabilità dei singoli individui, infine il terzo invitando giustizia e attori a censurare se necessario piattaforme contenenti messaggi incitati all’odio o all’assalto del Parlamento come avvenuto con l’assalto a Capitol Hill il 6 gennaio 2021.

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Segue nella seconda parte Stampa, informazione, comunicazione, istituzione e potere ai tempi del corona virus: infodemia, propaganda e disinformazione il Focus di approfondimento realizzato con varie figure vicine alla nostra associazione peraltro così diverse quali Massimo De Angelis, Stefano Rolando, Michele Mezza, Roberto Amen, Licia Conte, Andrea Melodia, Carlo Rognoni e Marco Mele. Nei loro articoli introduttivi al Focus, Massimo De Angelis da un lato, e Stefano Rolando dall’altro, cercano di tracciare quale sia lo stato rispettivamente dell’informazione e della comunicazione istituzionale.

Per Massimo De Angelis l’informazione è ormai “un genere in via di estinzione”, essendo stato inferto “un colpo mortale all’essenza stessa del giornalismo che è confronto fra opinioni diverse e pluralismo”. Privo di “un’opinione pubblica vigile e robusta che è la vera esclusiva dei sistemi liberaldemocratici […]  il “giornalismo”, è venuto da tempo indebolendosi a causa di molteplici fattori. Pensiamo alla precaria separazione dei poteri in Italia, alla commistione tra di essi, che ci ha fatto sempre assomigliare a un “regime”. Pensiamo alla lunga mancanza di alternanza al governo. Pensiamo più di recente alla concentrazione delle testate da un lato e all’ascesa della rete e dei suoi poteri dall’altro. Paradigmatico per De Angelis è il caso della pandemia: “L’informazione non […] ha inteso dar conto di questa varietà [di opinioni ndr] ma solo della verità “ufficiale”, quella cioè via via accolta e promulgata dal governo. Con un’evidente e preoccupante torsione autoritaria”. Da “cane da guardia della società civile” la nuova informazione autoritaria prenderebbe secondo De Angelis le sembianze di “cane poliziotto del potere” Con conseguenze che investono il tema della sovranità e dell’opinione pubblica: “Occorre comprendere che sovranità e opinione pubblica libera sono due facce della stessa medaglia. Quella che consente di sentirsi padroni del proprio destino; di sentirsi liberi e non schiavi. Ecco ci vorrebbe quanto è più lontano dall’esistere: una vera opinione pubblica europea, supportata da una vera informazione europea libera e plurale, riferimento di una governance europea in cui tutti possano davvero riconoscersi”.

Quanto alla comunicazione pubblica Stefano Rolando la pandemia ha evidenziato l’assenza di un’idea strategica che consenta alla situazione italiana di uscire da ristagno e propaganda. Condizionata in questi mesi “tra task force occasionali e invasioni di campo dei comunicatori e dei gruppi di pressione”, la comunicazione pubblica necessita di sperimentare quelle che Rolando individua come quindici funzioni strategiche che costituiscono altrettanti ambiti da considerare materia di discussione nel quadro europeo. Riprendendo le conclusioni di un Rapporto per il CNEL del 1995 che – ricorda – “portò cinque anni dopo al varo della prima normativa di ordine generale che un paese europeo tentava sulla materia”, Rolando invita a “valutare e colmare il ritardo italiano nell’immaginare, con visione complessiva, la necessità di trasformazione” partendo dai cinque principali punti allora individuati, ovvero 1) legittimazione della funzione pubblica di comunicare al cittadino, 2) funzione di ridurre il carattere oscuro delle leggi e il carattere mal accessibile dei servizi, 3) uguaglianza ei cittadini nel trattamento informativo da parte delle fonti istituzionali, 4) superare ogni forma di propaganda ovvero fornendo conoscenza accertata nel presidio del miglioramento reputazionale delle istituzioni e, infine, 5) nel saper cogliere le opportunità dell’evoluzione tecnologica in atto, ovvero fornite da quella che allora si chiamava società dell’informazione. Ad essi Giuseppe De Rita aggiungeva. Nel 1999 la specificità di una sesta funzione quella di spiegazione pubblica di fronte alla complessità delle società moderne ovvero dotando la comunicazione pubblica di uno sforzo interpretativo che la contraddistingua dalla sua funzione di “pura pubblicità o di semplice divulgazione di norme”. Da qui è possibile ripartire.

Nel suo lungo pezzo “Lo spillover del giornalismo” Michele Mezza invita a “riprogrammare le intelligenze dell’informazione” partendo dall’irruzione nelle redazioni della cibernetica negli anni Ottanta e dall’ondata di ristrutturazioni prodotta in questi mesi dalla pandemia con conseguente “surriscaldamento della scena multimediale”. “Ora siamo al terzo, e ancora più radicale passaggio: i giornalisti diventano cavie per sperimentare l’automatizzazione di discrezionalità non lineare, dove la scelta e il gusto diventano calcolo.[…] La misurabilità computazionale è la nuova ideologia, la vera tecnicalità, che dà sostanza ad ogni relazione sociale, dunque anche all’informazione. Conseguentemente il motore professionale del giornalismo diventa oggi la potenza dei big data, e il corredo di intelligenza artificiale che li raccoglie e li analizza all’interno delle piattaforme che muovono le informazioni. Il giornalista in questo mondo della misurabilità permanente è un puro snodo della catena del valore. Un passaggio, certo ancora sensibile, nella circolarità di un’informazione che diventa credibile solo se calcolabile. Solo rovesciando questo assioma, e fondando la capacità di governo del processo computazionale […] in un diverso legame fra realtà e calcolo basato sull’idea che è certo quel che è vero, ed è vero quel che posso verificare”. Dal giornalista autoriale passiamo al grafo, ovvero chi descrive “il tragitto connettivo di un contenuto, punto a punto, nella rete, che, trasferendosi, si modifica secondo le modalità del movimento e le forme del suo processamento dinamico”. Un fenomeno secondo Mezza irreversibile: Con l’irruzione in redazione dell’intelligenza artificiale, i giornalisti si trovano immersi in un plancton di big data e algoritmi che si alimentano reciprocamente in un gorgo di processi automatizzati, con quote di creatività del software non banali, come appunto sono la selezione, l’elaborazione e la personalizzazione dell’offerta giornalistica per ogni singolo utente, in ogni singolo minuto della giornata. Una situazione dove i principi ordinatori della produzione – in sostanza la riduzione dell’abbondanza di informazione ad una quantità finita, impaginabile in una versione cartacea o digitale – sfuggono completamente alla padronanza e alla competenza del profilo redazionale”. Ne consegue che “Il grafo oggi è la figura e la relazione che riorganizza le procedure professionali del giornalismo, modellizzando funzioni, atti, movimenti e saperi del tutto inediti rispetto alla tradizione del mestiere per come lo abbiamo conosciuto in passato” mentre la piattaforma diventa quella che Mezza definisce “la zecca della moneta informazionale” favorendo l’emergere della figura del social timing manager che “non deriva né da esperienze giornalistiche né da logiche editoriali, ma direttamente dalle pratiche di esecuzione degli stilemi algoritmici. Una figura che, per riprendere la distinzione iniziale, tende a chiedersi solo come postare e non perché postare in quel momento e su quella piattaforma”. La redazione diventa così sempre più un hub, una stazione di smistamento, dove il momento magico è dato dalla coincidenza che si coglie fra attenzione e contenuto. Un’attività composita più che collettiva, dove progressivamente vengono abilitati sempre più utenti, con la regia della piattaforma che promuove e valorizza i contenuti cliccabili. Una logica che – conclude Mezza – appare molto prossima alla logistica computerizzata di Amazon più che alla sensibilità letteraria di un ceto professionale esclusivo”.

Per Roberto AmenLa prima cosa che deve fare un giornalista è sciogliere, con estrema sincerità, questo nodo, per determinare, come condizione preliminare, il proprio atteggiamento etico di testimone della realtà. Specularmente però questo atteggiamento deve averlo fatto proprio anche il destinatario delle news: il lettore, spettatore, fruitore di quelle notizie. Senza questa simmetrica, indispensabile precondizione, lo scambio tra i due poli del circuito non funziona come dovrebbe”. Amen non nega in toto lo scenario decritto da Michele Mezza né le conseguenze determinate dalla dittatura delle piattaforme descritte da Shoshana Zuboff ne Il Capitalismo della sorveglianza, ma ritiene che “si possono utilizzare, in maniera preventiva, gli stessi strumenti di mercificazione dell’informazione, per risalire la filiera della loro origine e difendersene. Ci sono molte iniziative di siti che cercano di contrastare le fake e ci auguriamo che si moltiplichino e che possano disporre di tecnologie adeguate, considerando che i produttori di falso di risorse ne hanno in abbondanza”. Vi è dunque un rimedio all’informazione piattaformizzata: quello che Amen chiama “la presenza fisica del giornalista per respirare l’aria che tira e smascherare dal vivo le distorsioni dei fatti reali e le congetture che alimentano le bufale […] Mentre il metodo di truffa del fishing si basa su un dato statistico che prevede di imbrogliare solo i più sprovveduti (faccio mandare da un robot cento mila mail in cui chiedo di fornire alcuni dati sensibili e comunque prendo pochi pesci), l’uso scientifico della fake, garantisce un’inversione del rapporto, e promette che nella rete ci rimanga il grosso del pesce, non solo i più ingenui e sprovveduti. Va dunque ricercata un’informazione pulita a tutela del consumatore contro l’esplosione di prodotti indigeribili e l’infodemia indigesta. Come avviene per l’alimentazione “Così faremo per le notizie – conclude Amen –  pretenderemo di consumare solo quelle certificate, quelle garantite dal controllo attento della filiera. O, in altre parole, le bionotizie”.

“La relazione tra gli umani può  essere benefica e persino amorevole, ma anche infida e pericolosa. La comunicazione può agevolare sia l’una che l’altra tendenza” – chiarisce subito  Licia Conte che rimane convinta che sia possibile la sopravvivenza di un “giornalismo indipendente mentre tutto scorre e tutto cambia”. A parere della Conte “fiuto e intuito valgono ancora nell’era dei big data e del corredo di intelligenza artificiale che li raccoglie” Ho continuato a pensare tenacemente, e forse anche testardamente, che una comunità nazionale ha bisogno di un luogo in cui depositare la memoria di sé e la propria identità; un luogo dal quale pensare istituzioni democratiche forti per il nostro Paese e per l’Europa; un luogo nel quale accogliere per farlo accogliere nelle nostre società il soggetto donna, ‘pari e differente’; un luogo di costruzione delle molteplici identità che via via andiamo assumendo; un luogo che ci restituisca sempre la nostra lingua, ma che ci aiuti a parlare, e a pensare nonché a sognare, da europei. […] . Se il giornalismo come fino a ora lo abbiamo conosciuto è morente, occorre trovare il modo di farlo rinascere. Per Licia Conte si tratta in primis di “Impedire ai padroni della Rete di togliere la parola a un presidente in carica malgrado la profanazione del Parlamento. Perché non è mai troppo tardi per costruire una piattaforma promossa dalla comunità nazionale in grado di certificare l’autenticità delle notizie”. Compito primario del Servizio Pubblico sarà quello di certificare l’autenticità delle notizie. Tanto tempo fa si diceva ‘l’ha detto la radio’, e si intendeva: dunque è vero. […] Il Servizio Pubblico dovrà avere palinsesti accattivanti e ricchi. E dovrà essere quel deposito di memorie, amore e rispetto per le istituzioni, identità molteplici e sogni, nei quali la comunità nazionale possa riflettersi e riconoscersi.

Su questa stessa linea, in chiaro dissenso da Michele Mezza, Andrea Melodia invita a “Rideclinare il trittico di John Reith “Informare, educare, intrattenere ai tempi della rete e della pandemia”. Per un servizio pubblico come la Rai occorre “Ritrovare qualità, rilevanza, utilità sociale e un giusto equilibrio tra i tre macro-generi tradizionali. [..]. La sua regolamentazione, nel difficile perseguimento dell’equilibrio tra libertà individuali e bene sociale, è un problema dei poteri pubblici che richiede con evidenza un approccio sovranazionale. Non è colpa solo di Twitter o di Facebook se questa regolamentazione non viene implementata, e nel complesso credo che possiamo solo ringraziare queste piattaforme se in assenza di regole pubbliche cercano di darsele da sole, come è avvenuto dopo l’assalto a Capitol Hill, ricevendone critiche, rifiuti e perdite di valore. Ringraziarle, ma non certo rinunciare a pretendere che esse vengano regolamentate. In dissenso con altri amici, Melodia conclude: “Non mi sembra molto utile, in questa situazione di crescita  convulsa dei media e del loro ruolo sociale, insistere ancora su una presunta carenza di pluralismo, come alcuni amici sostengono. È vero, prolificano le aggregazioni comunicative che si chiudono nelle proprie convinzioni e rifiutano ogni forma di dialogo. È vero, persino nel servizio pubblico ci sono esempi chiari di partigianeria. Ma questa malattia sociale non si combatte cercando di contrapporre voci dissonanti, bensì praticando cultura, dibattito, inclusione e naturalmente combattendo le cause strutturali della frammentazione sociale, come il mancato accesso paritario alla educazione e alla giustizia economica”.

Su un altro registro l’intervento di Carlo Rognoni “Prima che sia troppo tardi: due nodi da sciogliere”. Di fronte al persistente conflitto fra Stato centrale e Regioni,  dopo aver esaminato i casi di Lombardia e Veneto alle prese con modelli diversi di cura della pandemia invita da un lato a favorire incentivi a favore di un fondo vincolato all’assistenza domiciliare. Il secondo grande nodo che Rognoni invita a sciogliere, è quello dall’altro,  in grado di individuare “come proteggersi dall’infodemia e garantire il diritto ad un’informazione corretta”: mentre governi democratici usano divieti e restrizioni per fermare l’avanzata del virus, ci sono democrazie illiberali e regimi autoritari che usano la pandemia per zittire gli oppositori. E questo sta accadendo anche in Europa (vedi Ungheria e Polonia). Per l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha messo in guardia vari paesi a non usare il pretesto della pandemia per violare i diritti umani. “L’emergenza non dev’essere un’arma dei governi per reprimere il dissenso, controllare la popolazione e difendere i poteri acquisiti”. Durante la pandemia in gioco non c’è solo la salute e la sicurezza, ma anche il diritto a una informazione corretta, giusta, credibile, controllata”.

Conclude il Focus di approfondimento Marco Mele che, analizzando “la riorganizzazione dei gruppi editoriali nell’era dell’ingegneria dell’informazione”, appurata la “fine della vecchia fabbrica delle notizie”, dopo aver rievocato le “ombre del passato” e “la ricerca disperata dell’editore puro”, si sofferma sulle “novità dei finanzieri del 2020”. Per Mele “La questione principale oggi, per i media e i mediatori, per gli editori e per i giornalisti, è la moltiplicazione siderale delle fonti e dei soggetti che le utilizzano e, contemporaneamente, la diversificazione dei ruoli e delle professionalità con le nuove “fortezze” dei dati e della capacità di elaborarli e renderli “leggibili”.[…]  Si sono scoperti i giornalismi, i siti on line hanno presto rotto il cordone ombelicale con la versione di carta, hanno ingerito e masticato quantità industriali di dati, di notizie vecchie e nuove, hanno messo in piedi archivi, utilizzato in grande abbondanza foto e video. Con le notizie modificate in corso d’opera, 24 ore su 24. Altro che orario di lavoro su cinque giorni a settimana, altro che settimana “corta”. Altro che contratto. […] All’azienda editoriale, chiamiamola ancora così, servono mestieri e soggetti differenziati, figure che lavorino insieme in team ma ciascuna con proprie competenze specifiche”. Mele è d’accordo con Michele Mezza: E’ la fine dichiarata dell’esclusività del lavoro giornalistico nel processo di produzione dell’informazione, dopo anni di delegittimazione tra veline, interviste “sdraiate”, titoli urlati, ma anche di giornalisti minacciati, intimiditi, uccisi mentre facevano il loro lavoro. Tra Scilla e Cariddi – conclude Mele – lo spazio per una fabbrica delle notizie con professionisti qualificati appare sempre più stretto”.

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La terza parte di questo primo numero di Democrazia Futura,, vuole essere uno spazio “A più voci” di analisi e di confronto ovvero una sorta di “Rassegna di varia umanità”, dedicata a due temi di attualità. In questo primo numero del 2021 non potevamo peraltro che soffermarci su quanto avvenuto negli ultimi mesi negli Stati Uniti da un lato, e su come la pandemia sta contribuendo ad accelerare la trasformazione delle grandi industrie dell‘immaginario a cominciare dal cinema e dalla fiction, alla luce della chiusura temporanea delle sale cinematografiche e degli altri luoghi di fruizione del teatro, della musica e più in generale dello spettacolo dal vivo e dei beni culturali e museali.

Giampiero Gramaglia apre il dossier “Della democrazia in America dopo il 6 gennaio 2021. Un paese diviso in due. Lo spettro della guerra civile?” descrivendo i primi passi della nuova amministrazione Biden insediatasi il 20 gennaio 2021 dopo la cerimonia di proclamazione e il giuramento del nuovo presidente in quello stesso a Campidoglio che aveva conosciuto due settimane prima l’assalto suprematista, evidenziando l’intenzione di Joe Biden di “rottamare” rapidamente, laddove possibile nei primi dieci giorni, i provvedimenti adottati dall’amministrazione precedente di Donald Trump.

Segue Guido Barlozzetti che in una reazione scritta a caldo come post su Facebook che abbiamo ripreso descrive l’Assalto a Capitol Hill come se fosse un film da recensire, giudicandolo “una pagina nera indimenticabile e che non va rimossa”: “Per quanto fosse una folla numerosa e irruente nell’assalto, non sappiamo quanto possa essere considerata rappresentativa di una società, e tuttavia – prosegue Barlozzetti – resta il fatto – irreversibile – che un’Istituzione-simbolo è stata violata e che quell’esercito che riempiva corridoi e sale, scalinate e aule, non ha avuto scrupolo di calpestare un insieme di valori che degli Stati Uniti sono fondanti, come di tutta la tradizione politica che dalla Costituzione americana ha preso il via, ancor prima della Rivoluzione Francese del 1789. No al confronto e alla discussione, bypassate regole e principi, quella gente solo per il fatto di essere lì e di tracimare dentro il Campidoglio – chiarisce Barlozzetti – dimostrava la sua estraneità a una concezione della politica, stava oltre, dove le regole non contano e – come accadeva nel West – ci si fa giustizia da soli, si va all’assalto e si distrugge quello che è diventato un avversario con cui si rifiuta ogni dialogo – conclude Barlozzetti -, e poco importa se il no alla ratifica dell’elezione di un presidente fa tutt’uno con quello che nega il sistema stesso che lo ha eletto”.

Per parte sua Bruno Somalvico nel suo pezzo “Della Democrazia in America 185 anni dopo l’analisi di Tocqueville” dopo aver ricordato come gli Stati Uniti abbiano “rappresentato il punto di riferimento per le nostre democrazie occidentali negli anni della Guerra fredda non solo e non tanto da un punto di vista politico quanto dal punto di vista dei valori e delle tendenze veicolati attraverso i media e per molti anni il grande cinema hollywoodiano, ha permeato il nostro immaginario collettivo sino a scalfire persino le culture politiche di una sinistra decisa, chi prima chi dopo, a rompere con l’Unione Sovietica e i suoi alleati”, ripercorre brevemente la storia delle amministrazioni americane negli ultimi tre decenni, da quelle di Bill Clinton e di George Bush jr. a quelle di Barack Obama e Donald Trump, soffermandosi poi sull’ultima campagna elettorale e sugli eventi più recenti dalla vittoria di Joe Biden il 3 novembre al suo insediamento alla Casa Bianca osservando in conclusione: “I prossimi mesi ci dovrebbero chiarire se la marcia indietro di Biden il rottamatore verso i capisaldi che avevano contraddistinto la Presidenza di Barak Obama si sarà rivelata adatta per normalizzare la situazione sul fronte dell’ordine interno e rilanciare la stella degli Stati Uniti nel nostro mondo globale o se proseguirà la guerra civile strisciante con l’eventuale scardinamento del tradizionale bipartitismo statunitense e la nascita alla destra del partito repubblicano di un partito sedicente patriottico trumpiano intenzionato a scardinare la democrazia politicamente corretta obamiana di cui Biden – come osserva Gramaglia – sembrerebbe volersi proclamare l’erede”.

Il dossier si conclude con un confronto a più voci “Cinque domande sul futuro degli Stati Uniti d’America” rivolte da Bruno Somalvico ad alcuni amici colleghi ed esperti collaboratori di Democrazia Futura alle quali hanno risposto Massimo de Angelis, Antonio Di Bella, Giampiero Gramaglia, Erik Lambert, Giacomo Mazzone, Andrea Melodia, Gianfranco Pasquino, Carlo Rognoni e il giornalista e massmediologo italo americano Dom Serafini, che ringraziamo vivamente. Ne emerge un quadro di giudizi molto articolato, con diverse interpretazioni relative ai cinque argomenti affrontati, inerenti alla crescita del divario fra élite e popolo, la natura particolare del sistema elettorale statunitense, l’impatto della globalizzazione sul centro e sulle periferie, il presunto venir meno di alcuni principi fondamentali e le conseguenze della “marcetta sul Campidoglio” sulla società americana dei prossimi anni. Qualunque siano le risposte sui singoli punti, tutti sembrano confermare che la crisi che investe gli Stati Uniti d’America confermi la sua profonda spaccatura in due, mantenendo sullo sfondo quello spettro di una guerra civile che 156 anni dopo la fine della guerra di secessione conclusasi nel 1865, non è mai stato completamente debellato e come tale sembrerebbe destinato a rimanere intatto nelle coscienze dei cittadini statunitensi ancora per molto tempo.

Il secondo confronto A più voci è dedicato al tema Covid-19 e industria dell’immaginario: quali conseguenze. In apertura sempre Guido Barlozzetti, ma ora nella sua veste di critico ed esperto cinematografico, dedica un vero e proprio mini saggio a quella che intitola “La scomparsa del cinema e la diaspora dei filmdurante la pandemia. “Il Cinema non c’è più” – chiarisce subito Barlozzetti. Non esiste più né come “ciclo dalla produzione alla distribuzione sino al consumo in sala”, come lo era stato dagli anni Trenta sino agli anni Sessanta, né come specifico che ne faceva risaltare la differenza nel tempo della televisione, come grande schermo rispetto al piccolo schermo. “il Cinema ha mantenuto a lungo l’egemonia nel sistema fino a quando ha dovuto ricontrattarla con un nuovo competitor, la televisione”. Oggi invece in un “sistema sempre più globalizzato e integrato”. “Grandi player a dimensione internazionale, lavorano su tutta la filiera dei contenuti, producono film e fiction per pubblici di tutto il mondo. Diversificano, pianificano e distribuiscono secondo un timing che può variamente articolarsi dalle sale, alla televisione e, novità sostanziale, al video on demand, con milioni e milioni di abbonati distribuiti a tutte le latitudini. Non esistono più le case di produzione a monocultura industriale cinematografica, se portano ancora nomi che furono mitici, grandi conglomerate le hanno assorbite e debitamente riconvertite al proprio interno. E un film è diventato un concept trasversale, tale da essere sfruttato su un arco di occorrenze che si incastrano con i più diversi comportamenti della quotidianità, dall’editoria all’abbigliamento, dalla nuova industria dei giochi elettronici ai gadget e ai giocattoli. Per non parlare del nuovo prolungamento sui social network, terminale per un verso, accompagnamento e miniera di un fandom che non riguarda solo i film, ma anche e soprattutto un’ondata inesauribile di prodotti di intrattenimento non solo nel campo dell’audiovisivo, che in questo perimetro in espansione trova un’alimentazione potente nelle serie della fiction”. Oggi la forza propulsiva viene dalla serialità. Già prima dello scoppio del Covid-19 “la sala buia era già uno spazio-tempo residuale”. Dopo lo scoppio della pandemia si chiede se “dobbiamo cominciare a pensare a un’irreversibile mutazione antropologica dello spettatore, sempre più domestico e variamente disponibile […]. Durante la Seconda Guerra Mondiale la gente usciva e andava al cinema, non si rintanava in casa ma aveva bisogno dell’intimità collettiva della sala buia e dell’evasione nell’immaginario che prometteva. Con la dittatura drammatica del Covid-19 è accaduto il contrario: la gente, le famiglie, gli individui sono stati obbligati a vivere in casa e la via di fuga, l’apertura nella reclusione è venuta dal mezzo di comunicazione più diffuso, ovviamente nella nuova collocazione che gli è toccata [con] la convergenza e dunque nella ristrutturante relazione con internet e con un dispositivo multimediale che ha spalancato le case su flussi e cataloghi immensi di contenuti, sempre più a pagamento”. Per parte sua un autore cinematografico e televisivo come Claudio Sestieri si chiede come sia possibile “recuperare un rapporto fra spettatore e sala”. Parafrasando la celebre frase dei fratelli Lumière ripresa da Jean-Luc Godard nel 1963 “Il cinema è un’invenzione senza futuro”, Sestieri si chiede al contrario se “il cinema è un’invenzione che ha ancora un futuro?”. Dopo aver qualificato il Covid-19 e l’azzeramento dello spettacolo in presenza “una reincarnazione maligna di Proteo”, Sestieri contesta l’idea sia destinato ad essere “necessariamente sigillato in una cassa”: “al di là della eccessiva retorica sul rito collettivo della sala (in realtà anche in un cinema pieno un cinefilo è solo di fronte ai fantasmi che insegue il suo sguardo), non è escluso che, superata la fase della pandemia, possa di nuovo riaccendersi il desiderio della più classica, storica, specifica forma di visione del cinema […] quella che implica il rapporto tra buio e luce, tra spazio e individuo, tra percezione e il flusso continuo, mai interrotto del percepibile”.

Una nota di ottimismo viene dall’articolo di Piero de Chiara che invita a “Guardare oltre il monopsonio delle piattaforme OTT”, proponendo “Un modello Ginevra per l’industria creativa europea”. La buona notizia è che l’industria audiovisiva è “un settore per chi opera su scala mondiale ancora in crescita”. La cattiva notizia è che tale partita non è alla portata di imprese e nazioni di dimensioni medie. Di qui l’invito alle tv commerciali a “sganciarsi dai confini linguistici” in cui continuano a rimanere prigioniere e a “creare un polo europeo che offrirebbe agli investitori il maggior numero di contatti pubblicitari in quello che è, per ora, il più grande mercato del mondo”, al servizio pubblico a perseguire un “finanziamento collegato a obiettivi misurabili”, in primis la coesione sociale e la diversità culturale. De Chiara considera che la “frantumazione sociale, che riflette e amplifica l’aumento delle diseguaglianze, è il principale problema dei paesi democratici”. Per questo un “’indice di coesione sociale può servire a valutare gli investimenti realizzati attraverso fondi pubblici”. “Il secondo problema che la sola iniziativa privata non risolve ma aggrava è la diversità culturale, intesa sia come contributo di diverse culture linguistiche, sia come autonomia ed equa remunerazione dell’attività creativa. La diversità culturale necessita di una politica industriale pubblica sovranazionale, con obiettivi realistici e adeguati investimenti di lungo periodo [il che] può essere perseguito “attraverso la valorizzazione di un marchio europeo”. In conclusione perora la causa di “un’azienda comune europea dotata di una propria piattaforma e potenza di calcolo condivisa […] Per inventarsi un suo spazio, una impresa europea dovrebbe non solo individuare un target mondiale aggredibile tra cultura e intrattenimento, ma proporre ai suoi fornitori un modello diverso da quello americano e cinese: condivisione dei dati e messa a disposizione di algoritmi e di potenza di calcolo, affinché i produttori, gli autori e le maestranze possano fare prodotti sempre migliori e ambire a una maggiore quota dei ricavi. Una dimensione europea per negoziare le regole di accesso alle piattaforme e ai dati, verso un modello produttivo e distributivo equo e sostenibile”.

Completano il dossier tre contributi di Paolo Luigi De Cesare, Silvana Palumbieri e Francesco Siliato.

Nel suo articolo “Nuovo cinema pugliese, istruzioni per l’uso” Paolo De Cesare analizza “vizi e virtù di un modello di promozione del territorio” diventato un fattore critico di successo. La comicità pugliese diventa un ”fattore industriale”, nascono nuovi comici innescando un ciclo meritocratico. De  Cesare torna sul ruolo strategico esercitato nei territori delle Film Commission e sull’importanza di finanziare anche quelle che non possono essere annoverate come Piccole e medie imprese. In conclusione De Cesare sottolinea come L’audiovisivo italiano e quello europeo hanno bisogno di un grande recupero di competitività internazionale. C’è bisogno di tutti, anche delle Film Commission e dei Film Fund regionali. Ma occorre urgentemente un’armonizzazione. […] Tra i sostegni nazionali predefiniti e non occasionali alle Film Commission ci potrebbe essere anche la RAI? O essere la Rai co-protagonista di Poli Regionali dell’Audiovisivo? Lo stato attuale è che su diciassette Film Commission aderenti al coordinamento nazionale ben dodici sono Fondazioni di Partecipazione di diritto privato, non avrebbero quindi divieti istituzionali a entrare in quota nei film o partecipare a nuove Fondazioni o Consorzi” […]. Armonizzare e fare sistema è ancora urgente|”.

Per parte sua Silvana Palumbieri affronta il tema delle trasformazioni dei generi nell’industria dell’immaginario raccontando “La fantascienza in TV che non si produce più”.  Si tratta di un “genere non di pura evasione, ma sempre legato a un’interna pressione di fondamentali problemi etici e sociali. Non un mondo di pura fantasia – chiarisce la Palumbieri -, bensì uno strumento per muovere gli animi, per invitarli a essere presenti su tante questioni. Come il rapporto con la tecnologia, il pacifismo, il rapporto col diverso che viene da altrove, il cruciale interrogativo sull’essenza del viver umano, la vita da vecchi in una società dominata dalla produttività, la radioattività distruttrice dell’ambiente, l’apocalisse planetaria per armi batteriologiche, le sperimentazioni scientifiche che provocano disastrose conseguenze, le deflagrazioni della bomba atomica con la fine di ogni forma di vita sulla terra. Veniva così sostenuto l’impianto sociale del servizio pubblico. Le trame del racconto di fantascienza – chiarisce la Palumbieri – sono strade non calcate, singolari svolgimenti e modi di narrare. Come vivere inseriti in tecnologie future, mettere in conto la presenza di androidi nella vita quotidiana, prender contatto con diverse forme di civiltà in altri pianeti, intraprendere lunghi viaggi nel passato, nel futuro e nello spazio cosmico, poter, pensare a robot carichi di sentimenti umani. E rappresentare queste situazioni nelle forme dell’utopia, distopia, ucronia.

Francesco Siliato analizza infine “un anno vissuto davanti alla Tv”. Dal confronto fra Corona virus e consumi mediatici emerge il picco di ascolti su Rai Uno alla Mezzanotte di Capodanno con 13,7 milioni di persone (e uno share del 55,7 percento) sintonizzate sulla rete ammiraglia della Rai. “Il televisore è in questo caso utilizzato da segnale orario, per essere certi di brindare a mezzanotte, non prima e non dopo e, certi di non essere gli unici a farlo, di brindare allo stesso momento con la propria comunità nazionale. Per essere certi di questo ci si sintonizza sulla prima rete del servizio pubblico, un chiaro, intuitivo segnale di quale sia la percezione del popolo della tv e di dove si vada a cercare la coesione sociale”. Lo precede solo il messaggio a reti unificate del presidente della Repubblica Sergio Mattarellaseguito da un media di 15,2 milioni [per una quota d’ascolto del 64,7 percento”. Ma il dato più eclatante riguarda le dieci trasmissioni più seguite del 2020, tutte segnate, fatta eccezione della benedizione Urbi et Orbi di Papa Francesco all’inizio della pandemia, da Dichiarazioni del presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte, anche a reti unificate. L’informazione torna al centro dei consumi. Crescono gli ascolti delle sette testate nazionali generaliste e in valori percentuali soprattutto quelli dei TG Regionali trasmessi dalla terza rete Rai e il TG3 con incrementi superiori al 30 percento.[…] “In conclusione è possibile sostenere che il servizio pubblico è ancora in gran parte riconosciuto come fonte primaria, autorevole e istituzionalmente riconosciuta, soprattutto la prima rete”.

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Non mancano infine, nella quarta e ultima parte, le “Rubriche” senza le quali, noi antiquati e nostalgici di quelle che un tempo si chiamavano le Terze pagine nei quotidiani e per l’appunto le Rassegne di varia umanità o ancora le “stroncature” nelle riviste filosofiche, o in quelle letterarie, non potremmo vivere. “Non pezzi sciolti in qualche modo dispersi e atomizzatile conseguenze dell’a nella liquidità della scrittura elettronica convenzionale ovvero soggetti alle regole e ai tag un po’ dittatoriali e omologanti imposti da tanta, troppa editoria elettronica, ma vero tessuto connettivo fra i vari numeri della rivista”. Così l’avevamo definite nel numero zero.

Iniziamo con Visti da Vicino che propone un breve ritratto da parte di una giornalista femminista di quello che definisce “un grande scrittore molto spiritoso, grande viaggiatore, amante e studioso della letteratura inglese”: Licia Conte ricorda “Quando il dissacratore Giorgio Manganelli neo-avanguardista del Gruppo 63 mi impose di rileggere I Promessi Sposi […].Quella volta fu severo con me – ricorda – e, io, colta in flagrante di un peccato di trascuratezza nei confronti del nostro grande scrittore, balbettai qualcosa. Rilessi i Promessi Sposi  capii: grazie caro Giorgio”.

Nella stessa rubrica un regista e sceneggiatore formatosi nella boutique di Carlo Rambaldi e Riccardo Paladini, Lucio Saya, autore della copertina e della quarta di copertina di questo fascicolo, rievoca tra il serio e il faceto tre scambi di battute avuti con “Sua grandezza Gigi Proietti” come lo definisce ricordando una sua celebre frase: “E’ importante essere attore, non fare l’attore”. “Non avevo ancora visto un Gigi “drammatico”. Poi nel 2017, era di luglio, si presentò l’occasione. […] “Ma non ti vergogni ogni tanto 5 minuti … solo 5 minuti, di fare sempre tutto esaurito?!”  Proietti “Si mise a ridere e rispose: “Qualche volta” poi scendendo di un paio di ottave e con tono confidenziale: “Però fa piacere!”

Segue nell’Almanacco d’Italia e degli italiani un ricordo di una storica dei movimenti sociali, Maria Grazia Meriggi, di “Giorgio Galli, decano della scienza politica e testimone della storia repubblicana” di cui sottolinea “L’attenzione per i punti di vista delle minoranze e all’spirazione alla giustizia sociale e all’eguaglianza”. Dopo aver ripercorso a grandi linee la sua lunga attività di scienziato della politica iniziata nel 1953 con una storia molti eterodossa del Partito Comunista italiano, Meriggi si sofferma sull’ultima opera Anticapitalismo imperfetto, in cui Giorgio Galli, poco prima della sua scomparsa, “suggerisce di riflettere come la crisi pandemica abbia allargato a dismisura il potere sia del complesso chimico farmaceutico che di quello della comunicazione mentre i pubblici poteri, messo in crisi dal salasso dell’ormai lungo trentennio di privatizzazione dei servizi, sono stati impotenti alimentando quindi in un pubblico sconcertato e abbandonato a sé stesso le letture complottistiche più pericolose. Insomma un intellettuale riformatore con i suoi peculiari strumenti ci ha richiamati fino all’ultimo alla necessità di risposte radicali a una pericolosa crisi di democrazia”.

In Riletture il direttore di Mondoperaio Luigi Covatta commenta il Rendiconto, saggio testimonianza scritto nel 2001 da Claudio Petruccioli, di cui La Nave di Teseo ha pubblicato una riedizione con un’ampia nuova prefazione dell’autore. Per Covatta la svolta della Bolognina è paradigmatica di quella che chiama la “parabola della sinistra italiana” segnata per l’appunta da “L’illusoria Exit Strategy del PCI di Achille Occhetto” di cui Petruccioli fu uno stretto collaboratore: “Era ovviamente opportuno liberarsi dalle filosofie della storia e convenire che il fine è nulla e il movimento è tutto: ma per “uscire” bisognava lasciarsi alle spalle non la fede nel “fine”, bensì proprio il peculiare modo di essere “movimento” del comunismo italiano. Bisognava lasciarsi alle spalle, cioè, il “partito nuovo” creato da Togliatti: una creatura concepita per conciliare la piena partecipazione al regime democratico – le cui regole, fra l’altro, si contribuiva a definire – con la risorsa rappresentata dal legame di ferro con l’Urss. Un’operazione acrobatica che non riuscì né ai comunisti francesi, né – drammaticamente – ai greci: e che riuscì a Togliatti anche grazie alla peculiarità della transizione dal fascismo alla democrazia che si verificò in Italia. […] Ovviamente, non è colpa di Occhetto (e men che meno di Petruccioli) se la prima Repubblica è crollata. – prosegue – : “E’ colpa semmai dei loro predecessori averla puntellata in ogni modo anche quando – nel 1956, nel 1968, nel 1978 – c’erano le condizioni per governare una transizione che durava dal 1943, pur di non mettere a rischio la preziosa eredità togliattiana”.

Segue un lungo pezzo di Fabrizio Ottaviani “L’ultimo dispositivo di trama e il fattore M.”per le Cronache webletterarie del Bel Paese, che – facendo riferimento non solo alla trilogia avviata da Antonio Scurati ma anche ad altre opere curate da Gianfranco De Turris, Igor Patruno e da ultimo sul versante del giornalismo da Bruno Vespa – ci spiega “Perché raccontare il Duce, le sue gesta e i suoi discorsi rimane garanzia di successo letterario”: “A differenza del mondo tedesco, dove il nazismo ha subito prima una rimozione, poi negli anni Sessanta un’elaborazione del lutto forzata, infine una neutralizzazione prodotta dal trionfo della società postmoderna, e dove tutto è stato collettivo, in Italia – chiarisce subito Ottaviani – il fascismo è una questione di famiglia e come tale ha saputo trovare i suoi adepti postumi fra le foto in bianco e nero incollate allo specchio e qualche cimelio arrugginito nei cassetti. La seconda spiegazione chiama in causa una nostalgia di tipo diverso, qualunquista ed esteriore, legata agli aspetti superficiali del regime di Mussolini. Sarebbe facile osservare, per esempio, che nelle librerie piovono romanzi storici ambientati anche durante l’età giolittiana, nel secondo dopoguerra, al tempo dei mille di Garibaldi ecc. e che dunque, statistica a parte, la propensione al vintage non ha colore politico e in essa l’ideologia gioca un ruolo secondario. Nostalgici oggi di Benito Mussolini, domani di Iosif Stalin, dopodomani di chissà chi. E tuttavia lo Strega l’ha vinto un’autobiografia mentale immaginaria di Mussolini, non di Francesco Crispi. Un terzo modo di avvicinare il tema potrebbe alludere all’inclinazione maledettista per l’innominabile al gusto di giocare con il proibito e con il politicamente inaccettabile. Una pulsione che brontola in quei tentativi di ristampare opere di autori legati ai regimi più disgustosi, e magari ai loro momenti peggiori, con il pretesto che si tratta pur sempre di opere d’arte. Una variante socialmente più accettabile di questo gusto per il proibito si ha quando ci si compiace di pubblicare opere politicamente dubbie (spesso si tratta di lavori giovanili) di autori divenuti poi ideologicamente rispettabili; oppure, con gusto smascherante e per il mutamento di prospettiva, di opere che sottolineano gli aspetti progressisti, socialisti e anticlericali di movimenti autoritari, nella speranza che la sineddoche per una volta cada dal lato auspicato: affinché, tanto per fare un esempio, dell’impresa di Fiume si ricordi non l’atto di brigantaggio internazionale in cui consistette, ma quell’articolo della Costituzione del Carnaro indubbiamente avanzato o la cornice anarcoide e di “zona temporaneamente autonoma” in cui si volse. Immaginate il brivido del lettore progressista quando lascia cadere nella busta Feltrinelli quella grossa, lucida M che campeggia sulla copertina, stampata nella più erotica delle cinquanta sfumature di nero” […] Perché Scurati sceglie Mussolini? – si chiede infine Ottaviani: – Per una specie di soteriologia intramondana […]. In altre parole il nulla, articolato.Sommate il dinamismo a un progressismo nichilistico […] e avrete di fronte un’inarrestabile giostra anfetaminica che fa il verso e, nell’immaginario, concorrenza al liberalismo progressista in cui viviamo”.

In Quarta di copertina, Andrea Melodia recensisce un importante quanto ben costruito volume promosso dall’Ufficio Studi Rai diretto da Andrea Montanari su un tema cardine per il superamento della crisi politica e sociale: Coesione sociale. La sfida del servizio pubblico radiotelevisivo e multimediale (Rai Libri, 2020). Dopo aver presentato la struttura in cinque capitoli del volume, chiuso nell’ottobre 2020 e curato da Flavia Barca, Melodia sottolinea come il volume affronti una “tematica cruciale”, peraltro “non priva di criticità”. “È molto positivo che la RAI, attraverso il suo Ufficio Studi, recentemente riemerso da anni di abbandono, abbia prioritariamente affrontato una tematica cruciale intorno alla quale si giocano prioritariamente il ruolo e la ragione d’essere del servizio pubblico, e anche la sua capacità di risollevarsi da quello che molti indicano come un lento declino. Da questo punto di vista il volume è una scelta di politica aziendale significativa e lungimirante, condotta con competenza, tempestività e mezzi adeguati alla rilevanza dell’obbiettivo. Le criticità riguardano la capacità della ricerca di incidere all’interno dell’azienda, nelle sue anime molteplici e non dialoganti. Emerge con evidenza, nel terzo capitolo, una diversa sensibilità tra l’impostazione della ricerca e le attività ordinarie di indagine che sono realizzate, con obbiettivi non sovrapponibili, dal marketing aziendale, che governa le tre reti generaliste. Il fatto stesso che il governo dei palinsesti sia da tempo definito come “marketing” la dice lunga sulle difficoltà del rapportare l’offerta a fini di- versi da quelli commerciali, e la stessa esistenza di reti differenziate sia per obbiettivi di target sia per ragioni ideologiche è funzionale alle esigenze degli inserzionisti più che a quelle della coesione sociale”. In conclusione Melodia aggiunge un’ultima considerazione osservando come “Per generare coesione sociale, è indispensabile che la RAI maturi e esprima al proprio interno coesione sociale. Questo obbiettivo è molto lontano nella realtà aziendale di oggi. Lo è soprattutto nei gangli centrali della RAI, le tre reti e testate generaliste, devastate da decenni di lottizzazione. Ma lo è anche nel proliferare di direzioni aziendali nate e cresciute con la necessità di ripartire i posti di comando, con sovrapposizioni di ruoli e scarso rispetto delle competenze professionali”.

Nella rubrica dedicata ai Slow media, ossia al piacere per l’orecchio fine e per l’occhio attento di fruire lentamente – ovvero controcorrente – e pienamente dei programmi offerti, abbiamo ripreso una parte di un saggio sui documentari e le inchieste di RadioRai, scritto nel 2011 da Paolo Morawski e Raffaele Vincenti dedicata a “La forma e lo stile del radio-documentario”, al contempo un genere e un’arte e tecnica sonora che può essere considerato l’antesignano dei nuovi radio reportage in Podcast. Dopo aver sottolineato il carattere fluido della professione e del genere i due autori chiariscono subito che “Un buon documentario radiofonico è tale quando riesce a organizzare una materia sonora complessa, almeno parzialmente raccolta “sul posto”, in un’opera semplice, unica, autentica. Laddove per “semplice” s’intende la capacità di tener desto l’interesse dell’ascoltatore e di suscitare nella sua mente emozioni, pensieri, efficaci e vivide “immagini”. Detto in altre parole, la qualità di un audio-documentario è proporzionale non solo e non tanto alla qualità delle informazioni che veicola, bensì alla cultura e forza immaginativa che scatena, senza limiti di spazio e di tempo. “Buon” documentario vuol dire che l’amalgama tra qualità dei contenuti e dei messaggi, scrittura e arco della narrazione, fattori estetici, linguaggi sonori e innovazione tecnica, punto di vista dell’autore e patto con l’ascoltatore funziona. La “semplicità”, in sostanza, appare essere un punto di arrivo. più che di partenza. […]. Come punto di partenza – chiariscono in conclusione – c’era la troupe, la Radiosquadra: il giornalista/reporter/autore, la redazione, il fonico per le riprese esterne, la camionetta 1100 dell’Eiar per trasportare le apparecchiature, quindi l’ascolto e il montaggio con il tecnico di studio, il responsabile delle musiche, il regista. Come punto d’arrivo c’è l’autore che fa tutto da solo in un ambiente completamente digitale. One man band. Il radio-documentario esige tempo. Un certo tempo. Per essere realizzato. Per essere ascoltato”. Forse davvero il reportage in podcast assumerà la stessa valenza nella Rete, ma con una forte inversione di tendenza rispetto alla “comunicazione rapida” ovvero “cotta e mangiata” dominante oggi nei social network.

Segue infine una settima e ultima rubrica, Memorie nostre, in cui Augusto Preta rievoca la figura di Franco Morganti, ricostruendo la carriera professionale dell’ingegnere in telecomunicazioni ma anche l’impegno del Civil Servant, la passione civica e l’impegno politico a Milano. Dapprima l’esperienza giovanissimo alla fine degli anni Cinquanta alla Olivetti, poi alla SGS infine dal 1974 come consulente strategico nel settore sia pubblico che privato fondando imprese come Metrel, Reseau, Technibank e Databank Consulting. Presiederà un gruppo di lavoro a Palazzo Chigi sul riassetto delle telecomunicazioni nel 1981 prima di approdare nel Comitato strategico della Stet alla vigilia delle privatizzazioni, iniziando una collaborazione con il Corriere della Sera prima di iniziare una consulenza con l’AGCOM e diventa Consigliere d’Amministrazione dell’Enel sotto la guida di Franco Tatò nel 1999 e poi di Wind Telecomunicazioni nel 2003. Preta si sofferma infine sullo studioso Morganti e in particolare sul suo operato in veste di presidente del Capitolo Italiano dell’International Institute of Communications, di cui Preta è stato uno dei più stretti collaboratori  promotori unitamente a figure come Carlo Sartori e Guido Vannucchi, che non sarebbe nato senza il fervente sostegno di un altro manager olivettiano approdato alla Rai, Massimo Fichera. Una decina di anni dopo – ricorda Preta – “Con la costanza, la volontà e la pazienza che non gli hanno mai fatto difetto, alla fine del 1996 Franco Morganti riprese in mano il progetto di Fichera, costituendo dunque in Rai il Chapter che iniziò a operare nel 1997. L’anno successivo veniva organizzata la conferenza annuale di Roma, alla presenza di oltre 500 delegati provenienti da tutto il mondo.

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Completa il volume in appendice, Glossario, contenente “La parola chiave” per capire questo numero. Dopo la voce “Piattaforma” analizzata soprattutto da un punto di vista economico e di impresa da Giuseppe Richeri nel numero zero, non potevamo che proseguire che con una voce contigua “Società delle piattaforme” analizzata da un punto di vista sociologico e di comunicazione politica dal professor Michele Sorice  – che in qualche modo aggiorna e supera le vecchie definizioni di “Società dell’informazione” risalente alla seconda metà del Secolo scorso, o quella più recente andata affermandosi a cavallo fra due secoli e millenni di “Società della Rete” (Network Society). E’ il secondo lemma di una ideale Enciclopedia della comunicazione e della conoscenza che, a correzione parziale di quanto annunciato nel numero scorso vorremmo costruire a puntate in ogni numero della rivista. “Nel corso degli ultimi anni si è affermato il concetto di platform society, società delle piattaforme. L’espressione, per quanto efficace, è tuttavia ambigua dal momento che il termine piattaforma ha diversi significati, non sempre fra loro convergenti.[…]  Questa pluralità di significati – aggiunge Sorice – determina, com’è evidente, una certa confusione intorno all’uso del termine piattaforma. Al tempo stesso, però, evidenzia come il concetto di piattaforma – sebbene variamente declinato – sia diventato centrale nel dibattito sulla comunicazione e, più in generale, nel dibattito pubblico. Non è un caso, che alcuni studiosi abbiano espressamente parlato di un processo di platformization (letteralmente “piattaformizzazione”, termine brutto ma significativo) per indicare la centralità delle piattaforme digitali nella vita sociale contemporanea […]. La post sfera pubblica piattaformizzata– conclude Sorice – adotta le modalità discorsive del neoliberismo, si fonda su asimmetrie economiche, politiche e di potere culturale che tendono a parcellizzare la sfera pubblica, rendendola di fatto uno spazio di legittimazione del “pensiero unico” invece che un luogo simbolico di discussione e confronto. La società delle piattaforme si rivela, quindi, come un’architettura organizzativa che si colloca nel solco della post-democrazia più che come esito della Network/Connective Society. E non è solo la questione connessa al potere delle grandi imprese globali, da Gafam (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft) a Natu (Netflix, Airbnb, Tesla, Uber) fino a Batx (Baidu, Alibaba, Tencent, Xiaomi). Il processo di piattaformizzazione è tanto più pericoloso quanto esso apre spazi a nuove forme di manipolazione e controllo (parole “vecchie” significativamente e prepotentemente ritornate nel dibattito pubblico e nella ricerca accademica).

Anche per questa ragione abbiamo ritenuto opportuno – per completezza – chiedere contemporaneamente a Gianfranco Pasquino di predisporre, dopo quelli di Richeri e Sorice, un terzo contributo accademico, ovvero di presentare ai nostri lettori la voce piattaforma nel suo significato tradizionale profondamente diverso, riferito all’universo politico: “Piattaforma politica”.“Una piattaforma politica – chiarisce Pasquino – contiene non soltanto i principi fondamentali che stanno all’origine a alla base di un partito, della sua ideologia e della sua pratica politica, ma anche, di volta in volta, a seconda delle competizioni elettorali, delle cariche in gioco e dei problemi esistenti, salienti in quel sistema politico, delle soluzioni che, in maniera più o meno dettagliata, un candidato e/o un partito propongono […] Non è vero che la personalizzazione della politica abbia cancellato la rilevanza delle piattaforme politiche con il leader che sarebbe diventato lui stesso il programma. Nella maggior parte delle democrazie, certo, il leader ha acquisito notevole visibilità, ma, al tempo stesso, utilizza la sua visibilità personale per farsi portatore e interprete della piattaforma politica del suo partito/schieramento così come elaborata da un ampio strato di collaboratori e professionisti. Poi, il successo dipenderà anche dalle capacità personali del leader” -osserva il politologo [… ]. Non è [poi] affatto vero che tutte le piattaforme politiche si assomigliano, che non ci sono più differenze/divergenze significative, che i profili programmatici si sono appiattiti in maniera tale da giustificare l’insoddisfazione e il malcontento dell’elettorato che accomuna e rigetta tutti o quasi i contenuti delle piattaforme politiche. Semmai  – chiarisce il politologo -, il processo di appiattimento è un effetto, più o meno voluto, della comunicazione attraverso operatori di scarsa professionalità dei mass media e, talvolta, della soggezione e sudditanza di dirigenti politici e candidati nei loro confronti. […] Infine – chiarisce Pasquino – tutte le ricerche condotte in tempi, in luoghi, in sistemi politici diversi, Italia compresa, hanno tanto regolarmente quanto sorprendentemente messo in rilievo come nella grande maggioranza dei casi la grande maggioranza degli eletti abbia cercato di attuare, naturalmente, con maggiore o minore successo, gli impegni presi, scritti nelle rispettive piattaforme politiche.

Il lettore troverà infine anche questa volta una seconda appendice contenente le Biografie degli autori che hanno accettato tutti di collaborare a titolo amichevole a questo primo numero del 2021 di Democrazia futura.