l'analisi

Streaming, i quattro motivi per cui Netflix è in crisi

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Netflix pochi giorni fa ha dovuto dare uno degli annunci più dolorosi della sua storia: la contrazione degli abbonati, dopo dieci anni di crescita praticamente ininterrotta, fino a raggiungere la cifra di 222 milioni totali.

Rubrica settimanale SosTech, frutto della collaborazione tra Key4biz e SosTariffe. Per consultare gli articoli precedenti, clicca qui.

Il bello è che la Generazione Z nemmeno se ne rende conto: abituata allo streaming, sospettosa nei confronti della tv generalista in chiaro, i più giovani non sanno com’era il paradigma televisivo una ventina d’anni fa, quando guardare un film in prima serata significava sottoporsi a un fuoco di fila di spot, tre o quattro per tempo, magari piazzati appena prima della scena clou (o, peggio, a metà). Quando la pubblicità televisiva si è avviata a divenire un retaggio del passato – almeno per chi è poco appassionato di talk show, e preferisce rivolgersi a Netflix, Prime Video, Apple Tv, Sky/Now TV, Disney+ e così via per i contenuti – in tanti hanno tirato un sospiro di sollievo, senza sospettare che, sotto altra forma, gli spot sarebbero tornati.

“Non si interrompe un’emozione”, disse Federico Fellini riguardo all’abuso di pubblicità all’interno dei suoi film nelle reti commerciali; e addirittura nel 1995, anche se pochi se lo ricordano, ci fu un referendum in Italia per l’abrogazione di parte delle pause pubblicitarie (vinse il “no”, grazie anche all’imponente schieramento di vip televisivi delle tv commerciali, quelle che avrebbero più sofferto il taglio, che si schierarono contro la misura). Ma quando i soldi scarseggiano, tornano in auge anche i rimedi più estremi.

I quattro motivi per cui Netflix è calata

È il caso di Netflix, che pochi giorni fa ha dovuto dare uno degli annunci più dolorosi della sua storia: la contrazione degli abbonati, dopo dieci anni di crescita praticamente ininterrotta, fino a raggiungere la cifra di 222 milioni totali. Nel primo trimestre il colosso dello streaming ha visto questo numero ridursi di circa 200.000 unità, e pare che per quello in corso il calo previsto sia addirittura di due milioni. Il contraccolpo sui mercati è stato immediato, con un crollo del titolo sul NASDAQ che ha sfiorato il -37%. Secondo i vertici dell’azienda, le cause sono da individuarsi fondamentalmente in quattro fattori. Il primo è l’allentamento delle restrizioni per la pandemia, che nei due anni passati aveva invece provocato una notevole crescita degli abbonamenti alle tv streaming, visti anche i bassi costi – a proposito, su SOSTariffe.it si possono trovare le soluzioni più convenienti – mentre ora sono sempre di più le persone che preferiscono uscire all’aperto invece di guardare la televisione; in molti, peraltro, hanno già visto tutti i contenuti a cui erano interessati, per quanto Netflix e gli altri operatori del mercato cerchino di aggiungerne sempre di nuovi a ritmi frenetici. Il secondo motivo è naturalmente l’aumento della concorrenza: anni fa Netflix era sostanzialmente sola sul mercato, ora i rivali sono tanti, e tutti molto agguerriti. Il terzo motivo è la guerra in corso, con la sospensione delle operazioni dell’azienda in Russia e un calo previsto per tutta l’area europea.

Infine – e tenendo fuori l’aumento del prezzo degli abbonamenti, ritenuto inevitabile vista la congiuntura, ma che in molti casi ha fatto passare il canone mensile nella lista delle spese rinunciabili – c’è la questione delle credenziali condivise: sempre più persone, infatti, utilizzano login e password non soltanto per collegarsi a titolo personale, ma le condividono con amici e parenti, in modo che anche loro possano accedere ai contenuti pagando un solo abbonamento per tutti. Netflix permette di farlo per chi fa parte del nucleo familiare e condivide lo stesso tetto, ma, di fatto, non ha veri e propri strumenti per controllare  che non si faccia un abuso di tale possibilità.

Verso i “mini-Superbowl”?

Appurata la causa, ci vuole l’antidoto. Che non può essere aumentare ulteriormente il costo dell’abbonamento, anche se un nuovo ritocco in futuro sarà probabile: non farà che diminuire ancora il numero degli abbonati, e non è detto che i maggiori ricavi riescano a compensare la perdita di chi decide di rivolgersi altrove. Fuori discussione anche un abbassamento dei prezzi per tentare di recuperare utenti. La soluzione, quindi, pare arrivare proprio dal passato: il più volte paventato ritorno della pubblicità, intesa come “tier” di abbonamenti più economici o addirittura gratis – il modello della Free Ad-Supported Television – ma che prevedano anche i classici break, come già accade con diversi altri servizi streaming (HBO Max, Paramount, perfino Disney+ che da poco ne ha dato l’annuncio).

Insomma, una “spotifyzzazione” di fatto che ha l’obiettivo soprattutto di non perdere quote di mercato. Il fondatore e CEO di Netflix, Reed Hastings, ha dichiarato di non essere un fan della complessità del modello pubblicitario, ma di esserlo ben di più della scelta dei consumatori. Dal canto loro, i pubblicitari hanno già fatto sapere di essere entusiasti della prospettiva di creare advertising di qualità pensato per un pubblico diverso da quello della tv generalista, composto soprattutto da giovani e da persone con una cultura e un’istruzione superiore alla media; potrebbe essere un’ottima occasione per sperimentare con la pubblicità come non si faceva ormai da anni, un po’ come – fatte le debite proporzioni – per il Superbowl, quando le migliori menti creative cercano di dare vita agli stacchi commerciali più efficaci possibile.

Il binge-watching e le strategia di marketing

Non è del resto la prima volta che il marketing si fa strada su Netflix, o negli altri servizi di streaming: si trattava, però, soprattutto di product placement, con marche e loghi di aziende famose in bella vista nelle serie televisive o nei film. Ma, come ha dichiarato Brian Wieser, dirigente della GroupM, con la pubblicità «si tratta di un inversione di 180 gradi rispetto a tutto ciò in cui Netflix ha sempre creduto». Le difficoltà non mancano, anche per il modello distributivo di Netflix, che a differenza di quanto fa per esempio Prime Video rende disponibili quasi sempre tutti gli episodi delle sue serie in una volta: un problema non da poco per chi preferisce stabilire la propria strategia di comunicazione ragionando su più mesi, in modo da valutare se uno show diventa popolare un po’ a sorpresa e quindi se è il caso di investire un po’ di più per avere più spazio, o viceversa: il binge-watching, che è uno dei tratti distintivi dell’utente streaming, potrebbe avere i giorni contati, e la televisione tornare ad assomigliare a quella che credevamo di esserci lasciati alle spalle, nel bene e nel male.