Key4biz

Quanta ipocrisia sulla Rai e silenzio su obblighi di investimento in audiovisivo indipendente

Che vi fossero mine vaganti in tema di politica culturale ed economia mediale l’avevamo ben previsto, nei giorni scorsi, su queste colonne, e per primi avevamo proposto una sorta di “collegamento” (ideologico) tra le vicende della Rai e quelle del Teatro di Roma: entrambe sintomatiche di balletti rituali della partitocrazia, entrambe sintomatiche dell’assoluta assenza di un approccio basato sui fatti, su dati, su analisi (si veda il nostro intervento su “Key4biz” di ieri, “La riforma del “Tusma” e la simpatica soluzione “all’italiana” per la querelle del Teatro di Roma”)…

Logiche ipocrite ed “amichettismi” trasversali, multipli ed incrociati, intrecciati in patologie storiche e profonde.

Diverte osservare come si sia scatenata, nelle ultime 48 ore, una vera e propria tempesta mediatica intorno alla Rai: tempesta basata veramente sul nulla, perché non si discute di fatti, ma di iniziative “politiche” vacue, senza fondamento…

La Segretaria del Partito Democratico Elly Schlein convoca per mercoledì 7 febbraio 2024 un “sit-in” davanti a Viale Mazzini, e confida nell’adesione anche del Movimento 5 Stelle, che invece si nega, e viene presa in giro da Carlo Calenda, che ha ironicamente sostenuto che lui simili iniziative le promuoveva quando aveva 14 anni ed andava al liceo… Mirabile l’editoriale di Marco Travaglio su “il Fatto” di oggi, e non meno l’articolo di Francesco Merlo su “il Foglio”: entrambi accusano il Pd di assoluta ipocrisia, essendo co-autore di storiche pratiche di lottizzazione del servizio pubblico, e finanche di altre istituzioni del sistema culturale italiano. La Presidente della Commissione di Vigilanza Rai Barbara Floridia (M5s), a sua volta, se ne esce sostenendo che una (indefinita) riforma della Rai deve essere condivisa tra maggioranza e minoranza, e rievoca i mitici quanto indefiniti “Stati Generali” della televisione pubblica, ma… prende tempo, annunciando che pensa si possano organizzare dopo le elezioni europee (ovvero tra oltre 4 mesi quattro)!!

Fioccano le critiche, emergono gli insulti. Pagine e pagine di polemiche basate sul nulla, tutte accomunate dall’universale intendimento (teorizzato da tutti, ma giustappunto a parole) di “liberare” la Rai dai partiti

Nel mentre, nessuno chiede che venga reso di pubblico dominio il nuovo “contratto di servizio” che dovrebbe regolare – pur nella sua evanescenza – il rapporto tra “servizio pubblico mediale” e Stato…

Nell’economia di questa rubrica di monitoraggio critico curata da IsICult per il quotidiano online “Key4biz” abbiamo evidenziato come sia stato cassato quel che la Commissione di Vigilanza aveva chiesto di innestare nel nuovo “contratto di servizio”, ovvero una limitazione al ricorso (ormai surreale) agli appalti a società esterne (peraltro in buona parte in mano a capitali stranieri). Cancellata, con la benedizione della stessa Rai e del contraente altro ovvero il Ministero per le Imprese e il Made in Italy. Eppure, non 1 parola una (una sommessa protesta?!) da parte della grillina Presidente della Vigilanza. Non 1 parola una da chicchessia. Si rimanda all’intervento di giovedì della scorsa settimana 25 gennaio su “Key4biz”: “Mimit e Rai ignorano il parere della Commissione di Vigilanza sul contratto di servizio”.

E nessuno – si ribadisce nessuno – ha fatto caso che giovedì scorso 25 gennaio 2024 il dossier Rai è stato affrontato dal Consiglio dei Ministri: nessuno ha scritto 1 riga una, ma quel che emerge dal comunicato ufficiale di Palazzo Chigi merita essere riprodotto, a dimostrazione di quale enorme cortina fumogena sia stata messa in atto…

Il comunicato stampa di Palazzo Chigi sulla Rai (dossier affrontato nella riunione di giovedì scorso): parole parole parole…

Riportiamo alla lettera: “il Ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso ha svolto una informativa al Consiglio dei ministri in merito al nuovo contratto di servizio tra il Ministero e la Rai – Radiotelevisione Italiana S.p.a., ai fini dell’espletamento del servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale. Il nuovo Contratto di Servizio, oltre a riprendere le finalità di un’informazione di qualità con approfondimenti dedicati, inchieste e dibattiti, pone grande attenzione alle nuove generazioni, allo sviluppo delle competenze per la transizione digitale e ambientale e all’inclusione sociale e culturale, con specifica attenzione alla qualità e alla quantità dei programmi che saranno oggetto di traduzione nel linguaggio dei segni, di sottotitolazioni e audiodescrizioni in favore delle persone portatrici di disabilità anche sensoriali e cognitive”.

Sia consentito osservare: parole parole parole

E la retorica si intensifica, con la magica formuletta della “digital media company”, che significa molto ma anche, al contempo, nulla: “nel corso dell’attuazione del contratto è prevista la trasformazione della Concessionaria da broadcaster a digital media company, che dovrà tradursi in un accesso facile e universale all’offerta del servizio pubblico, grazie ad un approccio multipiattaforma e che richiede la definizione da parte di Rai di una strategia di digitalizzazione in grado di valorizzare le professionalità, i modelli produttivi, la strategia distributiva, le attuali piattaforme esistenti e la definizione di quelle future”.

Sia consentito osservare: qual è la novità, rispetto alla Rai attuale, con quell’avanguardia fragile rappresentata da RaiPlay?!

E, ancora: “la Concessionaria dovrà ricoprire un ruolo centrale anche sulla tematica del Made In Italy, inteso quale insieme valoriale e culturale del nostro Paese e delle sue eccellenze nel mondo al fine di superare alcuni stereotipi, e di valorizzare quelle tipicità, quelle eccellenze che sono alla base della specificità italiana, grazie anche ad un’offerta opportunamente tradotta”.

Quali sarebbero gli “stereotipi”? Pizza, mandolino e mafia?!

E cosa si intende per “offerta opportunamente tradotta”: tradotta in lingua inglese?! “Tradotta” in termini iconico-semantici?! Il Ministro Adolfo Urso forse non ricorda che nel precedente “contratto di servizio” era previsto un “canale per l’estero”, in lingua inglese, giustappunto per rendere l’idea in qualche modo all’altezza dei servizi pubblici inglesi, francesi, tedeschi, spagnoli?! Canale rispetto al quale Rai ha speso milioni di euro, per un cantiere che non ha portato ad alcun concreto risultato. Il progetto di canale per l’estero è stato cancellato. Rimosso. Si rimanda, sulla penosa vicenda, all’intervento IsICult su “Key4biz” del 22 novembre 2022, “Rai rilancia l’offerta per l’estero, ma seppellisce il canale in lingua inglese”. A conferma che il “contratto di servizio” è scritto sull’acqua…

La chicca finale: “come previsto dal Testo unico per i servizi di media audiovisivi (Tusma), sul contratto è stato acquisito il parere della Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, che è stato integrato nel testo, successivamente approvato anche dal Consiglio di amministrazione della Rai”.

Che raffinatezza semantica: il contratto approvato dalla Commissione bicamerale è stato “integrato nel testo”. E questo testo simpaticamente “integrato” (ma come e dove non è ancora di pubblico dominio…) è stato – udite udite – finanche approvato dallo stesso Cda della Rai. Oh, perbacco! Che risultato eccezionale!

Attendiamo di vederlo pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, questo benedetto novello “contratto”, dato che, fino ad allora, predomina una sorta di clima di terrore intorno ai pochi privilegiati che hanno avuto accesso a questo misterioso testo…

Ricordiamo che la Vigilanza ha approvato il contratto il 3 ottobre 2023. Il Consiglio di Amministrazione Rai ha approvato la (misteriosa) versione il 18 gennaio 2024. E siamo al 30 gennaio 2024: cosa si attende per rendere pubblico questo “prezioso” documento?!

Le quote di investimento obbligatorio in produzione audiovisiva destinate a divenire più evanescenti? Mediaset chiede di allentarle, l’Apa di incrementarle, la Mpa propone che scendano dal 20% al 5%

Incredibile silenzio dei media (a parte “il Fatto Quotidiano” e “Key4biz”) sulle quote di investimento obbligatorio in produzione audiovisiva e sulla (ri)definizione del concetto di “produzione indipendente”, nell’economia della revisione del cosiddetto “Tusma” (il succitato Testo Unico per i Servizi Media Audiovisivi).

Come annunciato nel nostro intervento di ieri su queste colonne, oggi si sono svolte alcune audizioni parlamentari, ma le agenzie stampa hanno quasi completamente ignorato la questione. E ciò conferma il disinteresse dei media (e quindi della politica?!) su una questione che è invece strategica per il sistema culturale nazionale.

Questa mattina emerge soltanto la presa di posizione del Gruppo Mediaset, che chiede una revisione della “sotto quota” relativa al cinema italiano recente, ma si tratterebbe – a parer suo – soltanto di un “leggero ritocco”. Ha sostenuto Stefano Selli, Direttore delle Relazioni Istituzionali Italia di Mediaset, in audizione presso le commissioni riunite Cultura e Tlc della Camera: “questo è un provvedimento per noi molto importante, è un corpo di norme che funziona e che va bene. L’unica parte che non fu toccata due anni fa, nel 2021, è proprio quella sulle quote di programmazione di investimento: fu una scelta politica del Governo all’epoca, noi ritenevamo – ma riteniamo ancora di più oggi – che sia assolutamente necessario un intervento su questa parte del corpo normativo, perché è un provvedimento che si basa su una legislazione ormai del 2016, quando le condizioni di mercato erano completamente diverse rispetto a quelle attuali”.

Un piccolo ritocco?! “Noi non chiederemo nulla di particolare, ma solo un leggero ritocco di una sotto quota, una maggiore flessibilità, un’attenuazione delle sanzioni… Il Tax Credit sta creando degli effetti molto penalizzanti per soggetti come noi: il beneficio fiscale dato in forma indiscriminata genera effetti inflattivi fortissimi: si rischia di veder sparire la fiction identitaria nazionale, perché i grossi soggetti entrati nel mercato hanno portato a un’inflazione dei costi e la loro produzione non è legata alla realtà dei nostri territori perché i loro prodotti devono andare in 190 Paesi. Noi non riusciamo più a sostenere i costi e a produrre fiction che una volta costavano un quarto rispetto ad adesso. Alla luce di questa difficoltà, è necessario fare qualcosa per ridurre e attenuare alcuni aspetti del provvedimento: in particolare, la ‘sotto quota’ di cinema italiano recente va assolutamente rivista perché è molto vessatoria e pesante; chiediamo poi una maggiore flessibilità applicativa dell’Autorità in caso di violazioni e una riduzione delle sanzioni, che sono sproporzionate…”.

E che questa auspicata “flessibilità” – tesi condivisa da broadcaster e piattaforme – sembra essere accolta anche dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni è confermato da quel che ha sostenuto questa mattina Giacomo Lasorella, Presidente Agcom: sul tema della promozione delle opere audiovisive europee e indipendenti “ci sono novità importanti: bene la semplificazione, forse si può andare verso un’ulteriore flessibilità sia con riferimento all’orizzonte temporale sia con riferimento alle sanzioni”…

L’Apa (produttori televisivi): “incrementare al 70 per cento la quota d’investimento in opere d’espressione originale italiana”

C’è chi chiede di allentare e c’è chi chiede di rafforzare, chi la vuole cotta, chi la vuole cruda: l’Associazione dei Produttori Audiovisivi alias Apa (presieduta da Chiara Sbarigia, che è anche al contempo Presidente di Cinecittà, e questa mattina è stata omaggiata – assieme all’Ad Nicola Maccanico – da una visita del Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano e dalla Sottosegretaria Lucia Borgonzoni, che hanno apprezzato le attività degli “studios” di via Tuscolana nell’economia del “Pnrr”) ha sostenuto di “vedere con favore l’innalzamento al 60 per cento della quota d’investimento in opere d’espressione originale italiana realizzate negli ultimi cinque anni da produttori indipendenti: questo si potrebbe tradurre anche in un migliore racconto della nostra storia, della nostra identità, nella promozione delle eccellenze paesaggistiche oltre che in un importante impulso al turismo. Per queste ragioni, è necessario incrementare al 70 per cento la quota d’investimento in opere d’espressione originale italiana realizzate negli ultimi cinque anni da produttori indipendenti”…

Ed interviene anche la potente Mpa, la lobby delle industrie dell’immaginario “made in Usa”, nella persona del Presidente Emea della Motion Picture Association (un tempo l’acronimo era “Mpaa” ma quel “of America” è stato graziosamente cassato… chissà perché) Stan McCoy: “il sistema delle quote e degli obblighi di investimento ha reso il mercato italiano molto rigido. Nonostante ciò le grandi major statunitensi continuano a investire in Italia e a ricevere riconoscimenti internazionali, come con ‘The Good Mothers’ a Berlino. Il Tusma rappresenta un’opportunità unica per riportare il quadro italiano a livelli più ragionevoli di obblighi di investimento e pertanto qualsiasi intervento normativo nel settore dovrebbe essere valutato rispetto ai parametri di flessibilità, proporzionalità, prevedibilità e non discriminazione, criticati tanto da Agcom che dalla Commissione Europea. McCoy ha anche citato modelli di mercato “virtuosi ed in crescita”, come la Spagna e i Paesi nordici, che hanno “un sistema meno prescrittivo e obblighi di investimento al di sotto del 5 %, mentre in Italia la soglia è fissata al 20 %”…

Traduciamo in linguaggio corrente: amici italici, se aumentate le quote obbligatorie di investimento e – aggiungiamo noi – ci togliete il “tax credit”, noi togliamo le tende dall’Italia ed andiamo ad investire simpaticamente altrove…

Insomma… la “coperta” (che resta bella calda grazie alle sovvenzioni dello Stato e giustappunto alla manna del “tax credit”) ognuno la tira dalla sua parte…

Torneremo presto su questi temi, ma, ancora una volta, non possiamo non segnalare (non denunciare?!) come “lo stato dell’arte” dell’economia del settore cinematografico e audiovisivo italiano sia avvolto da molte nebbie, ed ognuno può dire liberamente la sua, perché non esiste una radiografia accurata, approfondita, oggettiva del suo funzionamento…

Ribadiamo: a fronte di uno Stato che inietta nel sistema ben 700 milioni di euro l’anno (questo l’ammontare del Fondo Cinema e Audiovisivo, ancora in attesa di “ripartizione” per il 2024), nessuno sa a quanto ammonti il capitale di rischio dei produttori cinematografici e audiovisivi. Ciò basti.

Nessuno, né il Ministero della Cultura né l’Autorità delle Garanzie nelle Comunicazioni.

E se non lo sanno Mic ed Agcom, come può “la politica” ovvero il Parlamento intervenire con una pur minima cognizione di causa?!

Approssimazione e nasometria.

Audizioni parlamentari basate su una prevalente assenza di cognizioni tecniche.

Si “governa” il sistema in base ad improvvisazione ed umori e influenza delle lobby…

Da osservare, su questi temi ovvero sulla questione delle “quote”, la totale assenza di prese di posizione da parte delle associazioni degli autori: non 1 parola una dalla Società Italiana degli Autori e Editori (Siae), non 1 parola una dall’Associazione Nazionale Autori Cinematografici (Anac), non 1 parola una dai 100autori

Non stupisce invece il silenzio della principale associazione dell’industria cinematografica ovvero l’Anica alias Associazione nazionale industrie cinematografiche audiovisive e digitali (presieduta da Francesco Rutelli) considerando che Netflix è ormai da qualche anno tra i suoi associati…

Netflix ci precisa qual è il suo fatturato in Italia (615 milioni di euro nel 2022, ma ben 539 milioni vanno a Netflix internazionale), ma non rivela quanto investe nel nostro Paese  

Riceviamo questa mattina da Francesca Carotti, Senior Manager Communications per l’Italia, ovvero per l’Emea (Europe, Middle East, Africa) di Netflix, e diligentemente pubblichiamo:

Le scriviamo oggi in riferimento al pezzo da lei pubblicato lo scorso 26 gennaio dal titoloNebbia sul Fondo per il Cinema e l’Audiovisivo e sul Contratto di Servizio Raiper una doverosa precisazione. Nel paragrafo del sopra citato articolo intitolato “Il Ministero della Cultura si inchina di fronte a Netflix?”, riferendosi alla nostra azienda, Lei scrive: “C’è del vero? Ancora una volta, in parte sì, ma in parte no, ed ancora una volta non è possibile conoscere la vera verità, anzitutto perché Netflix non rende noto le caratteristiche del proprio operato in Italia… Quanto fattura dal mercato italiano? Non è dato sapere.”. Ci teniamo a precisare che i nostri conti sono pubblicamente accessibili, come può vedere da alcuni articoli usciti a riguardo – le allego a puro titolo di esempio un pezzo del quotidiano ‘Italia Oggi’ dello scorso settembre sul tema”.

L’Istituto italiano per l’Industria Culturale ringrazia Netflix Italia per questa precisazione. Segnaliamo che la sottolineatura nel testo non è nostra): avevamo certamente letto l’articolo di Claudio Plazzotta dell’8 settembre 2023 sul quotidiano economico “Italia Oggi”, intitolato “Netflix, in Italia ricavi a 617 milioni”, e ben ricordiamo come “i ricavi” del 2022 fossero risultati decuplicati rispetto al 2021 (risultavano soltanto 56 milioni di euro), perché finalmente – a seguito di sane pressioni dell’italico fisco – anche questa multinazionale ha deciso di far emergere i ricavi effettivamente realizzati sulla Penisola, superando quelle formule di ricavi fatti transitare per l’Irlanda o i Paesi Bassi. Dal 2022, Netflix Services Italy srl è diventato distributore dell’accesso al servizio Netflix in Italia, e stipula direttamente i contratti con i clienti in Italia…

A fronte dei 617 milioni di ricavi nel 2022, si registravano 539 milioni di euro di costi di distribuzione del servizio, ovvero di oneri versati a Netflix internazionale: si tratta di quasi il 90 % dei ricavi (per la precisione, l’87 %).

A questi costi, si debbono aggiungere 43 milioni di spese di marketing e pubblicità per la promozione di Netflix in Italia (40 milioni nel 2021) ed i 12 milioni di euro di spese per il personale (35 persone, con un impressionante “compenso medio” per dipendente corrispondente a 346 mila euro l’anno).

Si osservi anche come, sebbene il totale dei ricavi sia passato dai 59 milioni di euro del 2021 ai 617 milioni del 2022, Netflix abbia versato al fisco italiano soltanto 2,9 milioni di euro, rispetto agli 1,1 milioni dei 2021.

Curiose dinamiche… I commercialisti di Netflix sono certamente molto abili, e non abbiamo dubbi che rispettino norme e regole del sistema tributario nazionale…

Approfondiremo questi temi, e siamo sicuri che dinamiche simili riguardano multinazionali altre, da Fremantle (gruppo Rtl e quindi Bertelsmann) oppure, nel piccolo mercato “theatrical” italico, soggetti come The Space Cinema ed Uci Cinema… Questi soggetti molto ricavano dal mercato italico, ma non è ben chiaro quanto resti nel nostro Paese… E qui il tema non è il “sovranismo culturale”, ma semplicemente una questione di economia nazionale…

Come dire?! Qualcosa è senza dubbio migliorato, in termini di trasparenza da parte del potente “over-the-top” rispondente al nome di Netflix. Ma non basta.

Evidentemente sfugge la questione più delicata, ovvero quel che scrivevamo poche parole dopo l’estrapolazione del testo del nostro articolo effettuata da Carotti…

Scrivevamo infatti “Quanto investe nel mercato italiano per prodotti cosiddetti “original” e per l’acquisizione di diritti? Non è dato sapere”.

Ed a questa domanda, nodale, il colosso di Los Gatos non risponde.

E quanto beneficia Netflix dal “tax credit” italico?!

D’altronde, conferma di questa “trasparenza a metà” la si è avuta qualche mese fa, allorquando abbiamo manifestato plauso rispetto alla decisione di Netflix di rendere pubblici alcuni dati sulle ore di fruizione delle opere del suo catalogo, ma ci siamo scontrati con un muro di reticenza allorquando abbiamo chiesto di approfondire alcune numerologie che non ci convincevano (sul tema, si rimanda al nostro intervento del 19 dicembre 2023 su “Key4biz”, “Da Netflix a Cinetel: quando i numeri producono qualche confusione”).

“Trasparenza a metà”, caratteristica comune di molte pubbliche amministrazioni italiane e di molti “player” privati. Le nebbie fanno comodo a molti…

[ Nota: questo articolo è stato redatto senza avvalersi di strumenti di “intelligenza artificiale. ]

(*) Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult (www.isicult.it) e curatore della rubrica IsICult “ilprincipenudo” per “Key4biz”.

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