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Privacy e wearable, il lato oscuro dei dispositivi indossabili

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Avere sempre il GPS attivo è molto utile se vogliamo misurare le calorie che perdiamo ogni giorno, ma allo stesso tempo in teoria rivela i nostri spostamenti, le nostre abitudini, i luoghi che frequentiamo più spesso. Sapere chi controlla i nostri dati, e che politica adotta riguardo ad essi, è essenziale, e non si può dire che fino ad ora i big dell’industria digitale siano stati un esempio di correttezza e trasparenza.

Rubrica settimanale SosTech, frutto della collaborazione tra Key4biz e SosTariffe. Per consultare gli articoli precedenti, clicca qui.

Fra tutte le profezie futuribili di qualche decennio fa, forse quella dei wearable era la più scontata. Non c’è quasi romanzo o film di fantascienza che non mostri il protagonista interagire con un orologio digitale, degli occhiali speciali o altri dispositivi nati per essere indossati per accedere a una varietà di funzioni. Puntualmente, il wearable, negli anni passati, è diventato realtà, anche se accompagnato da una dose di scetticismo superiore a quella degli altri oggetti (smartphone in primis) che definiscono le nostre nuove routine. Ma pazienti e ostinati, anche gli indossabili si sono conquistati a poco a poco la nostra fiducia, e ci accompagnano durante le nostre sessioni di corsa o misurano quanti piani di scale abbiamo fatto, controllano il battito cardiaco e ci consentono perfino di telefonare o interagire con messaggi. L’implementazione di sensori biometrici sempre più avanzati unito all’arrivo di speciali e-SIM per Internet mobile (su SOSTariffe.it si possono trovare le più convenienti) ha aperto al mondo gli smartwatch che si vedono sempre più spesso al polso non solo degli sportivissimi. I numeri parlano chiaro: il mercato globale delle tecnologie indossabili passerà, secondo le previsioni, dai 116,2 miliardi del 2021 ai 265,4 miliardi del 2026, in Europa da 2,514 miliardi a 5,950 miliardi. Nel 2022, si calcola che un miliardo di consumatori potranno accedere a dispositivi indossabili. Eppure, ci sono anche degli aspetti sui quali è legittimo essere più perplessi.

Privacy e wearable: chi controlla i nostri spostamenti?

Il primo, naturalmente, è legato alla grande questione degli ultimi decenni: la privacy. Mentre le grandi società hi-tech, incalzate dai governi, fanno rapidamente dietrofront rispetto alle condotte adottate tradizionalmente – Facebook cambia nome e promette una maggior cura dei dati sensibili rispetto a quella (disastrosa) della gestione fino ad oggi, Apple fa infuriare i produttori di app che fatturano tramite la pubblicità inserendo nel sistema, alla prima apertura, un avviso che permette all’utente di scegliere se e quali dati fornire – i dispositivi indossabili appaiono potenzialmente molto efficaci per il controllo di ogni movimento dell’utente. Avere sempre il GPS attivo è molto utile se vogliamo misurare le calorie che perdiamo ogni giorno, ma allo stesso tempo in teoria rivela i nostri spostamenti, le nostre abitudini, i luoghi che frequentiamo più spesso. Sapere chi controlla i nostri dati, e che politica adotta riguardo ad essi, è essenziale, e non si può dire che fino ad ora i big dell’industria digitale siano stati un esempio di correttezza e trasparenza. Ma c’è anche altro.

Privacy e wearable: il “digital divide” della salute

Basta guardare una qualsiasi presentazione di smartwatch per capire che il fattore su cui le aziende stanno puntando maggiormente negli ultimi tempi non è tanto la potenzialità per lo sport e l’attività fisica, ma per il controllo medico. La pandemia ha ulteriormente acuito l’attenzione alla propria salute, e il ricorso massiccio ad apparecchi come i saturimetri per controllare l’ossigenazione del sangue ha convinto anche i più scettici sull’importanza di non perdere di vista i propri dati vitali; i wearable permettono proprio questo grazie a funzionalità sempre più sofisticate, che consentono di effettuare un elettrocardiogramma al volo, valutare aritmie cardiache o respiratorie, studiare i cicli del sonno e in futuro chissà che altro. Ma, allo stesso tempo, si tratta di dispositivi costosi, a volte molto; e se ormai uno smartphone costa poco più di un centinaio di euro ed è quasi indispensabile per chiunque anche solo per motivi di comunicazione, uno smartwatch è in media più costoso, se di buona qualità, e appare ancora fondamentalmente uno sfizio. In altre parole, è un regalo per benestanti, anche per la maggior cura verso sé stessi che di solito hanno le persone con più denaro e una migliore educazione; un dato che rischia di acuire ulteriormente il già ampio gap tra chi può permettersi cure di qualità e che invece, per reddito e istruzione, ne è tagliato fuori.

Un recente studio ha mostrato che le persone con uno status socioeconomico inferiore hanno sovente una minore alfabetizzazione per quanto riguarda la “salute elettronica”, in quanto senza denaro sufficiente per comprarsi uno di questi dispositivi o senza le conoscenze necessarie per utilizzarli nel modo migliore. Il problema è che la tutela della salute si concentra sempre di più sulla digitalizzazione dei comportamenti e della raccolta dei dati, grazie all’introduzione di sistemi che permettono di monitorare le condizioni dei pazienti anche quando si trovano a casa e lontano da un istituto di cura, senza contare i registri digitali per le cartelle cliniche e un sempre maggior supporto alla telemedicina, che allo stesso tempo rende possibile effettuare interventi a distanza ma richiede l’adozione di apparecchiature dal costo non indifferente. Tutto questo rischia di tradursi in una cura della salute sempre più sofisticata per i ricchi e viceversa un’attenzione molto minore al benessere di chi ha meno mezzi.

Ma gli “indossabili“ ci proteggono

Naturalmente, è ovvio che questi motivi di perplessità vadano analizzati con la massima attenzione ma senza che questo significhi una mancata adozione dei wearable e dei loro vantaggi, anche perché se c’è una cosa che la storia insegna in materia di novità tecnologiche è che è molto difficile tornare indietro; perfino ciò che sembrava un flop epocale qualche anno fa, i Google Glasses, non cessa di rispuntare sotto altra forma, come i Ray-Ban Stories di Facebook (ora Meta), ed è assai probabile che ci abitueremo anche all’utilizzo di occhiali digitali anche se ci vediamo benissimo.

Non sempre, inoltre, la tecnologia segue i percorsi che avevamo previsto. Sono sempre di più le startup dedicate alla sicurezza sul lavoro tramite tecnologia indossabile che raccolgono investimenti miliardari, man mano che i dispositivi diventano più piccoli, meno cari e più leggeri, e diventano un aiuto indispensabile per chi svolge lavori di precisione o molto pericolosi, con sensori in grado di indicare un livello di stress termico pericoloso, la perdita di attenzione in un momento cruciale o un’eccessiva sollecitazione di una parte del corpo. I wearable sono indubbiamente qui per restare, bisognerà non smettere di fare attenzione a come gestirli.