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Quanti posti di lavoro crea Internet dopo la pandemia?

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Ancora più di prima, dopo l’ultimo biennio di pandemia la creazione di nuovi posti di lavoro è in cima all’agenda di qualsiasi leader politico, e da anni che nessun settore al mondo è ricco in questo senso quanto Internet; ecco perché.

Rubrica settimanale SosTech, frutto della collaborazione tra Key4biz e SosTariffe. Per consultare gli articoli precedenti, clicca qui.

Ancora più di prima, dopo l’ultimo biennio di pandemia la creazione di nuovi posti di lavoro è in cima all’agenda di qualsiasi leader politico, e da anni che nessun settore al mondo è ricco in questo senso quanto Internet; tanto che è quasi superfluo ricordare come i lockdown generalizzati, la spinta all’e-commerce, il passaggio allo smart working e alla didattica a distanza, uniti ai prezzi per Internet fisso e mobile sempre più bassi (lo si può vedere con il comparatore di SOSTariffe.it) abbiamo ulteriormente incrementato il distacco con i campi tradizionali.

E non è necessario che siano progetti già pienamente definiti. Prendiamo l’ultima incarnazione di Facebook secondo Mark Zuckerberg, ovvero Meta, con il suo (invero ancora abbastanza misterioso) metaverso: se è vero che in buona parte quella di Menlo Park sembra un’operazione di “ripulitura” di un nome che ormai, soprattutto dopo le ultime rivelazioni della whistleblower Frances Haugen, non gode – per usare un eufemismo – di un’eccessiva popolarità, di sicuro non si tratta solo di quello; nei prossimi cinque anni questo progetto darà vita a 10.000 posti di lavoro solo nell’Unione Europea, con ingegneri superspecializzati impegnati nel creare la piattaforma tecnologica del futuro, per lavorare “in the Internet” e non “on the Internet”, come da slogan.

Non ci sono solo Google e Facebook

Un recente studio commissionato dallo IAB, l’Interactive Advertising Bureau, e guidato da un ricercatore dell’Harvard Business School, ha mostrato come negli Stati Uniti l’internet economy abbia fatto registrare un tasso di crescita negli ultimi quattro anni sette volte superiore a quello dell’intera economia a stelle e strisce, tanto da rappresentare oggi il 12% del prodotto interno lordo.

Il settore ha avuto dei tassi d’incremento pari al +22% all’anno dal 2016, contro il 2-3% del resto delle attività produttive, e nel 2020, l’anno del coronavirus, ha contribuito con 2,45 migliaia di miliardi di dollari sul PIL USA di 21,18 migliaia di miliardi; nel 2008 il ruolo dell’internet economy era di “appena” 300 miliardi.

Internet ha creato 17 milioni di posti di lavoro negli Stati Uniti contro i 10 milioni di quattro anni fa, e un dato interessante è che non si tratta soltanto dei colossi del Big Tech – si parli di Google, Facebook (anzi, Meta), Amazon, Apple o Microsoft – ma anche di aziende di dimensioni molto più ridotte, segno che anche in Italia le piccole e medie imprese potrebbero incrementare il loro fatturato spostando in rete almeno parte delle loro attività; il 38% dei nuovi lavori creati negli Stati Uniti, infatti, è arrivato da ditte di piccole dimensioni o anche da professionisti che si sono messi in proprio, e solo il 34% dalle aziende più grandi.

Creativi e influencer, il momento è d’oro

Lo studio – dal titolo “The Economic Impact of the Market-Making Internet – Advertising, Content, Commerce, and Innovation: Contribution to U.S. Employment and GDP” – ha anche svelato che la comunità dei creativi su Internet conta 200.000 posti di lavoro propriamente detti, quasi equivalenti alla somma di musicisti, sceneggiatori, attori, giornalisti “tradizionali” iscritti ai vari ordini come l’Authors Guild o la SAG-AFTRA.Non bisogna infatti dimenticare che le professioni di Internet riguardano a pieno titolo chi è riuscito a trovarsi un numero di fan pari a quello di calciatori e cantanti famosi, e su quello fattura con la forza delle proprie idee e contenuti o semplicemente facendo pubblicità a determinati prodotti. E guardando il fatturato delle star di Instagram o TikTok, non c’è da stupirsi se sempre più giovani cercano una carriera nei social a suon di follower.

Non si devono per forza raggiungere i milioni di seguaci degli influencer più amati, traguardo tanto ambito quanto rarissimo da ottenere: molte aziende, in cerca di testimonial con la giusta visibilità per promuovere i propri prodotti, si rivolgono spesso a chi sui social ha un seguito buono ma non eclatante, tra le 10.000 e le 100.000 persone, invece di pagare le parcelle astronomiche dei top del settore, che restano prerogativa solo delle marche più famose e dei luxury brand. Tra i millennial, gli influencer sono in cima alla classifica dei più ascoltati e apprezzati quando si cerca un consiglio per un acquisto, ed è un fatto che riuscire ad avere molti follower è più difficile, ora, rispetto a qualche anno fa: meglio quindi trovare una figura ancora accessibile ma in grado di distinguersi dalla concorrenza, e non è detto che chi inizia così poi non riesca a fare una carriera nel marketing “tradizionale” passando dall’altra parte dell’obiettivo. Così, “vecchi” e nuovi lavori possono trovare nuove sinergie.

La situazione dell’Italia

Oggi, negli USA, 850.000 persone lavorano in proprio su Internet e 450.000 per piccole aziende, in posti che non esisterebbero senza la rete. Secondo il professore emerito di Business Administration dell’Harvard Business School John Deighton, «negli otto anni che sono passati dai nostri due ultimi studi, Internet ha reso la creazione di business un processo molto più democratico. Non solo le grandi aziende, ma anche un gran numero di piccole imprese e professionisti adesso hanno le piattaforme e gli strumenti necessari per trovare clienti, interagire con loro e creare nuove transazioni. Non è più nemmeno indispensabile che i fondatori dell’azienda portino grandi capitali. Gli investitori hanno mostrato una notevole volontà di fornire il capitale necessario, confidando che la pubblicità, gli abbonamenti, le licenze e le opzioni freemium forniscano un ritorno sull’investimento molto interessante».

E in Italia? Il panorama, purtroppo, è assai meno interessante, malgrado la fortissima presenza di PMI nel tessuto produttivo costituisca un grande bacino potenziale: secondo il rapporto “Sizing the Digital Economy” di Boston Consulting Group, infatti, siamo al terzultimo posto tra i 28 Stati membri dell’Ue (sopra solo Romania, Grecia e Bulgaria) per quanto riguarda il contributo dell’economia digitale al PIL. Fonti ISTAT hanno mostrato come nel 2020 solo il 17,4% delle imprese italiane con più di tre dipendenti siano state in grado di vendere beni e servizi attraverso il sito web, anche se si spera che il trend si stia invertendo: forse quel +13,2% di incremento tra il 2020 e il 2019 nell’acquisto di domini .it (per un totale di 592.851) è un segnale che qualcosa sta cambiando.