#CashlessItalia, 10 miliardi di euro il costo del contante nel nostro paese

di di Cristian Testa |

Secondo stime dell’ABI, ogni italiano effettua in un anno appena 71 operazioni di pagamento non regolate da denaro contante, meno della metà della media Ue pari a 194 operazioni annue.

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Soldi

L’intervento di Gianfranco Torriero, direttore centrale di ABI, a “Obiettivo ePayment” lo scorso 30 gennaio a Montecitorio ha fornito un quadro piuttosto chiaro circa la situazione italiana nei pagamenti elettronici. Il ritardo del nostro paese rispetto alle economie più sviluppate è ancora enorme. Ogni italiano fa in un anno appena 71 operazioni di pagamento non regolate da denaro contante, meno della metà rispetto alla media Ue (194 operazioni annue).

 

L’Italia è nella fascia di paesi legati ai pagamenti tradizionali, che sono proprio quelli le cui economie sono in maggiore affanno (Grecia, Romania e Malta). Siamo dietro a tutti i big del continente (Francia, Germania e Regno Unito) i cui abitanti compiono ogni anno più di 200 operazioni senza far uso di cash, per non parlare dei virtuosi dell’estremo nord che superano addirittura le 300 operazioni (Svezia e Finlandia). E questo ritardo non è solo relativo ai sistemi di pagamento elettronico più moderni, ma anche a quelli più tradizionali di matrice bancaria (come il bonifico o il rid per le bollette).

 

Il problema non è certo nella diffusione degli strumenti: ogni italiano possiede almeno una carta di pagamento (1,1 pro capite per l’esattezza) e ci sono 21 Pos ogni mille abitanti (in linea con le medie UE).

 

Il fattore che maggiormente favorisce nel nostro paese i pagamenti in contanti, secondo l’analisi di ABI, è quello anagrafico: citando uno studio Ipsos del 2012 si evidenzia come i consumatori fino a 64 anni paghino esclusivamente in cash solo nel 38% dei casi, mentre il dato schizza al 62% per gli over 65; dallo stesso studio emerge anche una forte componente geografica, in quanto le carte di pagamento vengono più utilizzate al Nord.

 

E’ proprio questo il cuore del concetto di epayment divide, espressione coniata dall’Onorevole Sergio Boccadutri che indica una diseguaglianza economica in termini di accesso, uso o conoscenza di strumenti di pagamento elettronici, non solo a livello internazionale, ma anche interno a singole nazioni, e quindi riferito a sperequazioni tra individui, famiglie, imprese, aree geografiche, tipologie demografiche e anagrafiche.

Per superare questo limite secondo ABI c’è bisogno di un intervento su più fronti che possa agevolare il cambiamento nel nostro paese. In primo luogo facendo comprendere ai consumatori gli enormi costi, diretti e indiretti, del contante: nell’area Euro la gestione del contante consuma 50 miliardi di euro, di questi ben 10 miliardi nella sola Italia che, quindi, pur rappresentando appena il 12% della popolazione UE comporta il 20% dei costi complessivi del contante continentale. Inoltre servirebbe una normativa organica ed efficiente che preveda, tra le altre cose, un favor legis di carattere fiscale per i titolari di carte e di Pos.

 

La vulgata popolare, che tende per sua natura alla semplificazione, sostiene che la spinta verso i pagamenti elettronici miri in realtà a favorire le banche e quel potere finanziario reo di tutti i mali del pianeta. Ma i sospettosi al limite del complottismo si sono mai chiesti chi trae beneficio dallo stato attuale delle cose? Come dicevano i romani “cui prodest?”. A chi giova un business di queste dimensioni (50 miliardi di euro nell’intero continente)? Forse a chi si occupa di trasporto, a chi protegge il denaro dagli assalti dei malintenzionati, a chi produce le macchine che contano il denaro? E questi costi, alla fine della filiera industriale, su chi vengono scaricati?

 

 

L’arretratezza italiana nel settore dei pagamenti non denota una forma di libertà del consumatore che attraverso il denaro contante gode di una maggiore indipendenza rispetto al potere finanziario. La ritrosia nei confronti delle più moderne forme di pagamento è un’oggettiva arretratezza del sistema economico italiano, che ne mina seriamente l’efficienza e che comporta enormi costi per la collettività. Non solo quelli concreti di gestione della grande massa di denaro circolante, ma anche quelli indiretti legati all’economia sommersa, all’evasione, alla malavita e alla corruzione che di denaro contante si nutrono quotidianamente e che fatturano una cifra vicina agli 800 miliardi di euro ogni anno, circa la metà del prodotto interno lordo italiano.