Il quadro

Nebbia fitta su Rai e cinema: ‘contratto di servizio’ scomparso dai radar, come il ‘Tusma’ e la riforma del ‘tax credit’

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Insorgono nuovamente 100autori, Anac, Wgi, ma prevale il silenzio dalle stanze del potere, e l’avviso sembra essere “non disturbate il manovratore”.

In tempi lontani, vicino al posto di guida di autobus e finanche tram, campeggiava il cartello “non parlate al manovratore” (non essendo allora il conducente isolato dal contatto con i passeggeri)…

Questa formula sembra ben sintetizzare l’atmosfera di silenzio (pubblico) che caratterizza alcune dinamiche della politica culturale e mediale del nostro Paese.

Questa formula potrebbe essere adatta per definire ironicamente la situazione attuale del sistema mediale italiano: il giornalista investigativo o il ricercatore specializzato che cercasse nei database di articoli giornalistici e web espressioni come “contratto di servizio” Rai oppure “tax credit” cinematografico e audiovisivo, limitando la ricerca all’ultima settimana (da sabato 10 febbraio ad oggi venerdì 16 febbraio 2024), non troverebbe nessun risultato (citazione), scavando negli archivi delle società di monitoraggio mediale come L’Eco della Stampa o Datastampa. Nessuno ne scrive. Rimozione totale. Disinteresse assoluto.

Incredibile, ma vero. Nebbie impenetrabili.

Trasparenza zero. Dibattito pubblico tendente a zero.

Una riprova di questo prevalente “silenzio stampa”?! Recentissima, risale a due giorni fa la notizia: nella mattinata di mercoledì 14 febbraio il “Piano Industriale” della Rai 2024-2026 (che è stato approvato dal Consiglio di Amministrazione lo scorso 18 gennaio) è stato presentato nella sede di Via Asiago dalla Presidente (Marinella Soldi), dall’Amministratore Delegato (Roberto Sergio) e dal Direttore Generale (Giampaolo Rossi) ai direttori di Corporate, di Genere e di Testata. Laconico il comunicato stampa di Viale Mazzini: “prevede importanti livelli di investimenti e la cui attuazione permetterà di consegnare un’azienda strutturalmente trasformata in Digital Media Company come previsto dal nuovo Contratto di Servizio”.

Nulla è trapelato di questa presentazione, e nessuna testata giornalistica o giornalista free-lance è riuscito ad acquisire un qualche estratto di questo documento. Peraltro, diverte il riferimento al “nuovo Contratto di Servizio”, dato che anche questo documento permane nelle nebbie.

Il testo definitivo non è ancora pubblico, e non si ha previsione della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.

Nessuno si lamenta per le “piccole” modifiche apportate al Contratto di Servizio Rai, rispetto al parere della Commissione di Vigilanza

E nessuno sembra essersi lamentato più di tanto per alcune “piccole” modifiche che sono state apportate, tra la versione approvata dalla Commissione bicamerale di Vigilanza (parere per legge obbligatorio ma – ahinoi – paradossalmente non vincolante) e la versione che è stata approvata dal Consiglio di Amministrazione di Viale Mazzini (rispettivamente il 3 ottobre 2023 ed il 18 gennaio 2024) tra queste, la riduzione del ricorso agli appalti a società esterne (che sono per lo più multinazionali straniere), che siamo stati tra i pochi – anzi quasi gli unici – a denunciare…

Si rimanda al nostro intervento del 26 gennaio 2024 su “Key4biz”: “Mimit e Rai ignorano il parere della Commissione di Vigilanza sul contratto di servizio”. Incredibilmente, non se ne è lamentata nemmeno la stessa Presidente della Vigilanza, Barbara Floridia (Movimento 5 Stelle). Ci domandavamo, in quell’intervento: la stessa Presidente tace: assente a sé stessa, oppure l’accordo partitocratico che ha portato alla sua elezione ha implicato un suo tacito impegno ad una presidenza in stile “quieta non movere et mota quietare”?!

Ricordiamo che il contratto di servizio della Rai, stipulato tra il Ministero delle Imprese e del Made in Italy e la Rai, disciplina la concessione del servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale in Italia, e deve essere rinnovato ogni cinque anni.

Si ricorda anche che, teoricamente, il bilancio di esercizio 2023 della Rai dovrebbe essere approvato entro i primi quattro mesi dell’anno, ma questo termine non è imperativo, e spesso slitta a fine giugno, ovvero i sei mesi previsti dal codice civile per le società per azioni (120 giorni dalla chiusura dell’esercizio).

E con l’approvazione del bilancio giunge a scadenza anche il Consiglio di Amministrazione e si aprono i giochi (partitocratici) per la elezione del prossimo.

Si ricorda che il bilancio deve essere approvato prima dal Cda e successivamente dall’Assemblea dei Soci, che è formata da due azionisti soltanto: il Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) che ha il 99,56 % delle azioni, e la Società Italiana degli Autori e Editori (Siae) che ha lo 0,44 % delle azioni della Rai.

Una fonte quasi sempre affidabile, qual è Dagospia, si domandava ieri l’altro (14 febbraio), in un articolo a firma anonima: “che farà quel cavalier tentenna di Giorgetti? Darà subito il via per l’elezione di un nuovo cda, come vuole Giorgia Meloni (così sarà il nuovo Ad avrà il tempo per metter giù il palinsesto della nuova Rai alla Fiamma), oppure si adeguerà al diktat di Matteo Salvini, che vuole posticipare il nuovo consiglio d’amministrazione a dopo le europee, permettendo a Roberto Sergio di metter mano al palinsesto del 2024/2025?”.

Quel che stupisce è il silenzio-stampa intorno alla Rai futura, dopo la grande ubriacatura del Festival di Sanremo, rispetto a tematiche essenziali e strategiche come le conseguenze della riduzione del canone Rai da 90 a 70 euro ed alla conseguente grave perdurante incertezza di medio periodo nelle economie del servizio pubblico mediale italiano…

Tutti sono presi dal breve periodo, a nessuno sembra interessare il futuro del “public service media” italico tra cinque o dieci anni.

Prosegue l’iter del ‘Tusma’, e re-insorgono gli autori, finora ignorati dal Parlamento

E che dire, ancora, del controverso iter di riforma del Tusma, il “Testo Unico dei Servizi di Media Audiovisivi e Radiofonici”?!

Si tratta di un tema delicato di politica culturale, e peraltro non è esattamente “sganciato” dai futuri possibili della Rai.

Qualche giorno fa, su queste colonne, segnalavamo (denunciavamo) il non coinvolgimento degli autori nelle audizioni parlamentari ed evidenziavamo che una prima lamentazione degli stessi era finalmente emersa il 5 febbraio 2024, con una nota manifestata dalle associazioni Anac (Associazione Nazionale Autori Cinematografici), 100autori (Associazione dell’Autorialità Cinetelevisiva), Wgi (Writers Guild Italia): “l’obbligo di investimento per le piattaforme (20 % dei fatturati delle imprese per l’anno 2024) non deve essere né ridotto, né messo in discussione” (vedi “Key4biz” del 6 febbraio 2024, “La riforma del Tusma verso un allentamento degli obblighi di investimento?”).

Ed è veramente incredibile che il Parlamento non abbia ritenuto di ascoltare la stessa Società Italiana degli Autori e Editori, che pure rappresenta la spina dorsale della creatività del nostro Paese: la Siae associa o no oltre 100mila autori e creativi (ed anche alcune migliaia di editori, peraltro)?! Senza dimenticare che è anche socia, pur di minoranza, della Rai (vedi supra), la quale, rispetto alla revisione del “Tusma” non ci sembra abbia assunto una posizione molto chiara, anche se temiamo prevalga in quelle lande una visione di “deregulation” (la logica è sempre la stessa – “meno regole, più libertà” di manovra – ma ci domandiamo se ha senso per un servizio pubblico televisivo…).

A distanza di una decina di giorni, la voce degli autori è rimasta incredibilmente inascoltata dal Parlamento.

Si ricordi il retroscena politico: il Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano e Fratelli d’Italia (e quindi il Responsabile Cultura del partito, Federico Mollicone, che è anche Presidente della Commissione Cultura della Camera) spingono per mantenere la quota al 20 % per tutelare “la cultura nazionale” nel 2024 (quota che dovrebbe salire al 25 % nel 2025), ovvero l’obbligo di investimento a favore di produzioni indipendenti italiane… La Lega sarebbe invece dell’idea di ridurre al 15 % questa quota, sostiene il deputato Stefano Candiani, vicino al leader Matteo Salvini, ma forse non così vicino come la senatrice leghista Lucia Borgonzoni, che è Sottosegretaria delegata al cinema e all’audiovisivo. Abbiamo già segnalato come silente ma imponente si sviluppi l’attività di “lobbying” di Netflx & Co. La ex Sottosegretaria alla Cultura (settembre 2019-febbraio 2021, Governo Conte I) ed esponente di punta del Movimento 5 Stelle in Commissione Cultura Anna Laura Orrico, ha dichiarato: “il sistema delle quote è importante, ma va semplificato perché non è chiaro”. La deputata ha ragione: non soltanto non è chiaro, ma anche il dataset è carente, il sistema di controlli deficitario e la stessa definizione di “produttore indipendente” assai evanescente. Aggiungeva Orrico: “un report di Agcom ci dice che chi è destinatario di queste quote spesso è in mano a holding straniere, quindi non si riesce a tutelare la produzione indipendente italiana. Per noi è giusto che una parte dei guadagni delle piattaforme vengano reinvestiti in opere italiane”.

Va segnalato che la riforma del Tusma si intreccia intimamente con la riforma del “tax credit”, ma il Parlamento sembra ignorare questa relazione.

Ed il riparto dei 700 milioni della Legge Cinema e Audiovisivo per il 2024? Ed il nuovo Consiglio Superiore del Cinema e dell’Audiovisivo?

Ed è anche correlata alla ripartizione dei 700 milioni di euro dei fondi della Legge Cinema e Audiovisivo per l’anno 2024: anche questa, avvolta nelle nebbie, nessuna notizia sul sito web della Direzione Cinema e Audiovisivo del Mic (retta da Nicola Borrelli).

Peraltro questo “riparto” deve essere sottoposto al vaglio del Consiglio Superiore del Cinema e dell’Audiovisivo, ma anche la ricomposizione di questo organo resta avvolta dal mistero, dato che è attesa da mesi ma il decreto a firma di Gennaro Sangiuliano non vede la luce: perché, questo gran ritardo nella gestazione dell’atto, atteso da molto tempo?!

Ed oggi venerdì 16, s’ode nuovamente la protesta dell’anima autoriale del sistema cinematografico e audiovisivo italico sul fronte “Tusma”…

Dichiarano in un comunicato congiunto 100autori, Anac e Wgi: “rappresentiamo la quasi totalità degli autori e delle autrici d’Italia, eppure, nelle sedi istituzionali veniamo consultati sporadicamente, quando si parla di riformare, migliorare o comunque rimodernare qualsivoglia aspetto del nostro settore. In queste ore in Parlamento si sta discutendo della riforma del Tusma, sul quale la spinta alla deregulation propugnata dagli streamers non può non destare allarme, in un momento storico in cui il mercato dello streaming sta registrando una crescita esponenziale e molto rapida con conseguente aumento dello sfruttamento delle opere in tutte le forme. Sono mesi che chiediamo un dialogo su vari fronti con le istituzioni attraverso appelli, comunicati stampa, email, che vengono sistematicamente ignorati”.  

100autori, Anac, Wgi: “Nessuno ha ritenuto opportuno convocarci per essere auditi in Commissione”

Nessuno ha ritenuto opportuno convocarci per essere auditi in Commissione. Non può essere questa la “ratio” che guida una riforma che incide così profondamente nella nostra professione. C’è un motivo strutturale per cui si stanno valutando modifiche al testo che regolamenta un comparto di vitale importanza per la crescita tanto culturale quanto industriale del Paese quale quello dei media audiovisivi? Qual è? Noi vorremmo conoscerlo, perché nessuno ce lo ha detto, né ce lo ha chiesto”.

Sostengono le tre maggiori associazioni di autori del sistema cinematografico e audiovisivo italiano: “quello che sappiamo è che il sistema in questi anni ha funzionato, ha dato la possibilità al cinema e all’audiovisivo italiano di svilupparsi e di uscire dai confini del Paese con film, documentari e serie di grande successo internazionale, contribuendo a creare l’identità culturale e l’immaginario del nostro Paese. Allora cosa c’è che non va? Cosa dev’essere riformato, perché, e soprattutto: per chi?”.

In verità, riteniamo che lo sviluppo dell’industria audiovisiva italiano, negli ultimi anni, sia dovuto più alla “Legge Franceschini” del 2016 che al sistema delle quote obbligatorie, la cui effettiva funzionalità ed efficacia non è mai stata oggetto di valutazioni di impatto adeguate, né da parte dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (Agcom) né da parte del Ministero della Cultura (Mic).

In ogni caso, è evidente che non ha senso “smantellare” il sistema delle quote ovvero promuovere una sua “deregulation” ulteriore, in assenza di analisi e studi che possano dimostrarne l’efficacia / inefficacia.

Si tratta di un discorso di metodologia di politica culturale, che riguarda la correlata questione, qual è la riforma dei meccanismi del tanto decantato – fino a poco tempo fa, ovvero agli allarmi finalmente manifestati dallo stesso Ministro Gennaro Sangiuliano – “tax credit”, in questi mesi sottoposto ad una riforma anch’essa avvolta delle nebbie (il dossier è in mano alla Sottosegretaria leghista delegata a cinema e audiovisivo, Lucia Borgonzoni).

Gli autori lamentano, come criticità del sistema in essere: “la mancata tutela delle quote di investimento per le produzioni di qualità realizzate dai produttori indipendenti ed eccessiva discrezionalità in materia di deroghe; la problematica relativa alla mancata definizione di “produttore indipendente” e al suo allineamento all’attuale contesto tecnologico e di mercato; la mancata previsione di una regolazione a livello di contenuto dei contratti, volta a correggere le asimmetrie nei pesi di negoziazione tra industria culturale indipendente e piattaforme e negli accordi contrattuali imposti da queste ultime; l’assenza di norme volte ad eliminare “storture” per quanto riguarda il mercato dello streaming, caratterizzato ad oggi da una preoccupante opacità perché la gran parte delle piattaforme non comunica i dati previsti dal dettato normativo, o, nel migliore di casi, lo fa in maniera molto carente o incompleta”.

E concludono: “preoccupante, infine, è la mancata previsione, nel provvedimento in esame, di una regolazione a livello di contenuto dei contratti orientata a tutelare la produzione culturale e i diritti degli autori e artisti interpreti e di misure. Su tali aspetti il Governo mantenendo una politica di deregolamentazione che tutela al massimo grado la libertà dei contraenti, non è intervenuto nell’atto in esame per correggere i meccanismi del mercato che portano inevitabilmente ad una posizione di soggezione della produzione indipendente. Resta la nostra domanda: per chi è questa riforma? A cosa deve servire? Noi restiamo convinti che non si può riformare un settore senza prima aver ascoltato chi lo alimenta e lo rende vivo”.

Come non dare ragione agli autori di 100autori, Anac, Wgi?!

Sia consentita un’addenda: “non si può riformare un settore senza prima averlo studiato ed analizzato adeguatamente, con tecnicalità qualificate e soprattutto indipendenti dai poteri forti del sistema”.

Clicca qui, per la “Memoria relativa a ‘Disposizioni integrative e correttive del Decreto Legislativo 8 novembre 2021, n. 208”, trasmessa al Parlamento il 14 febbraio 2024, da Anac – Associazione Nazionale Autori Cinematografici, 100autori – Associazione dell’autorialità cinetelevisiva, Wgi – Writers Guild Italia.

[ Nota: questo articolo è stato redatto senza avvalersi di strumenti di “intelligenza artificiale. ]

(*) Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult (www.isicult.it) e curatore della rubrica IsICult “ilprincipenudo” per “Key4biz”.