il caso

La riforma del Tusma verso un allentamento degli obblighi di investimento?

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Nel disinteresse dei più, continua l’iter parlamentare di un delicato provvedimento normativo che potrebbe scardinare criteri minimi di tutela del “made in Italy” audiovisivo.

Come è noto, l’Istituto italiano per l’Industria Culturale (IsICult) sviluppa  – tra le proprie attività di centro di ricerca indipendente – un monitoraggio critico continuativo delle iniziative pubbliche e private in materia di politica culturale, economia dei media, dinamiche sociali: nell’ambito di queste attività cura da un decennio la rubrica “ilprincipenudo” per il quotidiano online “Key4biz”, sul quale evidenzia alcuni dei risultati più interessanti del monitoraggio.

Talvolta, da questa osservazione, emerge veramente un senso di sconforto, per due ragioni: la diffusa disattenzione dei media “mainstream” rispetto alle tematiche importanti della politica culturale; la debolezza di molti portatori di interessi nell’entrare in scena, politicamente e/o comunicazionalmente.

L’attenzione dei media è peraltro spesso distratta da vicende minori ed effimere, e questa stessa distrazione finisce per influenzare purtroppo anche l’agenda della politica.

Non entreremo oggi nel merito del Festival di Sanremo, che inizia questa sera martedì 6 per concludersi sabato 10 febbraio, ma in argomento ci limitiamo a segnalare un’eccentrica idea manifestata dall’ex Sottosegretario alle Comunicazioni Vincenzo Vita, nella edizione odierna della rubrica “Rimediamo” che cura per il quotidiano (comunista) “il Manifesto”: perché il Festival deve essere inchiodato alla sede di Sanremo e non potrebbe divenire una manifestazione itinerante lungo la Penisola? Perché la sua organizzazione non viene stabilizzata attraverso una fondazione ad hoc, che dovrebbe peraltro essere gestita con criteri trasparenti e democratici, anche nella selezione dei brani in gara?! Peraltro, in argomento, si noti come, “quest’anno chi vince lo decidono le radio”, come titola Carlo Antini sul quotidiano romano “Il Tempo” di oggi: è stata cancellata la giuria demoscopica… fino all’anno scorso, la classifica finale veniva determinata intrecciando le preferenze della sala stampa, del televoto e della demoscopica; quest’anno, viene introdotta un’altra giuria, formata da rappresentanti di emittenti radiofoniche nazionali e locali… Una maggiore trasparenza e “democrazia culturale”, rispetto ad una manifestazione come Sanremo, è legittima istanza.

Colpisce che quest’oggi una testata come “il Fatto Quotidiano” dedichi particolare attenzione, con richiamo addirittura in prima pagina (in un articolo firmato da Giacomo Salvini intitolato “Spot e film: Mediaset chiede sconti a Meloni”), ad una memoria che Stefano Selli, in rappresentanza di Mediaset (è Direttore delle Relazioni Istituzionali del gruppo) ha deposito in occasione dell’audizione di martedì della scorsa settimana 30 gennaio sulla riforma del “Tusma”, ovvero il “Testo Unico dei Servizi di Media Audiovisivi” (approvato in bozza dal Consiglio dei Ministri il 19 dicembre 2023, ed a Palazzo Chigi deve tornare dopo l’approvazione dei pareri parlamentari)… Il quotidiano diretto da Marco Travaglio addirittura classifica questa notizia come “esclusiva”, allorquando il documento di cui dichiara di essere entrato in possesso (commentando “in anteprima”…), è di assoluto pubblico dominio sul sito della Camera dei Deputati. In calce a quest’articolo, il link per poter leggere il documento.

Cosa contiene, questo documento Mediaset, di tanto… preoccupante?!

La richiesta di non modificare la normativa vigente, fatti salvi: “un leggero ritocco di una sotto quota, una maggiore flessibilità, un’attenuazione delle sanzioni”, ovvero “in particolare, la ‘sotto quota’ di cinema italiano recente va assolutamente rivista, perché è molto vessatoria e pesante; chiediamo poi una maggiore flessibilità applicativa dell’Autorità in caso di violazioni e una riduzione delle sanzioni, che sono sproporzionate…”. Ne abbiamo scritto già su queste colonne: si rimanda al nostro intervento su “Key4biz” del 30 gennaio 2024, “Quanta ipocrisia sulla Rai e silenzio su obblighi di investimento in audiovisivo indipendente”…

È del tutto naturale – in un “libero” mercato – che sia le emittenti televisive, “free” o “pay” che siano, così come le piattaforme ovvero gli “over-the-top” chiedano un allentamento degli obblighi e dei vincoli.

Lo Stato, dal canto suo, dovrebbe ragionare in una prospettiva di sviluppo equilibrato del sistema culturale, che non può essere governato dal mercato soltanto.

Ed abbiamo già segnalato come questa prospettiva “liberista” sia stata sostanzialmente accolta anche dalla stessa Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, considerando che il Presidente Giacomo Lasorella ha dichiarato, nella stessa giornata del 30 gennaio 2024: “bene la semplificazione, forse si può andare verso un’ulteriore flessibilità sia con riferimento all’orizzonte temporale, sia con riferimento alle sanzioni”…

Non abbiamo idea del criterio che è stato adottato nella identificazione della “eletta schiera” degli auditi da parte delle due commissioni parlamentari (presiedute rispettivamente da Federico Mollicone, Fratelli d’Italia, alla Camera e da Roberto Marti, Lega, in Senato), ma è evidente che il Parlamento ha deciso di dare ascolto – almeno finora – prevalentemente a soggetti che propendono per una ulteriore “liberalizzazione” del sistema mediale…

Perché?!

In sostanza, si è addivenuti a una selezione di auditi sulla base di una logica eterodiretta da chi lavora per “liberalizzare” oltre l’assetto del sistema?!

Le richieste di Mediaset di “correzioni” al Tusma: allentare allentare allentare “lacci e lacciuoli”

Il gruppo di Cologno chiede di ridefinire le quote europee in materia di programmazione e investimento (relative agli operatori non di servizio pubblico, Rai è esclusa dal ragionamento).

In particolare, si chiede di:

  • calcolare in modo diverso la quota riservata alla “produzione indipendente”, oggi pari al 12,5 % degli introiti netti annui: Mediaset chiede di calcolarla invece sul “bilancio destinato alla programmazione” (e non sugli “introiti netti annui”), e di includere in tale quota anche “i costi di edizione italiana e doppiaggio di opere originarie di altri Stati membri dell’Unione Europea e dei costi di promozione di ciascuna opera”. Mediaset rimarca che il calcolo sugli introiti non è previsto dalla normativa europea, ma è “frutto di una mera scelta interna” dello Stato italiano. Secondo Cologno, la norma attuale limita proprio la capacità di destinare le risorse alla produzione indipendente ad aspetti diversi della programmazione (come l’innovazione tecnologica) e incide “sulla redditività e sulla sostenibilità economica” degli stessi fornitori di servizi media audiovisivi). Il sistema basato sui ricavi, inoltre, “non tiene in considerazione eventuali difficoltà finanziarie e gestionali delle singole società”;
  • ridefinire il concetto di “investimento”: Mediaset chiede di modificare la stessa definizione di “investimento”, ampliandola al “costo che comprende gli importi corrisposti a terzi per l’acquisto dei diritti e l’utilizzazione delle opere, i costi per la produzione interna ed esterna e gli specifici costi di promozione e distribuzione, nonché quelli per l´edizione e le spese accessorie direttamente efferenti alle opere europee ed italiane”. Questa definizione – rimarca Cologno – “riproduce testualmente quanto previsto dall’articolo 14 dello schema di contratto di servizio della Rai”;
  • ridurre gli obblighi nei confronti del cinema italiano (investimento degli introiti netti annui da riservare a opere cinematografiche italiane): Mediaset chiede di ridurre la quota dall’attuale 3,5 % all’1,75 % e soprattutto di eliminare la “sotto quota” del 75 % riservata alle nuove opere cinematografiche, ovvero quelle risalenti agli ultimi 5 anni (oppure, in alternativa, ampliarla “ad altre forme di produzione audiovisiva”). Questa sotto quota non sarebbe compatibile con l’introduzione di un’ulteriore sotto quota (art. 54, comma 2), che prevede di destinare a opere audiovisive italiane almeno la metà delle quote di investimento. Inoltre, introdurrebbe un “significativo elemento di rigidità a carico dei soggetti tenuti, anche considerato il consistente ridimensionamento subito, negli ultimi anni, dalla distribuzione e dalla fruizione di film in sala”…

Degli auditi il 23 gennaio 2024, la gran parte si è schierata rispetto ad un allentamento delle regole: Sky Italia, The Walt Disney Company Italia, Confindustria Radio Tv (alla quale – si noti bene – aderisce anche Rai), ed una delle varie “anime” dell’Anicaqual è l’Unione Editori Media Audiovisivi

Le parole-chiave sono “allentare” ovvero “ridurre” le “quote di investimento”, così come le “sanzioni” in caso di violazione delle regole…

Univideo – alias Unione italiana editoria audiovisiva media digitali e online – chiede a chiare lettere “una riduzione significativa delle quote di produzione del nostro Paese, che ci sembrano molto alte e irrigidiscono il mercato, rendendo difficile una produzione attrattiva e che tenga conto delle aspettative del pubblico”.

Su fronte diverso invece Confartigianato Cinema e Audiovisivo, che chiede un innalzamento delle quote e l’introduzione di una sotto-quota per i documentari, ed alcune anime dell’Anica ovvero l’Unione Produttori e l’Unione Esportatori, che chiedono una conferma del ruolo della produzione indipendente soprattutto in termini di diritti…

Il 30 gennaio 2024, nell’ulteriore set di audizioni, si dichiarano sostanzialmente favorevoli ad “allentare”… la Motion Picture Association Europea (ovvero la “sezione” europea della potente lobby Mpaa alias Motion Pictures Association of America: vedi l’articolo di Fabio Fabbri su “Key4biz” del 31 gennaio 2024, “Servizi media audiovisivi. McCoy (Mpa Emea): “Tusma opportunità per rivedere normativa investimenti” (Video)), e sono allineati su queste posizioni anche i due esperti coinvolti, Ernesto Apa dello Studio Legale Portolano Cavallo ed Augusto Preta di ItMedia Consulting.

Cartoon Italia chiede l’introduzione di una sotto-quota di investimento obbligatorio a favore dell’animazione: 1 % per le piattaforme e 0,6 % per le tv private lineari…

Voce contraria rispetto all’allentamento degli obblighi è stata invece manifesta con forza da Cartoon Italia, l’Associazione Nazionale Produttori d’Animazione, che, anzi, chiede l’introduzione di una sotto-quota a favore dell’animazione: una sotto-quota dell’1% dell’obbligo di investimento per le piattaforme ed una sotto-quota dello 0,6 % dell’obbligo di investimento per le televisioni private lineari…

Due passaggi della memoria di Cartoon Italia – curata dalla Presidente Maria Carolina Terzi e dal Vice Presidente Alfio Bastiancich – sono particolarmente interessanti, e meritano essere qui riprodotti. Una critica al parere espresso da Agcom: “il riferimento che fa Agcom alla Spagna come modello da seguire ci pare fuorviante oltre che pericoloso. Da un confronto fatto con i nostri colleghi produttori indipendenti spagnoli è emerso che il governo spagnolo ha puntato tutto sulle infrastrutture tecnologiche (grazie a dei finanziamenti della Commissione Europea) per attrarre gli investimenti da parte delle piattaforme e non sugli obblighi di investimento (che in Spagna sono soltanto del 5 %). Questa politica ha effettivamente generato un export di servizi audiovisivi pari a oltre 1 miliardo di euro, ma ha avuto come conseguenza che le società di produzione spagnole da creatori di contenuti made in Spagna si sono trasformate in società di service per gli Stati Uniti. Non assumono più autori e creativi ma professionisti del settore audiovisivo come fossero “operai specializzati” in una catena di montaggio”.

Altra segnalazione: “in conclusione, possiamo dire che il gioco è molto semplice: Netflix, Disney +, Paramount + Amazon etc. prevedono nei prossimi anni miliardi di investimenti in animazione in Europa. Il paese dove saranno indirizzati questi investimenti sarà il Paese dove c’è l’obbligo: cioè per il momento solo la Francia. Di conseguenza, per consentirci di partecipare alla spartizione degli investimenti delle piattaforme americane in Europa, abbiamo bisogno della sottoquota animazione. A questo punto la politica italiana deve decidere se dare alla Francia la vittoria a tavolino o se permettere anche a noi di giocare la partita”.

Il ragionamento è di natura culturale, oltre che imprenditorial-economica: “le piattaforme streaming americane operanti sul territorio italiano, soprattutto dopo il Covid, hanno conquistato il pubblico dei bambini italiani. Oggi i nostri figli stanno crescendo con contenuti americani. Sono bombardati da programmi offerti da un mondo iperconnesso nel quale i genitori hanno perso il controllo della fruizione audiovisiva dei propri figli”. E Cartoon Italia cita la Bbc: “l’identità e la memoria di una nazione nascono dai suoi programmi per i bambini”. Ricordando che il “public media service” britannico investe 10 volte di più rispetto alla Rai nelle coproduzioni per ragazzi…

Il ragionamento di Cartoon Italia è ovviamente focalizzato sull’animazione, ma dovrebbe stimolare osservazioni complessive sull’insieme della produzione audiovisiva “made in Italy”.

“Lo Stato francese non ha ceduto al lobbying americano e supporta i creatori di contenuti e l’identità culturale francese”…

Denuncia Cartoon Italia: “lo Stato francese, che non ha ceduto al lobbying americano e supporta i creatori di contenuti e l’identità culturale francese, ha introdotto una sottoquota animazione del 5 % a carico delle piattaforme (7 % per Amazon). In questo modo, è riuscito a garantire contenuti dal forte valore identitario ma anche ad attrarre e concentrare tutti gli investimenti da parte delle piattaforme e network americani sul territorio francese con la conseguenza del rafforzamento strutturale e finanziario delle società di produzione francesi. Forti di questi nuovi investimenti, negli ultimi due anni i gruppi media francesi hanno acquisito la maggioranza di 9 società italiane d’animazione. Diversi studi d’animazione italiani sono diventati di fatto ‘service’ dei francesi. Ora in queste aziende producono contenuti francesi con creatività francese, ottengono la nazionalità italiana, accedono ai finanziamenti pubblici italiani e assolveranno gli obblighi di investimento del decreto italiano”.

Come dire?! Il “saccheggio” delle società di produzione italiane – che abbiamo denunciato tante volte su queste colonne, focalizzando l’attenzione soprattutto sul soggetto dominante, qual è Fremantle (gruppo Rtl / Bertelsmann) – è anche ad opera delle società di produzioni… francesi: un paradosso!

Tra aporie e paradossi… L’Apa critica Agcom: non sarebbe un “controsenso” concedere “benefici fiscali erogati dallo Stato italiano che vengono elargiti a favore di proprietà straniere”

In argomento, l’Associazione dei Produttori Audiovisivi (Apa) rimanda ad un proprio “position paper” del dicembre scorso (che reca la firma di Chiara Sbarigia, Presidente, ricordando l’anomalia dell’essere paradossalmente anche Presidente di quella Cinecittà al 100 % proprietà dello Stato): “in particolare, secondo l’Agcom l’attuale sistema di tax credit produrrebbe una ‘aporia’ in quanto società, qualificabili come produttori indipendenti in Italia ma non invece all’estero, potrebbero beneficiare di contributi mentre, viceversa, produttori che non sono indipendenti in Italia potrebbero qualificarsi come tali all’estero. Tale situazione non appare invece affatto paradossale. Infatti, è lo stesso regime autorizzato dalla Commissione a prevedere che i beneficiari del regime siano soggetti alla tassazione in Italia. È dunque proprio il carattere fiscale dell’incentivo a richiedere un collegamento con il territorio italiano e, di conseguenza, una valutazione della sussistenza dei requisiti soggettivi sotto il profilo del diritto italiano. Né pare sostenibile l’ulteriore eccezione proposta dall’Autorità, la quale individua un ‘controsenso’ nel concedere “benefici fiscali erogati dallo Stato italiano che vengono elargiti, in ultima istanza, a favore di proprietà straniere”. Una delle condizioni per la compatibilità di un sistema di aiuti di Stato con il mercato interno dell’Unione è, infatti, proprio la circostanza che esso non crei un regime di incentivi selettivo solo a favore delle imprese dello Stato membro concedente. Dunque, qualunque impresa – anche appartenente a un gruppo non italiano – deve poter godere del regime di incentivi, a condizione che siano rispettate le condizioni previste dal regime del tax credit, ivi inclusa l’assoggettabilità a tassazione in Italia”.

Come dire?! Apa versus Agcom, ed anche questo la dice lunga…

Insorgono gli autori, non auditi dal Parlamento: “l’obbligo di investimento per le piattaforme (20 % dei fatturati delle imprese per l’anno 2024) non deve essere né ridotto, né messo in discussione”

Ci domandavamo, su queste colonne, a cosa fosse dovuto il silenzio ovvero la sonnolenza dell’anima creativa del settore, a partire dalla Società Italiana degli Autori e Editori (Siae), che pure rappresenta oltre 100mila creativi del sistema culturale nazionale. Silenzio totale da parte della Siae, incomprensibilmente.

Finalmente, ieri, una voce, pur labile, s’è fatta sentire, anche se non è stata ripresa da nessuna testata giornalistica a parte questa mattina da “il Manifesto”, ed opportunamente IsICult / Key4biz la rilancia…

Le associazioni degli autori Anac (Associazione Nazionale Autori Cinematografici), 100autori (Associazione dell’Autorialità Cinetelevisiva), Wgi (Writers Guild Italia) hanno espresso ieri, in una nota, la “massima preoccupazione per l’andamento della discussione in sede parlamentare sulla normativa riguardante gli obblighi di investimento in opere cinematografiche e in prodotti audiovisivi nazionali da parte delle tv e delle piattaforme operanti in Italia”.

Gli autori e autrici, ovvero sceneggiatori, sceneggiatrici, registe e registi lamentano – giustamente – che “non sono mai stati convocati e ascoltati dalle commissioni, nonostante i contenuti della produzione audiovisiva nascano e prendano vita innanzitutto grazie al loro lavoro e qualsiasi cambiamento venga apportato nel sistema ricada inevitabilmente sulle loro vite professionali”.

E precisano: “in questi anni l’obbligo di investimento da parte delle piattaforme (attualmente stabilito al 20 % dei fatturati delle imprese per l’anno 2024, per arrivare al 25 % dal 2025) ha creato occupazione, ma anche una ricchezza importante di occasioni di racconto di storie, temi e luoghi del nostro paese e, in linea con quanto avviene in altre realtà europee, non deve essere né ridotto, né messo in discussione. Se ciò dovesse avvenire, gli autori sono decisi a compiere tutti i passi necessari per opporsi e far sentire la loro voce”.

Pmi Cinema e Audiovisivo Indipendente: condividiamo la preoccupazione degli autori sull’obbligo di investimento

Un’associazione di piccole e medie imprese del settore cinema e audiovisivo manifesta sostegno rispetto alla preoccupazione ed alla presa di posizione della triade delle associazioni “autoriali” ovvero a Anac, 100autori, Wgi, contro i “big dello streaming” e chiede di modificare il concetto di “produttore indipendente”: “Pmi Cinema Indipendente condivide la preoccupazione espressa dagli Autori sull’obbligo di Investimento. Preoccupazione che attraversa tutto il settore e per questo si condivide con forza la necessità di un rinnovamento del Tusma proprio in vista delle nuove sfide tecnologiche. In questa revisione, si chiede che vada ridefinito e meglio precisato il ruolo del produttore indipendente e più in generale dell’impresa indipendente. La figura del produttore indipendente, come ormai ampiamente appurato, è un caposaldo del settore, e  dunque va perseguita la necessità di definire come “indipendente”  la società di produzione che non sia controllata o collegata a fornitori di servizi media audiovisivi soggetti alla giurisdizione italiana e che cumulativamente per un periodo di 3 anni non destini più del 70 per cento (e non 90) della propria produzione ad 1 solo fornitore di servizi media audiovisivi e che sia titolare di diritti secondari, ossia che il Produttore Indipendente possegga almeno il 30 % dell’intero pacchetto dei diritti di sfruttamento dell’opera”…

Tesi contrapposte, quindi, sui due fronti.

Nessuna reazione (ufficiale) da parte del Ministro Gennaro Sangiuliano (Fratelli d’Italia).

Nessuna reazione (ufficiale) da parte della Sottosegretaria Lucia Borgonzoni (Lega).

Nessuna reazione – curiosamente – da parte di esponenti politici nelle due competenti commissioni di Camera e Senato: chi tace, acconsente?!

Secondo alcuni, il “dietro le quinte” sarebbe in verità caratterizzato – all’interno della maggioranza – da uno scontro piuttosto aspro, ovvero dalla volontà della Lega Salvini di allentare le quote ed obblighi, che si scontra con avverso orientamento da parte di Fratelli d’Italia.

A sinistra, nelle ultime settimane, silenzio assoluto…

Ci si domanda anche perché le competenti Commissioni di Montecitorio e Palazzo Madama non abbiano sentito l’esigenza di convocare in audizione la Direzione Generale Cinema e Audiovisivo del Ministero della Cultura (guidata da Nicola Borrelli), che pure certamente dovrebbe avere “diritto di parola” – ed a pieno titolo – sulla norma in gestazione…

E perché non vengono auditi i rappresentanti del Cnc francese, ovvero quel potente Centre National du Cinéma et de l’Image Animée, che molto potrebbe spiegare ai parlamentari nostrani, rispetto al proprio ruolo a sostegno dell’industria dell’immaginario d’Oltralpe, all’interno di un “framework” normativo che dovrebbe essere preso come esempio lungimirante per la promozione delle culture audiovisive nazionali?!

La dialettica tra coloro che sono “pro” e coloro che sono “contro” le quote, in Italia, è ancora balbettante.

E questo deficit di conoscenza e dibattito porta acqua al mulino degli ultra liberisti…

Su tutto continua peraltro a prevalere quella cappa di nebbia che andiamo denunciando da anni: né il Ministero della Cultura né l’Agcom dispongono infatti di dataset completi e trasparenti, di modelli econometrici, di valutazioni di impatto, di analisi scenaristiche e di studi predittivi, per poter comprendere la reale efficienza ed efficacia dell’attuale assetto normativo, in materia di quote di investimento ed altri obblighi…

E, quindi – una volta ancora – si legifera e si “governa” il sistema sulla base di impressioni e approssimazioni.

E nella confusione e nella nebbia, finisce per prevalere chi riesce a farsi meglio sentire dal Principe…

Clicca qui per la memoria Mediaset sulla revisione del “Tusma”, ovvero sullo “Schema di decreto legislativo recante disposizioni integrative e correttive del Decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 208, recante il Testo Unico dei Servizi di Media Audiovisivi in considerazione dell’evoluzione delle realtà del mercato, in attuazione della Direttiva (Ue) 2018/1808 di modifica della Direttiva 2010/13/Ue (109)”, depositata il 30 gennaio 2023 in Parlamento.

Clicca qui per la memoria Cartoon Italia sulla revisione del “Tusma”, ovvero sullo “Schema di decreto legislativo recante disposizioni integrative e correttive del Decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 208, recante il Testo Unico dei Servizi di Media Audiovisivi in considerazione dell’evoluzione delle realtà del mercato, in attuazione della Direttiva (Ue) 2018/1808 di modifica della Direttiva 2010/13/Ue (109)”, depositata il 30 gennaio 2023 in Parlamento.

[ Nota: questo articolo è stato redatto senza avvalersi di strumenti di “intelligenza artificiale. ]

(*) Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult (www.isicult.it) e curatore della rubrica IsICult “ilprincipenudo” per “Key4biz”.